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don Fabio Rosini – Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020

Il biblista don Fabio Rosini commenta il Vangelo di domenica 26 Luglio 2020, da Radio Vaticana (per il file audio) e dalle pagine di Famiglia Cristiana.

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Come si può scegliere la parte migliore

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi va, pieno di gioia, vende tutti i suoi averi e compra quel campo». L’atto di dare via tutti i propri averi viene normalmente inteso come un’azione di abnegazione e rinuncia, qualcosa che si fa in un’ottica di distacco e sacrificio… niente di più lontano dal Vangelo.

Mai, in nessun luogo, il Signore propone nessuna rinuncia se non in vista di qualcosa di molto più grande e valido. In questo testo, per esempio, l’uomo dà via tutto quel che ha pieno di gioia, perché ha trovato molto di più.

Non esiste alcuna negazione, nel cristianesimo, se non nell’ottica dell’apertura a qualcosa di superiore. Se Dio ci chiede qualcosa è sempre perché ci sta offrendo molto di più. Chi perde la propria vita per amore di Cristo, lo fa perché è proprio così che trova la vita che non si perde più –che si chiama eterna–ed è così che ci si procura un tesoro nel cielo dove ladri non scassinano e ruggine e tarlo non consu- mano. Non si tratta mai di perdere, ma, al contrario, di acquisire.

Come mai abbiamo così spesso metabolizzato il cristianesimo in chiave esclusivamente negante, privante, espoliante? Per il solito problema: perché siamo calamitati dal nostro ego. Ciò su cui si concentra la nostra attenzione è su quel che facciamo noi, non su quel che fa Dio. Allora compare una narrazione della santità o della Chiesa stessa che è alla fin fine una celebrazione di opere di uomini e donne eccezionali, meravigliosi, particolari. E rendiamo la santità un evento intessuto di qualità umane, non un incontro con la grazia che lascia emergere la potenza di Dio negli uomini e nelle donne. In tal modo il cristianesimo è divenuto sangue, sudore e lacrime, non liberazione e salvezza.

LA SCELTA SAGGIA. […]

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Qui tutti i commenti al Vangelo della domenica di don Fabio Rosini


don Ivan Licinio – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

«Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla».

Rimanete in me! Questo imperativo sembra stridere con quelle che sono le ambizioni di libertà costitutive dell’uomo. Come se Gesù ci volesse solo per lui, incatenati a lui.

In realtà, lo sappiamo bene, l’uomo non ha mai ascoltato i consigli di Dio e ha sempre fatto di testa sua. E Dio glielo ha sempre permesso!
Allora il “rimanete in me” non è il bloccare le nostre spinte autonome, gli slanci, la creatività.
Il “rimanete” è come dire: “Per favore fermati qui davanti a me, ti sto facendo più bello di quello che sei. Non temere, ti sto plasmando per il tuo bene, per la tua felicità. Non scappare”.

L’esempio più calzante è quello dello scultore che lavora per sottrazione. Toglie qualcosa con colpi decisi di scalpello. Lo scultore pota come il vignaiolo. Ma se lo fa è perché vede la scultura dietro il blocco di marmo.
Ecco, Dio vede quella meravigliosa creatura che siamo noi dentro l’umanità di cui siamo stati plasmati. Per questo ci dice: “Rimani nel mio amore. Stai fermo. Non vedi che sto facendo di te un’opera d’arte?”.

Buon cammino, insieme.


Fonte: don Ivan Licinio su Facebook

Commento al Vangelo di domenica 26 Luglio 2020 – Comunità di Pulsano

Domenica “delle tre parabole”

L’Evangelo di questa domenica ci presenta le ultime tre parabole del Regno raccolte da Matteo nel capitolo tredicesimo, detto appunto “discorso parabolico”. Il regno costituisce l’oggetto primario della predicazione neotestamentaria. Giovanni Battista e Gesù iniziano la loro predicazione con l’annuncio di gioia: «Il regno di Dio è vicino». La Buona Novella proclamata da Gesù è, in definitiva, la venuta del regno. Che cosa ci vuol dire Gesù? Come nelle precedenti parabole, Gesù non fa ricorso a idee astratte ma consegna delle immagini, affinché gli ascoltatori accolgano facilmente la parola, la conservino nel cuore e, ricordandola, la attualizzino nel loro quotidiano. Queste immagini mirano ancora una volta a far comprendere la dinamica del regno dei cieli, il modo in cui Dio può regnare ed effettivamente regna in quanti sono capaci di ritornare a lui, di convertirsi e di aderire alla buona notizia portata da Gesù Cristo. Domenica scorsa paragonando il regno al seme, al granello, al lievito, Gesù ha detto che questo regno è già presente, ma è ancora lontano dalla sua attuazione definitiva. Il regno si edificherà gradualmente grazie alla fedeltà dei discepoli al comandamento nuovo dell’amore senza confini. Si tratta di un regno che non è di questo mondo, anche se la sua costruzione comincia quaggiù. È un regno universale aperto a tutti, perché è il regno del Padre, comune a tutti gli uomini.

I temi del regno di Dio e della Chiesa appaiono strettamente legati, ma non indicano la stessa realtà. Nella prospettiva del suo compimento finale, la Chiesa coincide veramente con il regno; ma nella sua realtà storica e sociologica sulla terra, la Chiesa è soltanto il terreno privilegiato — e sempre ambiguo a causa del peccato — in cui il regno lentamente si edifica; questo non si lascia imprigionare in nessuna realtà sociologica, neppure di carattere religioso, va sempre al di là di ogni realizzazione concreta in cui si manifesta. Il regno di Dio è già presente, come un seme, ma è necessario che cresca; instaurato da Gesù esso è certamente il compimento dell’antica speranza, ma è anche una realtà che deve edificarsi progressivamente su tutta la faccia della terra. È compito dei cristiani essere gli artefici di questa costruzione sotto l’impulso dello Spirito; essi, come Chiesa, sono prima di tutto a servizio del regno. Dopo i primi tempi la Chiesa ha capito che il regno non è oggetto di attesa passiva, ma che per diventare la realtà definitiva, di cui si possiede la caparra, esige l’impegno costante ed attivo di tutti. Nel regno di Dio tutto è già compiuto, ma tutto deve ancora compiersi e si compie ogni giorno con l’intervento congiunto, in Cristo Gesù, di Dio e degli uomini. Che meraviglia scoprire un tesoro, per un colpo di fortuna o dopo un’ostinata ricerca! Che cosa non si farebbe per trovare l’isola del tesoro, o più semplicemente per vincere il primo premio di una lotteria? La fortuna di ogni vita, l’occasione insperata, è la scoperta, in Gesù, del regno dei cieli. Per possederlo bisogna fare come l’uomo della parabola: vendere tutto quello che si ha, per acquistare il bene a cui si aspira, anche se molti chiamano follia quella che in fondo non è che saggezza, capacità di apprezzare e di cercare ciò che veramente ha valore. Diceva il Card. Newman: «Chiedetevi se dovreste cambiare qualcosa nella vostra vita, nell’ipotesi che il regno scomparisse; se non trovate niente da cambiare, significa che non avete giocato la vostra vita sul Cristo e sul Regno». Il rischio di un’esistenza che punta tutto sul Cristo e sul Regno: è l’esigenza stessa della vita cristiana, la sua caratteristica peculiare rispetto a tutti gli altri modi di vivere. In campo sociale, professionale, e anche familiare, bisogna mantenere sempre una certa misura, ma non nella vita cristiana. Non ammette divisioni la passione per il Cristo, la cui onda potente deve sommergere ogni cosa. Chi vuole seguire il Cristo deve «vendere tutto», senza mercanteggiare, senza scendere a compromessi. Questo non significa rinunciare alla propria libertà. Come parlare ancora di sacrificio, quando il distacco non è che l’altra faccia dell’unione con Gesù, in cui sono tutti i tesori della sapienza e della scienza? Gesù non può che suscitare la gioia, tutta la gioia del mondo: la gioia di scoprire un senso per la propria vita, la gioia di sentirla impegnata nell’avventura della santità. Davvero, tutta la gioia del mondo!

