Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 8 Marzo 2020

L’episodio della trasfigurazione è comune a tutti e tre i vangeli sinottici. Questi sono anche concordi nel riportare la sequenza degli episodi che precedono il racconto, e cioè la confessione di Pietro a Cesarea (cfr. 16,1-20) e il primo annuncio della passione, morte e risurrezione (cfr. 16,21-23). È in relazione a questi eventi già accaduti che bisognerà interpretare quanto avviene dopo (17,1) sul monte, e in relazione a quelli che non hanno ancora avuto luogo, ma che vengono anticipati dalle parole di Gesù. La collocazione più probabile della trasfigurazione è dunque prima della passione e morte di Gesù, anche se da tempo alcuni hanno ipotizzato che – per la forma del racconto dove alcuni elementi rassomigliano alle manifestazioni del Risorto – si trattasse di un racconto post-pasquale ricollocato poi a questo punto per una qualche ragione (vedi, per una situazione simile, l’allusione al Risorto in 14,22-36). Tra l’altro, anche per il fatto che dopo l’episodio della trasfigurazione è narrato quasi subito il secondo annuncio della passione (cfr. 17,22-23), la logica di tutta questa sequenza è chiara: ai discepoli il Padre vuole mostrare («fu trasformato», al passivo: 17,2) la gloria del suo figlio Gesù (cfr. 2Pt 1,17: «Poiché egli ricevette onore e gloria da Dio Padre quando, da parte di quella stessa gloria sublime, gli fu rivolta una voce che diceva: “Il Figlio mio, l’amato, è costui”»). Ciò deve accadere prima che, a causa degli eventi che da lì a poco precipiteranno, si mostri non più il suo volto “trasfigurato”, ma quello “sfigurato” del crocifisso.

Ora non si ha più a che fare con la reazione scomposta di Pietro (cfr. 16,22) o dei discepoli (cfr. 17,23b; 20,20-23) all’annuncio dell’imminente sofferenza del Messia: abbiamo qui invece la reazione di Dio all’incredulità di Pietro. Non solo però i discepoli devono prepararsi alla passione del loro maestro, anche Gesù ha bisogno di istruzioni per intraprendere il “suo” esodo (come specificherà Luca in 9,31): Mosè aveva condotto gli ebrei fuori dall’Egitto, Elia aveva ripercorso i suoi passi, e ora il Messia, aiutato da coloro che hanno vissuto un’esperienza analoga di sofferenza e liberazione, potrà andare deciso verso Gerusalemme.

Il volto e la veste. Nell’organizzare la scena, Matteo si distingue dagli altri vangeli per alcuni elementi peculiari, alcuni dei quali si spiegano a partire dalla tradizione rabbinica. Il volto di Gesù è paragonabile a quello trasfigurato di Mosè sul Sinai, che scendeva dal monte senza sapere che la pelle del suo viso era raggiante (Es 34,29-35), e che però doveva tenere velato. Qui però c’è una differenza rispetto a Mosè: mentre la realtà più profonda di Gesù è “velata” per tutto il vangelo, questa è l’unica volta che quel velo è, per un breve tempo, tolto, e qualcosa della sua gloria trascendente è visibile ai discepoli. Il dettaglio del vestito luminoso di Gesù è ancor più interessante, perché per Matteo esso non è semplicemente – come per Mc 9,3 – bianco in modo straordinario: nel primo vangelo le vesti di Gesù sono «come la luce» (17,2). L’idea potrebbe rievocare la visione del libro del profeta Daniele, quando appare un vegliardo la cui veste «era bianca come neve» (Dn 7,9), ma forse si può andare oltre, e arrivare fino al libro della Genesi. Nelle fonti giudaiche antiche si legge che la prima conseguenza della caduta di Adamo ed Eva fu che divennero nudi.

