Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 1 Novembre 2020

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La felicità paradossale dei santi

La solennità di Tutti i Santi ci porta come dono il vangelo delle beatitudini, nella versione dell’evangelista Matteo

Spiegando da subito che “beato” significa “felice”, e che la beatitudine è sinonimo di felicità, potrebbe sembrare che sia tutto chiaro. Ma non è così. A guardar bene, infatti, che cosa è mai la felicità? Molti, molti secoli prima dell’era cristiana, quando i Greci ancora credevano che gli dèi vivessero sul monte Olimpo, pensavano che solo questi “super-umani” potessero essere veramente felici: la “beatitudine” era uno stato invidiabile, ma non era fatta per gli uomini. Più tardi, un pensatore del terzo secolo avanti Cristo, Epicuro, nella sua Lettera sulla felicità, ribadirà che se la divinità vive beatamente, anche gli uomini potranno essere tali, ma solo cercando il piacere, nella forma magari di un “piacere calmo”, dato dalla riduzione della sofferenza: chi non si aspetta nulla, non sarà mai deluso e potrà pensare ogni mattina alla fortuna di essere vivo e senza dolori. Se infine facciamo un salto di quasi due millenni, vediamo la felicità – Happiness – ritornare nella Dichiarazione di indipendenza dei futuri Stati Uniti d’America, proclamata il 4 luglio 1776, per la quale «tutti gli uomini sono creati uguali e dotati dal Creatore di alcuni inalienabili diritti, tra i quali quello alla Vita, alla Libertà, e al perseguimento della Felicità». Insomma, tanti modi per intendere la beatitudine, tante strade per cercare la felicità. Ma se invece ci concentriamo sulla Bibbia e sullo sfondo religioso e culturale in cui nascono le beatitudini che si leggono nei vangeli, scopriamo anzitutto che Gesù non ha inventato queste parole.

Lo sfondo dell’Antico Testamento e dei manoscritti del Mar Morto

Le beatitudini che Gesù pronuncia hanno diversi paralleli con testi dell’Antico Testamento, si pensi al Salmo 1, che si apre proprio con la stessa formula: «Beato l’uomo che non entra nel consiglio dei malvagi, non resta nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli arroganti, ma nella legge del Signore trova la sua gioia, la sua legge medita giorno e notte». Le beatitudini, soprattutto per quanto riguarda la loro forma, hanno anche un parallelo in un testo databile alla fine del I secolo avanti Cristo, ritrovato tra i manoscritti del Mar Morto, nella grotta 4 di Qumran, nel quale addirittura per cinque volte di seguito è ripetuta l’espressione «Beato chi…», sequenza che non appare mai così in nessun testo dell’Antico Testamento: «Beato chi dice la verità con cuore puro e non calunnia con la propria lingua. Beati quelli che si attaccano ai decreti [della Sapienza] e non si attaccano a comportamenti peccaminosi. Beati quelli che gioiscono in essa senza spargersi sulle vie della follia. Beati coloro che la cercano con mani pure e non la ricercano con cuore astuto». Se questo è il miglior precedente giudaico al testo delle beatitudini di Gesù, esso però, come si vede anche da una prima lettura, è differente nel contenuto: sia qui – come anche nel Salmo 1 – la felicità viene dall’osservare la Legge e seguire la Sapienza, e non ha nemmeno quel rimando al futuro che invece Gesù compie. Cosa dicono allora le beatitudini di Gesù, e come sono giunte a noi queste sue parole?

I vangeli e le beatitudini

Le beatitudini si trovano anche in altri scritti cristiani, come gli apocrifi Atti di Paolo e Tecla e il più noto Vangelo secondo Tommaso. In questo vangelo, che in realtà è una raccolta di detti, Gesù pronuncia una beatitudine simile a quella del vangelo di Matteo su chi cerca la giustizia (Mt 5,10); si legge nel Vangelo di Tommaso: «Beato l’uomo che si è impegnato. Ha trovato la vita». Nel complesso, però, queste ulteriori fonti non aggiungono molto al senso delle beatitudini dei vangeli canonici, che sono di gran lunga più interessanti.

Se leggiamo i vangeli, vediamo che le beatitudini di Gesù ci sono pervenute in due versioni: la prima, più lunga, si trova nel cosiddetto “Discorso della montagna” del vangelo secondo Matteo (capp. 5–7); la seconda nel discorso che Gesù tiene in luogo pianeggiante, secondo la versione di Luca (6,20-49). Ma a guardare meglio, se si contano anche quelle isolate, nel Nuovo Testamento le beatitudini sono una cinquantina: solo in Luca ne sono elencate quindici, due in più rispetto a Matteo. Una, molto nota, è quella che Gesù pronuncia quando una donna che lo ascoltava parlare alzò la voce per dirgli «Beato il grembo che ti ha portato e il seno che ti ha allattato», e alla quale il Maestro risponderà: «Beati coloro che ascoltano la parola di Dio e la custodiscono» (Lc 11,28). Se vogliamo, è proprio questa l’unica soluzione che Gesù prevede per la felicità: non l’invidia per lo stato degli dèi o la ricerca del piacere, ma ascoltare e custodire la parola di Dio. Proprio come Maria, la madre di Gesù, che non solo l’aveva portato nel grembo, ma aveva accolto l’annuncio dell’angelo e custodito il Figlio – Parola del Padre – nel suo cuore e nel suo grembo (cf. Lc 1,38).