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 67,6-7.36

Dio sta nella sua santa dimora;

ai derelitti fa abitare una casa,

e dà forza e vigore al suo popolo

 

Nell’antifona d’ingresso, Sal 67,6b-7a.36bc, AGC, oggi la Chiesa, la Sposa, celebra il suo Signore che concede la forza (28,11) e la potenza di vivere la vita del Regno. Come per il salmista, il Signore regna e guida dal suo santuario, dove abita nella sua invisibile e imperscrutabile Presenza (v. 6b), e da dove raduna il suo popolo, altrimenti disperso, affinché dimori compatto nella sua Casa (v. 7a), oggi la Chiesa riceve e possiede il suo Tesoro, la Sapienza divina, poiché [la Sapienza] per gli uomini è il Tesoro inesauribile, e quanti la usano diventano amici di Dio (Sap 7,14).

Canto all’Evangelo Cf Mt 11,25

Alleluia, alleluia.

Ti rendo lode, Padre,

Signore del cielo e della terra,

perché ai piccoli hai rivelato i misteri del Regno.

Alleluia.

L’alleluia all’Evangelo è ancora Mt 11,25, adattato e già usato all’Evangelo della Domenica XIV e XVI. Si ripete il motivo-chiave, per sottolineare il dono della rivelazione, ovvero della “comprensione” che distingue i discepoli dagli altri: «Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli» (cfr. Mt 11,25).

Con questa pericope evangelica termina il «discorso di parabole», che ha occupato per intero il cap. 13; Matteo ha comunque altre parabole, variamente collocate. Le tre parabole che si presentano adesso appaiono esigue come estensione; tuttavia come sempre un testo breve e denso è per sua natura diffìcile e ricco. Le prime due parabole, che sono parallele e complementari costituiscono, con quella della rete che segue, il gruppo della seconda terna delle parabole del Regno; esse sono proprie di Matteo. Per il contesto si veda le Dom. XV e XVI. Mentre le altre parabole parlano del regno e dei suoi membri in quanto gruppo, quelle del tesoro e della perla sono indirizzate alle singole persone. In entrambe, l’uomo vende tutto quello che possiede; una significativa somiglianza si riscontra nel racconto del giovane ricco chiamato da Gesù al discepolato (19,21). Il Regno esige una completa rinuncia (cfr. 6,24; 8,18-22; 10,37-39). Nelle prime due parabole l’accento è posto più che sulla rinuncia in sé sul valore supremo del Regno; la rinuncia ha il suo premio. Nella prima parabola viene inoltre sottolineata la gioia della scoperta fatta dal bracciante, motivo sottinteso nella seconda. I due racconti sono una implicita provocazione rivolta agli ascoltatori perché giudichino la scelta del contadino e del mercante. Ogni persona di buon senso non può che approvarli e trovare saggia la loro decisione di non lasciarsi sfuggire l’occasione propizia e di gettare sul piatto della bilancia tutto quanto posseggono. Gesù vuol compromettere chi lo ascolta, spingerlo a prendere posizione nei confronti del regno da lui annunciato come realtà che batte alla porta dell’esistenza umana. Sapendo che le parabole non sono allegorie, rinunciamo a cercare i corrispondenti simbolici per ogni oggetto o azione descritta; fermiamo invece l’attenzione sull’elemento principale del racconto, quello che ci permette di rispondere alla domanda: «Perché Gesù ha raccontato questa parabola?». Ora, dal momento che ogni parabola mira a coinvolgere l’ascoltatore, perché egli formuli un giudizio sulla vicenda raccontata e così si comprometta con un giudizio anche sulla propria vita, possiamo domandarci: qual è il giudizio che Gesù vuol far pronunciare ai suoi ascoltatori? Con ogni probabilità si tratta di un giudizio di stima e di apprezzamento. Il tesoro e la perla sono stati scoperti: il Regno è stato rivelato agli uomini: ora si impone la decisione di non lasciar sterile la scoperta fatta, ma di abbandonare tutto per poterlo accogliere. Ne vale la pena, nessun prezzo è troppo alto; ogni sacrifìcio trova piena giustificazione. Sia il contadino sia il mercante sono stati certamente saggi, perché, avendo trovato qualcosa che vale moltissimo, non se lo sono lasciati scappare; hanno fatto bene a vendere quello che avevano, perché l’acquisto che hanno fatto è ben superiore alle proprietà precedenti. Di fronte a questo evento, conosciuto e giudicato, Gesù interpella i suoi discepoli, che già conoscono il grande valore del Regno: dopo averlo desiderato e cercato, ora l’avete trovato: non vale forse la pena lasciare tutto il resto che ostacola l’accoglienza di Dio? La risposta è certamente affermativa. L’attenzione però non è da porre sul «vendere», bensì sull’ultimo verbo, «comprare»: la fine non è rimaner con le mani vuote, ma ottenere la ricchezza che supera ogni altra ricchezza. Per accogliere il Regno è dunque necessaria una decisione sapiente, una scelta intelligente dei beni, un uso appropriato dei mezzi necessari per giungere al fine tanto importante. Questa decisione poi, compiuta con la consapevolezza dell’acquisto prospettato, non opprime l’uomo ma lo riempie di gioia (v. 44): fuori parabola, si tratta della decisione dei discepoli che hanno lasciato tutto per seguirlo (4,20.22: III Domenica Tempo Ord.) e, al contrario, della triste indecisione del giovane ricco (19,21-22) che non vuole lasciare nulla.

La parabola della rete, ossia la separazione dei malvagi dai giusti alla fine del mondo, è molto simile alla parabola della zizania con cui fa da inclusione a tutto il presente discorso. Non vi è imbarazzo nella scelta perché la Chiesa non ha da scegliere gli uomini; sono gli uomini che devono scegliere la loro strada. La rete raccoglie tutto ciò che trova: la cernita compete solo a Dio. Gli uni si batteranno per la fedeltà alla tradizione, gli altri per la creatività; i responsabili vegliano su questo conflitto, sorgente indispensabile di progresso. L’uomo che sceglie, accetta di perdere ciò che viene escluso dalla sua scelta: la Chiesa, che punta tutto sull’Evangelo, accetta il rischio della defezione.

I lettura: 1 Re 3,5.7-12

A chi è destinata la sapienza. Si può ben gridare e contendere per ottenere un regno; si può essere trascinatori di folle o rivestirsi di maestà o fare gli spavaldi; quando però ci si ritrova soli, nel momento in cui non si ha che se stessi come, interlocutori, ci si accorge di essere assai meschini. Quel minuto di sincerità è allora il minuto della grazia. Si riconoscono infatti le proprie lacune: si scopre ciò che si tiene nascosto agli altri, e spesso anche a se stessi. Allora Dio è presente, più fedele a noi di noi stessi, disposto a dare la sapienza a chi riconosce umilmente di averne bisogno.

