Paolo de Martino – Commento al Vangelo di domenica 13 Settembre 2020

La splendida parabola che Gesù ci regala in questa domenica, prende avvio da una domanda di Pietro.

Lui, uomo concreto, ex-pescatore di Cafarnao, vuole una regola precisa sul perdono, un limite oltre il quale il discepolo si possa sentire esentato dal concedere il perdono.

Pietro fa un gesto straordinario, dimostra di avere capito l’invito di Gesù ad amare, è disposto a perdonare fino a sette volte (più del doppio di quanto imponeva la legislazione rabbinica che bloccava a tre il numero massimo del perdono fraterno).

Perdonare sette volte è già un’impresa! Immaginate: un amico si viene a scusare perché vi ha sparlato alle spalle.

Nessun problema: una stretta di mano, pazienza. Sono un cristiano, no?

Torna dopo mezz’ora: ha risparlato male di voi: che fate, lo perdonate di nuovo o vi sentite presi in giro?

Gesù rilancia il gioco: occorre perdonare sempre. Come “sempre”? Come è possibile?

Gesù, nella parabola che segue, spiega il suo punto di vista: il perdono non è l’eroico e improbabile sforzo del discepolo, ma la logica conseguenza di chi prende coscienza di quanto perdono, lui per primo, ha ricevuto dal Signore…

Il testo della parabola sottolinea fortemente la sproporzione tra i due debiti.

Il primo servo si trova a dover trattare su una cifra pari a diecimila talenti.

L’ammontare del debito è volutamente esagerato: il valore di un talento variava tra 26 e 36 chilogrammi d’oro, cioè la paga di un operaio per 6.000 giornate di lavoro, pari a 17 anni di retribuzione. Quindi 10.000 talenti equivalgono a 164.384 anni di lavoro!

Questa è la somma che il re condona al suo servo, andando ben oltre la richiesta di dilazione del pagamento del debito che gli era stata fatta.

Il contrasto che Matteo sottolinea è in riferimento alla somma che il secondo servo deve al primo: cento denari, più o meno tre mesi di lavoro.

Niente a confronto del condono precedente, eppure il primo servo non vuole sentir ragioni e fa rinchiudere in prigione il suo collega.

Siamo chiamati a perdonare perché perdonati, non perché più buoni. Troppe volte dimentichiamo un’offesa subita perché, tutto sommato, ci sentiamo migliori.

Non ti perdono per dimostrare qualcosa, ma perché ne ho un bisogno assoluto, perché il rancore fa male a me prima che a te, perché ho bisogno di abbandonare la rabbia che avvelena la mia vita…

Siamo chiamati a perdonare gratis, non sperando che il nostro perdono cambi l’atteggiamento di chi ci ha offeso: come Gesù, rischiamo di essere ridicolizzati per il nostro gesto, di vedercelo rinfacciare come debolezza.

Poco importa: chi ha incontrato il grande perdono non può fare a meno di guardare all’altro con uno sguardo di comprensione e verità. E concretezza.

Riuscire a perdonare persone che mi hanno profondamente ferito non è cosa semplice.

A volte giocano un grosso ruolo fatiche di tipo psicologico.

Nella concretezza di ciò che sono devo dare il massimo, non pretendere da me il perdono perfetto, che non vivrò mai, ma esercitare il perdono possibile.

Perdonare non è un’amnesia: ti perdono ma non riesco a dimenticare, non ci penso, prevale la volontà all’emozione. Se anche ti incontro, tu che mi hai ferito, continuo ad essere turbato ma voglio augurarti la conversione, voglio che il dolore che mi hai fatto finisca di infettare la mia fragile vita.

Ti perdono perché il perdono guarisce chi lo esercita, non colui a cui viene destinato.

La comunità non è il luogo dove non si sbaglia mai, ma il luogo in cui, una volta sbagliato si fa esperienza del perdono. Terribile quella Chiesa in cui è proibito sbagliare.

La parabola di oggi ci ricorda che il nemico giurato del perdono si chiama giustizia. Il servo perdonato tratta il suo simile con giustizia, anche se alla fine lo prende per il collo e lo strangola. Certo è giusto ma insieme spietato. Si può essere perfetti osservanti della legge ma al contempo malvagi. Onesti e insieme cattivi. Esiste di certo una giustizia che corrisponde alla legalità e questa va osservata solo se la legge è giusta, ma vi è anche una giustizia che oltrepassa la legge e questa si chiama perdono, il quale non dà a ciascuno ciò che si merita, ma dona ciò che l’altro necessita. Per trasformare il mondo non sono sufficienti diritto e giustizia. Occorre vivere ‘da Dio’, ossia usando misericordia.

La parabola inoltre ci educa a non farci mai sentire in debito con Dio.  Il suo perdono nei nostri confronti è sempre previo. Devo passare dalla logica del debito: “devo dare qualcosa a lui”, alla logica del credito: “sono qui per ricevere tutto da lui”.

Questo passaggio è quello che si definisce il passaggio dalla legge al Vangelo: dal considerarsi servi, espiando tutta la vita, alla gioia di essere figli, amati alla follia. Noi pensiamo sempre di dover restituire, o ripagare Dio per qualcosa, sacrificarsi per qualcosa.

Non c’è alcun debito da pagare nei confronti dell’amore, o peggio ancora da riparare, c’è solo da godere del dono.

Dio non vuole che ci consumiamo in un pentimento sterile, al fine di espiare, ma desidera solo che godiamo del suo amore.  Dio è come addolorato di vederci come schiavi che pensano di vivere dovendo sempre sdebitarsi.

Per cui chiedere perdono cosa significherà?, nient’altro che essere disposti ad accettarlo!

Il perdono di Dio è gratuito: non si merita e non si conquista. E’ un dono.

Se invece io voglio conquistarmi (con le preghiere, con le opere, con le buone azioni, ecc.) il perdono di Dio, allora io sono Dio. Ma se io sono Dio allora Dio non esiste più!

Nel vangelo, Gesù non invita mai gli uomini a chiedere perdono a Dio, né a fare penitenze (eccetto un caso).

Il perdono di Dio è sempre certo e sicuro: Gesù non lo chiede all’adultera; non lo chiede alla peccatrice; non lo chiede neppure a Zaccheo.

Gesù chiede, invece sempre, ottenuto il perdono di Dio, di perdonare i propri fratelli. Perché chi ha ricevuto perdono, perdona.

Gesù lo aveva detto, e lo diciamo anche noi, nel Padre Nostro: “Rimetti a noi i nostri debiti come noi li rimettiamo ai nostri debitori” (Mt 6,12).

Ma per ricevere perdono bisogna aprirsi: cioè bisogna lasciare che l’amore di Dio ci entri dentro. Bisogna cioè avere l’umiltà di ricevere e di accettare che Dio ci ami nonostante tutto.

La bella notizia di questa Domenica? Dio perdona come un liberatore. Ti lancia in avanti.

Ti perdona come atto di fede in te.


AUTORE: Paolo di Martino
FONTE: Sito web
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