Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 17 Settembre 2019

Due cortei si incrociano alla porta di Nain: mentre Gesù e il suo seguito entrano, gli altri escono, perché il seppellimento di un morto doveva avvenire fuori dalle mura della città dove si vive.

Siamo alla porta della città, luogo periferico di confine non solo geografico, soglia che separa ciò che è dentro e ciò che è fuori. Quell’incrociarsi come sulla soglia di due mondi diviene incontro che ristabilisce una comunicazione: inaspettatamente reimmette vita nell’esperienza della morte. Gesù infatti interrompe il normale cammino di quella gente verso la tomba. Nessuno gli chiede niente, la donna non lo implora per ottenere un miracolo, ma lui vede, si avvicina, parla, agisce (cf. somiglianze e differenze con 1Re 17,17-24 e 2Re 4,18-37). 

Ricordiamoci della porta di Nain quando giunge la morte nei luoghi della nostra vita. Non sappiamo cosa sarà per noi la morte fino a che non vi entreremo con la nostra carne. Ci troviamo però ad accompagnare altri che “escono dalla città dei vivi”, ed è un modo di cominciare a misurare con i nostri passi il cammino verso la tomba.

Sì, noi cominciamo a sperimentare la morte, talvolta come insensato dolore, quando siamo toccati nella carne dei nostri affetti. Quando siamo tra le lacrime, o ci troviamo a raccogliere quelle di altri, ricordiamoci allora di come il Signore, vedendo questa madre, “fu preso da grande compassione per lei”.

Gesù stesso ha versato lacrime per l’amico Lazzaro (cf. Gv 11,35). Qui non è detto che pianga, ma le lacrime di una madre non lo lasciano indifferente, lo spingono a cercare una relazione con la parola e con il tatto, trasgredendo le regole di purità e le convenienze sociali che avrebbero dovuto tenerlo lontano da quella donna sconosciuta e dal suo morto.

È così che Gesù apre a una speranza che non cancella le lacrime ma le integra e le salva, conducendo oltre. “Non piangere” o forse meglio, essendo un imperativo presente: “Non continuare a piangere”. Lo dice commosso, “preso da viscerale compassione” (esplanchnísthe). L’evangelista usa altre due volte questa forma verbale.

In Luca 10,33 descrive l’emozione di un samaritano che è spinto a prendersi cura di chi non può farcela da solo perché derubato di tutto. E nel brano di oggi, a quella donna rimasta vedova, senza neppure un marito su cui contare, cosa restava se non quel figlio?

In Luca 15,20 lo stesso verbo descrive l’emozione di un padre per il figlio morto e tornato alla vita, perduto e ritrovato. Un figlio unico, pure questo, non perché senza fratelli, ma per la sua insostituibile unicità, preziosa agli occhi del padre, che è poi l’unicità inscritta nel volto e nel nome di ciascuno di noi.

Ciascuno di noi può rimanere preda della morte prima ancora di nascere alla vera vita, può trovarsi a essere come questo ragazzo che forse “aveva disimparato a vivere fino a morire” (Françoise Dolto). 

Gesù gli indirizza una parola che lo risveglia alla sua soggettività. Il ragazzo può allora tirarsi su e cominciare a parlare: ritrova la parola – o forse vi accede per la prima volta –, quell’umano personalissimo esprimersi che fa della sua esistenza morta una vita di relazione con altri.

Lasciamoci risvegliare anche noi ogni mattina dalla parola che nell’ultimo giorno ci rimetterà in piedi al cospetto del Risorto, primo rialzato tra i morti (cf. At 26,23; 1Cor 15,20): “Ragazzo, dico a te, alzati!”.

fratel Fabio

Fonte

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Ragazzo, dico a te, àlzati!

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 7, 11-17

In quel tempo, Gesù si recò in una città chiamata Nain, e con lui camminavano i suoi discepoli e una grande folla.
Quando fu vicino alla porta della città, ecco, veniva portato alla tomba un morto, unico figlio di una madre rimasta vedova; e molta gente della città era con lei.
Vedendola, il Signore fu preso da grande compassione per lei e le disse: «Non piangere!». Si avvicinò e toccò la bara, mentre i portatori si fermarono. Poi disse: «Ragazzo, dico a te, àlzati!». Il morto si mise seduto e cominciò a parlare. Ed egli lo restituì a sua madre.
Tutti furono presi da timore e glorificavano Dio, dicendo: «Un grande profeta è sorto tra noi», e: «Dio ha visitato il suo popolo». Questa fama di lui si diffuse per tutta quanta la Giudea e in tutta la regione circostante.

Parola del Signore

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