Salomone è da poco re. Nel primo periodo del suo lungo e fastoso regno, che per i suoi eccessi e anche per forme di culto idololatrico causò in seguito lo sciagurato scisma tra Israele e Giuda, si comportò bene, «amò il Signore seguendo i decreti di David il padre suo» (1 Re 3,3). Tuttavia sta qui già qui l’allusione a quanto poi sarebbe avvenuto, perché il versetto termina così: «però offriva sacrifici e incenso sugli alti luoghi», contro la legge dell’unità del santuario, e quindi con un primo incentivo all’idololatria. E proprio in uno di questi santuari osa andare a chiedere al Signore l’aiuto necessario (v. 4). Il Signore allora in Gabaon gli appare di notte in sogno (9,2; 11,9). Così fu per Abramo, per Giacobbe, per Giuseppe, per Daniele. Il Signore privilegia talvolta questo mezzo di rivelazione, poiché rende profeti e sapienti anche con sogni (Giob 33,14-18). E l’avvertì anche una volta per sempre parlando ad Aronne e a Mirjam nel deserto:«Ascoltate bene le mie parole, voi! Se esiste un profeta del Signore, Io mi faccio conoscere a lui in visione, Io parlo con lui in sogno» (Num 12,6). Anche nel N. T. Giuseppe riceve nel sonno la rivelazione sul Figlio di Dio e sulla Madre sua (Mt 1,20; 2,13.19). Adesso a Salomone il Signore chiede di domandargli quanto desidera il suo cuore (v. 5). Salomone, che è molto accorto, prima espone al Signore l’anamnesi dei fatti. Il Signore fu buono e generoso con Davide, il padre suo, che si era comportato irreprensibilmente davanti a Lui (2,4; 9,4; Sal 14,2), e per colmo di benevolenza gli donò un figlio secondo la promessa (2 Sam 7,5-16), e quindi un regno che deve proseguire (v. 6; 1,48). Salomone ricorda al Signore altresì che è stato fatto re da Lui (1 Cron 28,5) come successore del padre (v. 7a). Adesso entra nel vivo della questione e per primo fatto espone al Signore che è ancora troppo giovane (1 Cron 29,1), e che non sa «uscire ed entrare»; con tale espressione, che si compone di due estremità, si indica tutto il comportamento umano; in pratica, Salomone non sa che cosa fare e non fare, non sa regnare (v. 7b; Num 27,17), tanto più che ha un popolo numeroso, il popolo scelto, secondo la promessa fatta ad Abramo (v. 8; 4,20, e Gen 13,16, 15,5). A questo punto, dopo la captatìo benevolentìae, il re può avanzare la sua richiesta: desidera la sapienza che solo il Signore può donare (Pr 2,6,9; Gìac 1,5), con cui governare con giusti giudizi (così il Re messianico, Sal 71,1-2), distinguere il bene e il male in favore del suo popolo (Is 7,15; 2 Sam 14,17, Ebr 5,14. con la Parola) (v. 9). Al Signore la richiesta piace (v.10), e manifesta il suo compiacimento, perché Salomone non chiese vita lunga, ricchezze, vittorie, ma l’intelligenza della giustizia (v. 11). Perciò adesso eseguirà la sua parola, con il dono di tale intelligenza, che mai più sarà eguagliata (v. 12; 4,29-31; 5,12; 10,23-24; Sir 1,16; Pr 2,3-6).

Il Salmo responsoriale: 118,57 e 72.76-77.127-128.129-130, Dsap

Il Versetto responsorio: «Quanto amo la tua legge, Signore!» (v. 97a, dalla stanza XII) fa ripetere insistentemente l’amore dei fedeli per la Legge santa del Signore (vv. 113.140.159. 162; 1,2; Rom 7,22). Per l’inquadramento del salmo, riportiamo quanto detto nella Domenica VI di questo Tempo: «Il più esteso Salmo del Salterio è il più splendido «elogio della Parola» divina dell’intera Scrittura (vedi qui i Sal 1 e 18), ed è anche la più intensa sua contemplazione. Va detto che l’elogio della Parola si trova presente a tratti anche in molti altri Salmi. Una caratteristica del Sal 118 è che procede per via delle lettere dell’alfabeto. Come si sa, le lettere dell’alfabeto ebraico sono 22; ora, ogni lettera qui è usata in modo che una stanza o strofa di 8 versetti cominci sempre con quella, e così fino alla fine. Inoltre, gli 8 versetti riportano a loro volta quasi di regola 8 sinonimi per Parola o Legge, ossia 7+1, la pienezza; essi sono (non tenendo conto delle varianti delle traduzioni moderne): Legge, testimonianze, vie, comandi, statuti, precetti, decreti, Parola. Ora, se con 8 si indica la pienezza, anche con 22 viene fuori questo concetto. Il ragionamento del Salmista (anche negli altri Salmi «alfabetici», molto più concisi) è questo: io vorrei, Signore, esprimere davanti a Te tutto quello che sento; ma il mio vocabolario è esiguo e inespressivo per un compito così grande. Allora io Ti dono tutta la mia lingua, che è la combinazione dell’alfabeto, e Te la presento nel simbolo delle 22 lettere. Il resto, devi compierlo Tu. I presenti versetti sono desunti dalle «stanze» del Salmo, ordinate secondo le 22 lettere dell’alfabeto ebraico. E così il v. 57 dall’VIII stanza, lettera Het; il v. 72 dalla IX, Tet; i vv. 76-77 dalla X, Iod; ì vv. 127-128 dalla XVI, ʻAjin; i vv. 129-130 dalla XVII, Pe. Come si sa, il Sal 118 è contemplazione che si fa «elogio della Parola». L’Orante afferma la sua ferma fede, rivendicando che la sua sorte, il lotto ereditario (15,5), è custodire la Legge divina, meditandola e osservandola (v. 57). Essa per lui è il Tesoro, che vale più di 1000 pezzi d’oro e d’argento, un numero sterminato (v. 72; e vv. 14.127; 18,11; Pr 8,10-11). Ma contestualmente prega che secondo la promessa divina per i fedeli, il Signore gli manifesti la sua Misericordia, l’unica consolazione della sua povera esistenza (v. 76; 108,21). Dalla meditazione della Legge, che riempie la sua esistenza, sa che può chiedere le divine misericordie, che sono vivificazione per lui (v. 77; Lam 3,22). Quindi afferma di nuovo che ama i precetti divini più dell’oro e del topazio prezioso (v. 127; vv. 14.72; 18,11; Pr 8,10-11), e che la sua esistenza è stata sempre diretta verso tutti i comandamenti che il Signore ha fatto conoscere, mentre ha odiato sempre la “via” o comportamento, dell’iniquità (v. 128; e v. 104). Di fronte alle testimonianze rivelate del Signore, l’Orante si è ritrovato sempre in rinnovata sorpresa, essendo esse «fatti mirabili» (vv. 18.27), e così non ha fatto altro che darsi alla loro contemplazione (v. 129). Non solo, ma è stato illuminato dall’esposizione delle Parole divine (v. 105; 18,9). Da tale dottrina i “piccoli” come lui, gli umili e devoti, ricevono dal Signore l’intelligenza per comprendere tutti i suoi Disegni (v. 130; 18,8; Pr 1,4; Sap 10,21). Così avviene il rimando all’Evangelo di oggi, e al «giubilo messianico» di Mt 11,25.