I loro corpi, nel loro stato originario, non erano “nudi”, ma avvolti da una nube di gloria o di un manto di luce; appena violato il comando di Dio questa veste cadde, ed essi provarono vergogna. Giocando sul fatto che in ebraico «pelle» e «luce» si scrivono quasi allo stesso modo, l’interpretazione rabbinica attestata già nei Targumim (Targum di Gerusalemme [Pseudo Gionata] Gen 3,7.21) sembra insistere sulla relazione tra l’uomo e la donna, che «dovevano essere trasparenti l’uno all’altro. Questa trasparenza doveva essere fonte di gioia e di luce. Dopo il peccato, persero questo vestito di luce che si trasformò in pelle. Adamo ed Eva conobbero la sensualità, la volontà di dominarsi l’un l’altro e di trarre gioia l’uno dall’altro. Il loro itinerario spirituale consisterà così nel ritrovare la luce nonostante la sensualità. L’uomo si troverà a combattere una tensione interiore. Questa lotta è però illuminata dalla speranza messianica. Il Messia, quando verrà – affermano le fonti rabbiniche – riporterà il vestito di luce di Adamo» (F. Manns). Queste suggestive interpretazioni chiariscono il dettaglio dell’abito di luce di Gesù – bianco, appunto, ma luminoso – e riportano il lettore competente alla scena del giardino, dove la trasparenza non è solo nella relazione uomo-donna, ma una possibilità di incontro anche con Dio: Gesù è anche in questo senso il suo “figlio” amato (cfr. 17,5), perché nella sua immagine gloriosa è presente ogni creatura umana, amata da Dio. L’espressione «il figlio amato», così carica di richiami biblici (alla storia di Isacco, «figlio amato», di Gen 22,2, e a quella del popolo di Israele, «figlio» per eccellenza di Yhwh), probabilmente rimanda così anche al primo Adamo, al quale Gesù trasfigurato ha fatto ritrovare la sua originaria trasparenza.

Mosè ed Elia. Molti interpreti si sono chiesti che cosa significasse la presenza di questi due uomini sul monte. Se per alcuni essi rappresenterebbero la Torà e i Profeti, altri giustamente criticano questa soluzione, e ultimamente è stata avanzata l’ipotesi che essi piuttosto siano importanti per quanto Gesù sta vivendo nel momento in cui sale su quella montagna. Mosè ed Elia hanno vissuto eventi paragonabili alla reazione di Pietro all’annuncio della passione di Gesù, che ha avuto luogo pochi giorni addietro, ma è stato narrato appena sopra (cfr. 16,21-23). L’analogia tra gli eventi è data dal fatto che al modo in cui Gesù interpreta il rifiuto di Pietro (come una nuova tentazione, analoga a quelle all’inizio del suo ministero, perché Pietro è come Satana: cfr. 16,23), così Mosè provò l’esperienza del vitello d’oro ed Elia quella della fuga verso l’Oreb. Questi due fatti ebbero luogo proprio su un monte, dopo un fallimento del popolo di Israele che aveva, nel primo caso, costruito un idolo e, nel secondo, sostenuto i sacerdoti di Baal contro cui Elia doveva lottare. A fronte di queste due delusioni, sia Mosè sia Elia chiedono a Dio di morire (cfr. Es 32,32; 1Re 19,4), ma – come risposta – a tutti e due è concessa la visione di Dio. Mosè, spaventato, però, si nasconde nella rupe (Es 33,21-22), ed Elia si copre il volto (1Re 19,13). Mentre loro non vedono Dio, ora stanno davanti a Gesù, nella sua gloria, e non si velano più il volto: non hanno più paura di lui, perché «Gesù, il “figlio amato” del Padre (cfr. Mt 17,5; Mc 9,7), “l’eletto” (Lc 9,35), è egli stesso la visibilità del Padre: “Chi ha visto me, ha visto il Padre” (Gv 14,9). In lui Mosè ed Elia si incontrano, vedono Gesù nella gloria, e gli portano il loro conforto. Al termine, il Padre conferma ai tre discepoli, Pietro incluso, la strada che Gesù dovrà intraprendere» (Maurice Gilbert).

Pietro e le capanne. La trasfigurazione dunque non è solo un momento di consolazione per Gesù, che viene rafforzato nel proposito – appena comunicato ai suoi – di dover salire a Gerusalemme: è un insegnamento per gli apostoli, in primo luogo Pietro, colui che più ne ha bisogno, perché non ha capito la logica di Dio e segue solo quella «degli uomini» (16,23). Il primo dei discepoli, però, nemmeno ora mostra di capire e pensa di poter rimanere sul monte pur di non andare a Gerusalemme; la voce di Dio allora viene a istruire lui e gli altri: «Ascoltatelo» (17,5).

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