Per tornare alle beatitudini sparse nel resto del vangelo, invece per il Gesù di Matteo sono “beati” anche quelli che non si scandalizzano di lui (Mt 11,6), i discepoli che vedono Gesù e ascoltano le sue parole (Mt 13,16), Pietro, che riconosce Gesù come Messia e compie la sua professione di fede cristologica (Mt 16,17: «Beato sei tu, Simone…»), e infine il servo della parabola che attende il ritorno del suo signore (Mt 24,46).

La versione del vangelo della celebrazione odierna è la versione “lunga” delle beatitudini, quella contenuta nel Discorso della montagna di Matteo. In questa, si è visto, si trovano di seguito ben otto beatitudini, perché la frase al v. 5,11, che inizia ugualmente con «Beati siete voi…» è stata normalmente intesa sin dall’antichità come uno sviluppo di quella sulla persecuzione che si legge nel versetto precedente. Di queste otto beatitudini, quattro sono riportate anche dal vangelo secondo Luca, ma due di esse differiscono molto da quelle di Matteo. Inoltre, le quattro beatitudini di Luca sono anche accompagnate, in modo che risaltino maggiormente grazie a un chiaroscuro, da quattro relativi “guai”, ovvero moniti o messe in guardia: se beati sono i poveri (Lc 6,20), i ricchi devono stare attenti, e per questo a essi il Gesù di Luca dice anche «guai a voi» (Lc 6,24).

Il paradosso della felicità cristiana e l’esortazione Gaudete et exsultate di papa Francesco

Non possiamo ovviamente entrare qui nella disamina delle otto beatitudini del vangelo Discorso della montagna. Ma già dalla prima ci si accorge che il messaggio di queste parole è esigente e difficile da accettare: è paradossale.

Infatti, Gesù di per sé non sta invitando ad essere poveri, come poi farà rivolgendosi al giovane ricco (cf. Mt 19,16-22), ma dichiara che quelli che lo sono ora, sono già beati. Una volta compreso il linguaggio di Gesù, sarà mai possibile mettere in pratica le beatitudini e giungere così alla felicità?

Si è posto questa domanda anche papa Francesco, nell’Esortazione apostolica sulla chiamata alla santità nel mondo contemporaneo Gaudete et exsultate del marzo 2018: «Nonostante le parole di Gesù possano sembrarci poetiche, tuttavia vanno molto controcorrente rispetto a quanto è abituale, a quanto si fa nella società; e, anche se questo messaggio di Gesù ci attrae, in realtà il mondo ci porta verso un altro stile di vita. Le beatitudini in nessun modo sono qualcosa di leggero o di superficiale; al contrario, possiamo viverle solamente se lo Spirito Santo ci pervade con tutta la sua potenza e ci libera dalla debolezza dell’egoismo, della pigrizia, dell’orgoglio» (n. 65).

Le beatitudini si possono vivere, e ciò a dispetto di coloro che nella storia della loro interpretazione hanno pensato che fossero inattuabili, ma per metterle in pratica è necessario vedere la realtà in un altro modo rispetto a quello abituale, andando – come scriveva il Papa – controcorrente. Ed eccoci così giunti al punto centrale del ragionamento. È davvero possibile essere felici nella povertà (o nella prova, o nella sofferenza, o nella persecuzione…)? Meglio ancora: come possiamo anche noi, nelle nostre personali povertà riconoscerci beati? Cosa permette di leggere una situazione e giudicarla come benedetta e non una disgrazia?

La beatitudine “funziona” solo per chi ha fede. Per prendere a prestito un’immagine dalla teologia della rivelazione, potremmo dire che servono gli occhi della fede. Solo grazie alla fede, scriveva all’inizio del Novecento un giovane teologo gesuita francese (Pierre Rousselot), c’è la possibilità di vedere in modo diverso la realtà (che potrebbe anche non cambiare, perché il povero, nelle beatitudini, non diventa ricco, anche se “possiede” il Regno!). La fede però rende capaci gli occhi di cogliere ciò che altrimenti rimane sotto la superficie: come un detective cerca nella realtà quegli indizi che lo portano a trovare la soluzione al suo problema, allo stesso modo il credente può, in forza della grazia, riconoscere quei segni che Dio pone nella sua vita, e così arrivare allo spirito delle beatitudini. Senza la grazia si vede il fallimento, la fame, la disperazione e la persecuzione: con la fede si può scoprire in queste situazioni, nonostante tutto, la presenza di Dio e il Regno. È allora chiaro perché Gesù non pone condizioni per essere beati, rispetto, ad esempio, alla beatitudine del Salmo 1. Solo una è la condizione previa: credere alla sua Parola.

Ancora papa Francesco, al termine del suo commento alle beatitudini, scriveva: «Davanti alla forza di queste richieste di Gesù è mio dovere pregare i cristiani di accettarle e di accoglierle con sincera apertura, “sine glossa”, vale a dire senza commenti, senza elucubrazioni e scuse che tolgano ad esse forza» (n. 97).

Le beatitudini, via esigente e paradossale per la santità, ci interpellano e, in questo tempo di molte difficoltà, ci consolano e danno speranza.