Esaminiamo il brano

44 – «simile a un tesoro nascosto nel campo»: Anche in questo caso, il regno è paragonato all’intero quadro che segue. Le due parabole (del tesoro e della perla) probabilmente circolavano in coppia. Sono state incluse nel «giorno delle parabole» di Matteo a causa della parola di richiamo «campo» usata nella prima parabola. Data l’instabilità politica della Palestina e la continua minaccia di invasioni, nascondere sotto terra i propri preziosi era il mezzo migliore per proteggerli. In Oriente il ritrovamento fortuito di un deposito di monete o di altri oggetti preziosi non è cosa immaginaria, come le moderne scoperte archeologiche confermano largamente. In un mondo non ancora assestato e in cui il pericolo di invasioni nemiche o di briganti era ininterrottamente presente, numerosi capifamiglia sotterravano i loro piccoli risparmi nella speranza di un ritorno che poi non si avverava mai. Qui si suppone che l’attuale padrone del campo non sia a conoscenza di ciò che vi è nascosto. I rabbini discutevano proprio su questo punto: se chi acquista un campo ha diritto al tesoro che vi può trovare. La parabola presuppone che poteva farlo.

«lo nasconde di nuovo»: nel genere letterario delle parabole non viene preso in considerazione l’aspetto morale delle azioni descritte; così nel caso classico del fattore infedele (Lc 16,8). Gesù non pronuncia alcun giudizio sull’etica dello scopritore, ma utilizza la sua avarizia come un esempio dello zelo con il quale il credente deve accaparrarsi il regno, a qualsiasi prezzo.

«e compra quel campo»: L’enfasi di questa parabola (e di quella della perla) è posta sul grande valore di ciò che uno trova (= il regno) e sulla incondizionata reazione che dovrebbe sollecitare. Notare lo stato d’animo: «pieno di gioia». L’accento è posto sul grande valore di ciò che si trova, non su ciò a cui si deve rinunciare per venirne in possesso.

«pieno di gioia»: è la gioia ben comprensibile dell’inatteso possesso di una favolosa ricchezza, gioia che accompagna il sacrificio, pur doloroso, di tutti i propri averi. Il tema della gioia, caratteristico del terzo Evangelo (cfr. Lc 1,47; 2,10; 24,52), fa la sua comparsa anche in questo di Matteo (cfr. 2,10).

45-46 «simile a un mercante … perle preziose»: La ricerca delle perle preziose presenta una dinamica diversa dalla parabola del tesoro. In quest’ultima l’oggetto prezioso era una sorpresa, mentre qui è il risultato di una ricerca fatta di proposito. Per gli altri aspetti l’enfasi è la stessa: il grande valore di ciò che uno trova (= il regno) e la ferma volontà di possederlo.

«va in cerca»: Lo sforzo della ricerca è l’insegnamento proprio della parabola della perla che integra quello del tesoro; è una condizione indispensabile perché uno possa «trovare» i beni non visibili del Regno (cfr. Mt 7,7: «chiedete e vi sarà dato; cercate e troverete; bussate e vi sarà aperto»).

47 – 50 – Parabola della rete, ossia la separazione dei malvagi dai giusti alla fine del mondo; simile alla parabola della zizania, il tema della presenza di entrambi i buoni e i cattivi nella Chiesa è qui ancora più chiaro e la soluzione escatologica è identica.

«simile a una rete gettata nel mare»: Si tratta di una «grande rete da pesca», che viene tirata da due barche, oppure stesa con una sola barca e poi tirata a riva con due lunghe cime. La dinamica di questa parabola è la stessa di quella del grano e della zizzania (Mt 13,24-30); le due parabole formano una coppia. Per comprendere la parabola di Gesù occorre comunque fermarsi un pò sulla classificazione biblica dei pesci a uso commestibile. È noto che esistono nella Bibbia prescrizioni, spesso di origine locale e folcloristica, che regolano le scelte alimentari orientandole in chiave sacrale. È il caso dei pesci, che sono commestibili solo se dotati di squame e pinne. Così si legge, infatti, nel libro del Lv 11,9-12. Ecco allora la spiegazione del dato simbolico centrale della parabola: i pescatori «raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi». Questa prassi, codificata dalla legge biblica, per Gesù rappresenta simbolicamente il giudizio finale; allora gli angeli di Dio «separeranno dai buoni i cattivi» che per ora, come il grano e la zizania, vivono insieme nel mondo, e getteranno i perversi “nella fornace ardente” del giudizio divino. Mentre è ribadita la sorte dei malvagi, è taciuta, perché anticipata (v. 43), la sorte dei buoni.

48 «Quando è piena»: Come il grano e la zizzania devono giungere a maturazione, così la rete deve essere riempita prima che possa avvenire la cernita. Il termine «piena» è affine al «numero pieno» applicato a «tutte le genti» in Rm 11,25. Qui però non c’è nessuna distinzione tra Giudei e pagani, ma piuttosto tra i giusti e i malvagi (ossia, tra coloro che ascoltano la parola di Gesù e coloro che non l’ascoltano).

«i cattivi»: Il termine sapra si riferisce:

1) agli animali marini non commestibili

2) ai pesci impuri (vedi Lv 11,10-12) che non hanno «né pinne né squame».

Come nella parabola del grano e della zizzania, il momento della separazione dei buoni dai cattivi verrà quando sarà raggiunta una certa pienezza. I «cattivi» vengono buttati via, non ributtati in mare.

La comunità cristiana sta vivendo al presente il momento della pesca: i discepoli hanno lasciato le loro barche e le loro reti, per diventare al seguito di Gesù pescatori di uomini. Alla Chiesa compete la missione, non il giudizio: questo è lasciato nelle mani di Dio per il tempo della fine, quando sarà chiaro chi ha fatto le scelte sagge e chi invece ha stupidamente preso decisioni sbagliate.

49 – «Così sarà alla fine del mondo»: La spiegazione è simile a quella del grano e della zizzania (vedi Mt 13,36-43); anche questa probabilmente è opera dello stesso Matteo. L’idea degli angeli che operano la separazione è espressa anche in Mt 13,41. In entrambi i casi il loro ruolo è stato probabilmente suggerito dalla pluralità dei mietitori e dei pescatori.

50 «nella fornace ardente»: Questa espressione e quella che segue («pianto e stridore di denti») sono già state usate in Mt 13,42. Anche in questo caso l’idea della tolleranza e della paziente attesa implicita nella parabola ha ceduto il posto ai temi del giudizio e della punizione.

51-52 – Questo brevissimo brano è la conclusione del discorso parabolico; in questi versetti, propri di Matteo, l’evangelista probabilmente dà un’idea della sua qualità di «scriba» cristiano.

«Sì»: la risposta pronta e risoluta dei discepoli contrasta in qualche modo con la lentezza, rilevata spesso nell’Evangelo di Marco, con cui essi apprendevano l’insegnamento di Gesù. A Matteo preme mettere in risalto la fondamentale differenza tra l’atteggiamento restio o addirittura ostile di molti e quello di pronta accettazione dei discepoli.

«Avete capito…?»: Qui «tutte queste cose» si riferisce agli insegnamenti di Gesù sul regno così come sono espressi nelle parabole. Questi comprendono la presenza del regno, i suoi umili inizi, le diverse reazioni, la straordinaria pienezza del regno e il giudizio che alla fine si avrà.

52 «ogni scriba, divenuto discepolo»: Alcuni interpretano l’espressione come un autoritratto dell’evangelista. Originariamente incaricati di redigere documenti legali, gli scribi sono diventati esperti in questioni legali e nell’interpretazione della Torah. Il verbo mathéteutheis («che è divenuto discepolo» o «che è stato addestrato») ha perfino il suono del nome «Matteo». Sia che l’espressione alluda a Matteo o meno, l’applicazione più comune riguarda il cristiano matteano il quale fa tesoro delle cose nuove (ciò che è avvenuto in e per mezzo di Gesù) e delle cose antiche (l’eredità ebraica). È probabile che il paragone si riferisca ad un preciso ricordo storico del Signore che tuttavia non deve aver avuto alcun riferimento alle parabole nel loro contesto originale.

«simile a un padrone di casa»: Lo scriba è paragonato a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche. Sia il nuovo che l’antico ha grande valore; il nuovo non rende il vecchio inutile.

I discepoli a differenza della folla, hanno compreso la parola di Gesù, rivelatrice della realtà segreta del regno di Dio. Per questo possono essere definiti nuovi maestri della Legge: nuovi perché discepoli di Cristo e come tali partecipi della rivelazione ultima del Padre da lui fatta.

Nel detto l’accento cade sulla combinazione del nuovo e del vecchio: in pratica i discepoli di Gesù, ammaestrati nei segreti del Regno, sono in grado di insegnare la novità del messaggio cristiano e di mostrarne la continuità con l’AT.

Questo accadrà per quei maestri della Legge che si convertiranno all’annuncio evangelico, integrando così la conoscenza dell’AT con la novità della conoscenza dei segreti del Regno di Dio. Nessuno dei due è sufficiente senza l’altro: l’Evangelo infatti è la pienezza, il compimento della Legge.

Il messaggio della tolleranza paziente e del lasciare a Dio la regolazione dei conti è valido anche oggi. In un mondo in cui assistiamo a innumerevoli conflitti in nome della religione, della razza, dell’identità etnica, e così via, questo è un consiglio quanto mai attuale.

Mentre cristiani ed Ebrei cercano di operare per un rapporto più positivo e di reciproca fiducia, il messaggio di Matteo rappresenta almeno un primo, benché minimo, passo sulla strada del ricupero della più completa e più adeguata soluzione presentata da Paolo in Romani 11:

«Non voglio infatti che ignoriate, fratelli, questo mistero, perché non siate presuntuosi: l`indurimento di una parte di Israele è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti. Allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto:

       Da Sion uscirà il liberatore,

        egli toglierà le empietà da Giacobbe.

       Sarà questa la mia alleanza con loro

        quando distruggerò i loro peccati.

Quanto all’evangelo, essi sono nemici, per vostro vantaggio; ma quanto alla elezione, sono amati, a causa dei padri, perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili! Come voi un tempo siete stati disobbedienti a Dio e ora avete ottenuto misericordia per la loro disobbedienza, così anch`essi ora sono diventati disobbedienti in vista della misericordia usata verso di voi, perché anch`essi ottengano misericordia. Dio infatti ha rinchiuso tutti nella disobbedienza, per usare a tutti misericordia! (11,25-32)».

E ovviamente va ricordata ai lettori di qualsiasi generazione la stupenda promessa e l’inestimabile valore del regno di Dio che sono così chiaramente abbozzati nelle due coppie di brevi parabole.

II Colletta

O Padre, fonte di sapienza,

che ci hai rivelato in Cristo

il tesoro nascosto e la perla preziosa,

concedi a noi il discernimento dello Spirito,

perché sappiamo apprezzare

fra le cose del mondo

il valore inestimabile del tuo regno,

pronti ad ogni rinunzia

per l’acquisto del tuo dono.

Per il nostro Signore…

Fonte: Abbazia di Santa Maria a Pulsano

Esegesi e meditazione alle letture di domenica 26 Luglio 2020 – don Jesús GARCÍA Manuel

Prima lettura: 1 Re 3,5.7-12

In quei giorni a Gàbaon il Signore apparve a Salomone in sogno durante la notte. Dio disse: «Chiedimi ciò che vuoi che io ti conceda».  Salomone disse: «Signore, mio Dio, tu hai fatto regnare il tuo servo al posto di Davide, mio padre. Ebbene io sono solo un ragazzo; non so come regolarmi. Il tuo servo è in mezzo al tuo popolo che hai scelto, popolo numeroso che per la quantità non si può calcolare né contare. Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male; infatti chi può governare questo tuo popolo così numeroso?».  Piacque agli occhi del Signore che Salomone avesse domandato questa cosa. Dio gli disse: «Poiché hai domandato questa cosa e non hai domandato per te molti giorni, né hai domandato per te ricchezza, né hai domandato la vita dei tuoi nemici, ma hai domandato per te il discernimento nel giudicare, ecco, faccio secondo le tue parole. Ti concedo un cuore saggio e intelligente: uno come te non ci fu prima di te né sorgerà dopo di te».

Nella scena rievocata in questo brano (1 Re 3,3-15) ci troviamo agli inizi del regno di Salomone, quando ancora non si ha nessun indizio della perversione che secondo il racconto biblico successivo caratterizzerà il resto della sua vita (1 Re 11). Qui il giovane re ci viene presentato come un modello di uomo saggio, che chiede come supremo dono da Dio il giusto discernimento per poter governare bene il suo popolo. La saggezza di Salomone, caratterizzata altrove anche per una vasta conoscenza di carattere enciclopedico (cf 1 Re 5,9-14), viene qui qualificata come capacità di comprendere i propri limiti, e nello stesso tempo di sentire la necessità dell’aiuto del Signore per «distinguere il bene dal male» (v. 9).

Ciò è possibile col dono del «cuore docile» (lett. in ebraico «cuore che ascolta»), definito poi come «un cuore saggio e intelligente» (v. 12). Così, non si tratta tanto di una saggezza quantitativa, ma qualitativa. È interessante notare come la sapienza preferita in questa preghiera da Salomone sia contrapposta agli altri beni di carattere più mondano che pure sono considerati importanti nell’Antico Testamento: vita lunga, ricchezza e, specialmente per un re, morte dei nemici.

Proprio diverse, rispetto a questo ultimo punto, erano state le raccomandazioni di Davide al figlio prima della morte (1 Re 2,5-9). Inoltre, Salomone ha riconosciuto prima la fedeltà del Signore alla promessa fatta a Davide, per cui ringrazia il suo Dio per aver ereditato il trono di suo padre (v. 6).

Seconda lettura: Romani 8,28-30

 

Fratelli, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno. Poiché quelli che egli da sempre ha conosciuto, li ha anche predestinati a essere conformi all’immagine del Figlio suo, perché egli sia il primogenito tra molti fratelli; quelli poi che ha predestinato, li ha anche chiamati; quelli che ha chiamato, li ha anche giustificati; quelli che ha giustificato, li ha anche glorificati.

In questi tre brevi versetti anche Paolo ci offre un suo abbozzo del tema del regno di Dio, più caratteristico dei vangeli sinottici. Egli ci vede coinvolti in esso, in quanto corrisponde al «disegno» di Dio per noi. Giunto alla conclusione della sua esposizione della storia della salvezza che costituisce l’argomento della Lettera ai Romani, Paolo contempla in anticipo il suo compimento nella glorificazione finale insieme a Cristo, dopo che si sono percorse le tappe intermedie della elezione, della chiamata e della giustificazione. Tenendo presente tutto questo, egli può dire prima che «tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono chiamati secondo il suo disegno».

Nel v. 28 abbiamo in Paolo uno dei pochi casi in cui il verbo amare ha Dio come oggetto e l’uomo come soggetto (gli altri casi si hanno in 1 Cor 2,9; 8,3; Ef 6,24). Ma anche in questo caso non si deve dimenticare che ci troviamo inseriti in un processo nel quale l’iniziativa è esclusivamente di Dio che chiama. Del resto prima Paolo ha parlato chiaramente dell’amore con cui Dio ci ha preceduto facendoci dono del suo Spirito: «La speranza poi non delude, perché l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (5,5). Questo concetto è ancora ribadito in 1 Giov 4,10: «Non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati».

Vangelo: Matteo 13,44-52

In quel tempo Gesù disse ai suoi discepoli: «Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde; poi  va, pieno di gioia, vende tutti i suoi  averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra. Ancora, il regno dei cieli è simile a una rete gettata nel mare, che raccoglie ogni genere di pesci.

  Quando è piena, i pescatori la tirano a riva, si mettono a sedere, raccolgono i pesci buoni nei canestri e buttano via i cattivi. Così sarà alla fine del mondo. Verranno gli angeli e separeranno i cattivi dai buoni e li getteranno nella fornace ardente, dove sarà pianto e stridore di denti. Avete compreso tutte queste cose?». Gli risposero: «Sì». Ed egli disse loro: «Per questo ogni scriba, divenuto discepolo del regno dei cieli, è simile a un padrone di casa che estrae dal suo tesoro cose nuove e cose antiche».

Esegesi 

Possiamo distinguere in questo brano evangelico tre brevi sezioni:

1) Il tesoro nascosto e la perla preziosa (vv. 44-46)

La forza evocatrice di queste due brevi parabole balza immediatamente agli occhi attraverso le due qualifiche abbastanza simili che le riassumono emblematicamente: tesoro, (perle) preziose. Queste due condizioni mettono in moto l’interesse di chi è capace di apprezzarle. Ma il contesto umano presupposto alle due immagini è diverso. Il tesoro na-scosto è scoperto per caso da chi lavora un campo non proprio per conto di estranei, mentre le perle preziose riguardano un mercante che lavora professionalmente per cercarle. Nell’un caso come nell’altro, ciò che conta è il capire che si è di fronte ad un’occasione da non perdere.

Le due parabole, nella loro brevità, sono formulate in una maniera parallela, giacché in entrambi i casi si ripetono i quattro verbi fondamentali: trova/trovata, va, vende tutti i suoi averi, compra. Solo nel primo caso, trattandosi di una scoperta non prevista, si accentua il senso della sorpresa aggiungendo «pieno di gioia». In realtà, le situazioni evocate dalle due parabole sono un po’ diverse e servono bene a sottolineare due atteggiamenti spirituali differenti nei confronti del regno di Dio. Nel caso del contadino che lavora come salariato, c’è la sorpresa per una scoperta non prevista, ma ciò nonostante egli sa essere abbastanza tempestivo nel prendere le decisioni giuste per non perdere l’occasione di un insperato vantaggio. Nel mercante di perle preziose questa disposizione è più esplicita e in qualche modo più scontata.

Anche di fronte al regno di Dio il nostro segreto desiderio di scoprirlo può presentare prima dell’incontro diversi gradi di consapevolezza, i quali conducono comunque ad un certo punto al passo decisivo dell’impegno personale e di una svolta di vita.

2) La rete gettata nel mare (vv. 47-50)

A proposito di questa parabola si deve ripetere quanto abbiamo osservato per quella che parlava del grano e della zizzania. Anche qui si parla di un elemento negativo, i pesci cattivi o scadenti da gettare via, i quali però non costituiscono l’oggetto principale di tutta l’operazione, ma solo una condizione necessaria per la realizzazione della finalità specifica della pesca, la raccolta dei pesci buoni. Usando lo stesso simbolo, suggerito allora dal suo mestiere. Gesù aveva detto a Pietro: «Non temere, d’ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5,10).

La conclusione della parabola (vv. 49-50) è simile a quella precedente relativa alla spiegazione aggiunta alla parabola del grano e della zizzania (vv. 41-42): angeli, fornace ardente, pianto e stridore di denti.

3) Il vero scriba (vv. 51-52)

Gli scribi, esperti della Scrittura ebraica e della tradizione, rappresentano in Matteo una categoria di persone che, accanto ai sommi sacerdoti e ai farisei, sono menzionati molte volte in modo negativo e polemico, in quanto sono incapaci di comprendere la novità del messaggio di Gesù. Solo qui e in Mt 23,34 («Perciò ecco, io vi mando profeti, sapienti e scribi; di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe e li perseguiterete di città in città») sembra che vengano visti in senso positivo. Ma nel nostro passo si dice chiaramente che si tratta di uno scriba convertito, che è divenuto «discepolo del regno dei cieli». Così il riscatto della sua figura avviene attraverso il suo superamento, per ribadire che il vero scriba è ormai quello che si fa discepolo, in analogia con quanto si è detto in Mt 11,11 : «In verità vi dico: tra i nati di donna non è sorto uno più grande di Giovanni il Battista; tuttavia il più piccolo nel regno dei cieli è il più grande di lui». Ma nello stesso tempo si sottolinea un elemento di continuità tra l’antica e la nuova economia in armonia con quanto è stato detto ancor prima: «Non pensate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto per abolire, ma per compimento» (Mt 5,17).

Se lo scriba offre qui un modello positivo che si può adattare al discepolo, è in forza di una qualità che gli era riconosciuta come caratteristica: la riflessione sui sacri testi della tradizione che può essere integrata con le osservazioni tratte dalla vita di ogni giorno; di tale atteggiamento si ha un esempio molto significativo proprio nelle parabole.

In realtà, questo detto sullo scriba-discepolo suggella per Mt tutto il suo capitolo delle parabole, quasi a voler suggerire l’analogia che c’è tra il procedimento del discorso parabolico e l’attività esegetica dello scriba, che diventa feconda quando non si cristallizza sulle conoscenze del passato, ma si sa aprire agli orizzonti dischiusi dalla nuova rivelazione di Dio anche attraverso gli eventi della vita quotidiana.

Meditazione

La sapienza fa l’unità tra prima lettura e vangelo. Sapienza di Salomone che si esprime nel suo pregare, nel suo chiedere a Dio un cuore capace di ascolto, ovvero il discernimento per giudicare e governare, sapienza di Gesù che si esprime nel suo parlare in parabole ma anche sapienza dei protagonisti delle parabole del tesoro e della perla (Mt 13,44-45) che emerge nel loro discernimento e nella loro pronta decisione, e infine sapienza dello scriba divenuto discepolo del Regno che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche (Mt 13,52). La sapienza non è manichea, non elimina l’antico a esclusivo favore del nuovo e non resta ostinatamente attaccata all’antico per timore del nuovo, ma fa del nuovo la reinterpretazione dell’antico e dell’antico il fondamento del nuovo.

La sapienza è l’arte di orientarsi nella vita, l’arte di governare il timone della nave: «l’uomo sapiente terrà saldamente il timone» (Pr 1,5 LXX). È l’arte del traghettatore, di chi governa, di chi istruisce. Ma è anzitutto l’arte di chi governa se stesso. Arte che si ottiene mediante la faticosa conoscenza di sé: «Il vero inizio per crescere in virtù è conoscere se stesso. Colui che si conosce è il solo padrone di sé e, senza avere un regno, è veramente un re» (Ronsard). È l’arte di cui oggi, nello smarrimento e nel disorientamento in cui viviamo, abbiamo grande bisogno. «Tu il tesoro, Tu la perla preziosa; o Signore, Tu hai incontrato me, non io ho trovato Te; Tu hai conquistato e afferrato me, non io ho acquistato Te; o mio Tu, io sono tuo». Questa antica invocazione suggerisce che il vero soggetto delle parabole di Mt 13,44-46 non è il mercante che ha acquistato la perla e nemmeno il bracciante che ha acquistato il campo che prima ha lavorato, ma proprio il tesoro, la perla preziosa: essi sono la luce che da nuovo senso e orientamento alla vita e in nome e in vista di cui si può vendere tutto, abbandonare tutto.

E si può lasciare tutto nella gioia. La radicalità cristiana è autentica se sigillata dalla gioia. Anzi, la gioia è costitutiva di tale radicalità, perché questa va vissuta come grazia e nel rinnovarsi di una quotidiana gratitudine. Noi siamo grati di essere nella gioia.

L’esperienza di chi trova il tesoro e vende tutto per esso è in realtà l’esperienza di chi sente la parola di Dio che gli dice: «Tu sei prezioso ai miei occhi e io ti amo; io do uomini e popolazioni in cambio di te» (Is 43,4). È questo amore il segreto della gioia della radicalità di una vita cristiana, è questo amore il bene prezioso da custodire e salvaguardare, è questo amore del Signore e per il Signore che può rinnovare vite tentate da vecchiezza, stanchezza, insensibilità, cinismo, indifferenza. A noi che nella preghiera diciamo al Signore: «Sei tu il mio Signore, nessun bene per me al di fuori di te» e «Sei tu il mio unico bene» (Sal 16,2) e ancora «In te, o Dio, gioisce il mio cuore, esulta il mio intimo» (Sal 16,9), è chiesto di metterci alla prova se Cristo abita in noi (cfr. 2Cor 13,5). E questo perché noi abitiamo là dov’è il nostro tesoro: è il tesoro che ci colloca, che ci situa. Se Cristo abita in noi, noi dimoriamo in Cristo e allora possiamo gioire di gioia indicibile nel cammino verso il Regno. C’è solo da riscoprire ogni giorno la preziosità del dono ricevuto combattendo la tentazione del banale, dello scontato, del «tutto è dovuto».

Sia l’uomo che ha trovato la perla nel campo sia il mercante che ha trovato la perla di gran valore sono accomunati, nel loro agire coraggioso, forse anche folle e poco prudente («vendere tutto per acquistare una sola cosa»), dell’osare la propria gioia. La preziosità di una cosa e di una persona è relativa alla gioia che suscita in noi. La scelta dei due protagonisti delle parabole, così assimilabile alla radicalità cristiana (cfr. Mt 19,21: «Vendi i tuoi beni e dalli ai poveri e avrai un tesoro nei cieli, poi vieni e seguimi»), avviene nella gioia procurata dalla scoperta, prosegue nella gioia di procurarsi il bene prezioso, e custodisce nella gioia anche il momento della vendita di tutto, della privazione di ciò che si possedeva. Ma soprattutto, è promessa di gioia anche per il futuro. A differenza di ciò che avviene al giovane ricco che resta nella tristezza (Mt 19,22).

Commento a cura di don Jesús Manuel García

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don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

Una serie di figure femminili costella il cammino della Chiesa in questi giorni di fine luglio. Oggi è la volta di Brigida di Svezia, donna che ha conosciuto l’esperienza dell’essere sposa, madre, vedova non con l’atteggiamento di chi deve spremere la vita in ogni suo momento ma facendo sì che ogni circostanza divenisse occasione per consegnare tutta se stessa. Una vita per Dio, quella di Brigida, capace di superare tutto ciò che potesse rientrare nella categoria dell’abitudine.  A rileggere la vicenda di questa donna è la splendida pagina del vangelo di Gv.

Quella sera, durante la cena delle consegne, a degli uomini che di lì a poco avrebbero patito sulla loro pelle la forza dirompente della dispersione, Gesù rivelava che nessuno di noi è un naufrago dell’esistenza il cui unico appoggio è la zattera del proprio io. Ciascuno di noi è un essere voluto da qualcuno e ciascuno di noi vive nella misura in cui non decide di tagliare il proprio legame con le sue radici. Questo qualcuno per noi è il Signore: senza di me non potete far nulla. Continuamente Dio favorisce innesti facendo che sì che nuova linfa scorra nelle nostre esistenze. Il problema, semmai, è consentirglielo. Egli, infatti, rimane sempre e rimane sempre come colui che non recide il legame con noi.

Per questo Gesù accompagna questa rivelazione con l’invito a rimanere. Perché mai? Forte è la tentazione di dimenticare che questo legame è vitale per noi. Non poche volte a condizionarci è un bisogno di emancipazione da quel legame che, di solito, si risolve soltanto in una amara solitudine. Ogni uomo, sin dalle origini della vicenda umana, conosce sulla sua pelle il sospetto che questo legame con Dio sia mortifero. È la tentazione dell’autosufficienza, quella di essere un tralcio a sé, sebbene reciso dai canali vitali. Una tentazione che non poche volte si traduce come gusto del nulla.

Quella sera, sulle labbra di Gesù, l’invito a rimanere era quello dell’innamorato che implora il suo amore di non lasciarlo, di non andarsene. Il rimanere è il far sì che un incontro diventi relazione, storia. Quanti incontri suscitati da Dio non hanno poi avuto la perseveranza di una relazione!

Per noi che siamo costituzionalmente impastati di fragilità e di instabilità suona un po’ strano questo insistere di Gesù a mettere radici nella stabilità di Dio. E, tuttavia, a suo dire, è l’unica condizione perché la nostra vita sia feconda. Abbiamo disimparato a stupirci, non sappiamo più cosa sia il commuoversi, il dire grazie. Fondamentalmente abbiamo disimparato persino a stare con noi stessi. Pascal sosteneva che “la maggior parte dei guai delle persone proviene dal fatto che non sanno stare fermi un quarto d’ora”.

Come si fa a rimanere in lui? Gesù lascia un criterio valido per ogni generazione di credenti: se le mie parole rimangono in voi. Ciò che verifica la nostra appartenenza a lui è proprio la capacità di essere custodi del suo vangelo, del suo modo di essere, del suo modo di agire, del suo modo di pensare. Questo verifica la mia comunione con lui: se sono o meno uomo/donna della custodia e degli innesti.

Quando le sue parole sono accolte nella mia vita, compiono quell’opera che Gesù chiama potatura. La parola di Gesù rivela la mia distanza da lui e il bisogno di purificare tutto ciò che ha niente a che vedere con lui. Per questo è il credito dato al vangelo che rende la nostra vita capace di portare frutti.

Quello che io compio, quello che io penso, quello che io dico, attesta dove sono le mie radici, a quale canale attingo, quale relazione mi costituisce come persona, dove riposa il mio cuore. E se l’impotenza che stiamo toccando con mano in tutti gli ambiti della nostra esistenza sia una sorta di ultimo appello a diventare consapevoli che forse ci siamo staccati dalla vite vera?


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Giovani di Parola – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

E come si fa a rimanere in te? Un ramo non si stacca dal tronco finché non si spezza. È la mancanza di linfa che lo fa staccare, non è lo stacco che gli fa mancare la linfa.

Noi Gesù non siamo attaccati e non ce ne accorgiamo mica quando perdiamo la linfa. Non subito, almeno. Sembra che vada tutto bene finché non ci secchiamo a poco a poco.

E forse capiamo che quella volta che non siamo andati a messa perché non ne sentivamo la necessità, quella volta che non abbiamo trovato il tempo per parlarti un po’ di cosa ci stava accadendo, quella volta che non abbiamo ritenuto opportuno confessarsi perché in fondo che sarà mai, quella volta in cui “vabbè se per una volta non faccio la cosa giusta non muore nessuno”… ecco tutte quelle volte ci siamo spezzati. E nello spezzarci abbiamo perso la linfa. E ci siamo seccati.

Aiutaci a riattaccarci per portare frutto, facci capire cosa ci manca, quando ci manca.


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Don Antonio Mancuso – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

Sembra che Gesù voglia dirci e ricordarci che nella vita ci sono diversi tipi di sofferenze… di tagli… di sacrifici… necessari.

Sì, necessari per crescere, perché tutto concorre al bene di coloro che amano Dio… anche la sofferenza… anche il sacrificio… tutto concorre al bene…

E ci sono tagli da fare di cose… di situazioni… che non portano frutto o che addirittura rischiano di rovinare la pianta… la vite… la vita! Ci sono cose… situazioni… e a volte anche rapporti che, se e quando portano alla morte, vanno tagliati!

Ci sono, invece, tagli che sanno di potatura e non sono tagli definitivi… sono tagli di purificazione… sono “aggiustamenti”… che, sicuramente, fanno soffrire… ma che servono per migliorare la pianta… la vite… la vita… servono per purificare… per crescere!

Solo tu… davanti a Dio… puoi sapere se c’è da tagliare… o da potare… se c’è da eliminare… o da purificare…

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AUTORE: Don Antonio Mancuso
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p. Arturo MCCJ – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

Nel vangelo secondo Giovanni ci sono parole di Gesù alle quali purtroppo siamo abituati e che dunque ascoltiamo o leggiamo in modo superficiale.

La pagina odierna è tratta dai “discorsi di addio” (cf. Gv 13,31-16,33), per un ebreo credente la vite è una pianta familiare, che insieme al grano e all’olivo contrassegna la terra di Israele; ma invece di uva buona produce un frutto acerbo che non è buono a nulla (Is 5,3-4). Gesù è la nuova vite, la vera vite.

Dio è il vignaiolo invocato in soccorso della sua vigna devastata e recisa (cf. Sal 80,13-17). Ma in questa parola di Gesù ci viene anche ricordato che non spetta né alla vigna né alla vite purificare, e dunque separare, staccare i tralci: solo Dio lo può fare, non la chiesa, vigna del Signore, non i tralci.

E non va dimenticato che, se anche la vigna a volte può diventare rigogliosa e lussureggiante, resta però sempre esposta al rischio di fare fogliame e di non dare frutto.


Fonte: Telegram

Il canale Telegram “Vedi, Ascolta, VIVI il Vangelo”.

Un luogo dove ascoltare ed approfondire la Parola con l’apporto di P. Arturo, missionario comboniano ?? ???????????, teologo biblista. Se vuoi comunicarti con loro, scrivici a paturodavar @ gmail.com BUON CAMMINO!!!

https://t.me/parolaviva

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don Vincenzo Marinelli – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

“Pota il tralcio perché porti più frutto”

La potatura sopraggiunge all’improvviso sul tralcio che si vede portar via una parte di sè. Da principio questo sembra senza spiegazione, anzi sembra un diminuire il suo rigoglio senza alcun beneficio. Ma poi l’energia vitale che porta dentro di sè lo porta ad andare oltre quel taglio, a riprendere a crescere, a guardare avanti. La linfa ricomincia a scorrere e il tralcio nuovamente a germogliare portando un nuovo e più abbondante frutto. Nella vita umana questi passaggi non sono così naturali e regolari, si rischia di perdersi nel percorso che va dalla potatura al nuovo frutto.

Il dolore, la sofferenza per ciò che si è perso o di cui si è stati privati, la difficoltà di cogliere il senso degli eventi possono mettere alla prova la fede. Il Signore vuole condurti ad un nuovo frutto più abbondante. Spingerti lì dove tu pensi di non riuscire ad andare o di uscirne perdente. Non guardare le tue paure, ma accogli la prova che il Signore ti chiede di affrontare e lascia che Egli tiri fuori da te ancora il meglio di te stesso.

In breve

Dalla prova non sempre può nascere un nuovo germoglio. Un taglio radicale può anche portare alla morte del tralcio. Non lasciarti affondare dal dolore e dalla sofferenza, ma lasciati guidare giorno per giorno dal Signore, lasciando che sia Lui a tirare fuori il meglio di te.


Di don Vincenzo Marinelli anche il libretto:

La buona novella. Riflessioni per l’Avvento e il Natale disponibile su: AMAZON | IBS

Commento a cura di don Vincenzo Marinelli

Piotr Zygulski – Commento al Vangelo del 23 Luglio 2020

Anche se dovessimo pensare di avere una vita già ricca e fruttuosa, siamo chiamati a portare ancora più frutto. La gioia infatti che già possiamo cogliere in un germoglio è poca cosa rispetto all’abbondanza che saremo per gli altri. Vivere la gloria del Padre – quello che altri chiamano vocazione, volontà di Dio, o semplicemente amare – non significa infatti tanto raggiungere un ruolo sociale specifico, quanto piuttosto essere legati alla vigna del Signore, nutrirsi alla sua linfa ed essere docili alle purificazioni.

La liturgia oggi ci invita a leggere questo Vangelo nella figura di santa Brigida di Svezia, patrona d’Europa, mobile di famiglia, laica consapevole, moglie felice, insegnante apprezzatissima, mamma generosa e infine vedova dinamica. Se lei ha portato frutti d’amore nella sua vita famigliare – una chiesa domestica, con suo marito e otto figli, con una carità coniugale ispirata da Francesco d’Assisi che portava la coppia ad aprire ospedali – nella vedovanza ha portato molto frutto, spostandosi a Roma dove, vivendo intensamente l’aiuto per i più poveri, fondò anche un ordine religioso.

È evidente come in Brigida la linfa fosse una appassionata relazione con la Sacra Scrittura, studiata con rigore ma soprattutto vissuta affettivamente, in particolare coinvolgendosi nella contemplazione della Passione di Gesù. Ecco il segreto di Brigida, ascoltare nei cambiamenti esistenziali parole come queste, per lei: «Figlia mia, io ho scelto te per me, amami con tutto il tuo cuore … più di tutto ciò che esiste al mondo». E in ogni condizione, in ogni stadio della sua vita, in ogni luogo di questo mondo discernere il modo per donare al meglio il “di più” che ci è possibile.

Pure a noi, ovunque siamo, è possibile lasciarci purificare le vene per incanalare tutta la linfa di quell’amore speciale di Dio e intrecciati a lui fecondare il mondo.


Commento a cura di:

Piotr Zygulski, nato a Genova nel 1993, dopo gli studi in Economia all’Università di Genova ha ottenuto la Laurea Magistrale in Filosofia ed Etica delle Relazioni all’Università di Perugia e in Ontologia Trinitaria all’Istituto Universitario Sophia di Loppiano (FI), dove attualmente è dottorando in studi teologici interreligiosi. Dirige la rivista di dibattito ecclesiale “Nipoti di Maritain” (sito).

Tra le pubblicazioni: Il Battesimo di Gesù. Un’immersione nella storicità dei Vangeli, Postfazione di Gérard Rossé, EDB 2019.