Mons. Nunzio Galantino – Sguardi «contemplativi» sull’ospite

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Ritrovarsi a pensare e ripensare alla propria vita, soprattutto in prossimità di appuntamenti importanti o di nuove opportunità. Senza eccessivi rimpianti e nella consapevolezza di averci sempre provato. Ritrovarsi a guardare al proprio futuro, lungo o breve che possa essere, aiuta a disegnare con sufficiente chiarezza il quadro della propria vita. Un esercizio che pesa, sì, ma non trovo per niente superfluo.

Dopo momenti di silenzio e pause di riflessione … ecco di cosa siamo fatti: di lontananze e di mancanze. Ognuno porta in sé il ricordo e la nostalgia di qualcosa che è fuggito, di una terra lasciata, di un’assenza di volti, luoghi, suoni che popolano il cuore e la mente e che ospitiamo in noi. Di tutto questo è fatta la vita. Accogliere quello che non c’è più, o non c’è ancora, è ginnastica quotidiana che ci aiuta a trasformare la mancanza in presenza, la lontananza in prossimità. Siamo tutti in qualche modo, nelle nostre interiorità, ospiti di qualcosa che arriva all’improvviso; che sia una crisi, o un ricordo, o una spina nel cuore.

Consapevoli di questo, dovremmo tutti accogliere, abbracciare e far riposare l’altro che stenta, piegato sotto il peso dell’incomprensibile, affamato di una ragione e di uno scopo per la sua vita. Nella lingua italiana il termine “ospite” indica contemporaneamente sia chi chiede accoglienza sia chi la offre, come a dire che c’è un legame sottile e nascosto e che, in fondo, la precarietà – e la lontananza – appartiene a tutti, è cosa comune, ci rende simili e quindi fratelli. C’è bisogno però di uno sguardo “contemplativo” per interiorizzare questa realtà senza lasciarsi sopraffare da atteggiamenti e parole cariche, nella migliore delle ipotesi, di indifferenza. C’è bisogno di uno sguardo “contemplativo” per cogliere la ricchezza, ma anche la fatica di gesti capaci di migliorare il nostro mondo piuttosto che incattivirlo seminando sterili sospetti e letture faziose.

A coltivare questo sguardo ci ha invitato papa Francesco nel Messaggio per la 51esima Giornata mondiale della pace: «Uno sguardo contemplativo, capace di accorgersi che tutti facciamo parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto a usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale». Uno sguardo che scomoda ma pacifica. Uno sguardo che mette in cammino su strade nuove e capaci di condurre verso orizzonti insperati eppure veri. Più di quanto non possa fare l’erezione di muri fisici o metaforici. Fermarsi a ri – leggere la propria vita, con questo sguardo, mentre si continua a camminare volgendo il pensiero a quel che si è lasciato, oppure a quel che si attende, o a quel che si sogna. Per la mia storia personale e per quel che ora vivo, sogno una Chiesa che possa farsi ospite tra gli ospiti, possa porgere una ciotola ristoratrice ai viandanti della vita; una Chiesa che libera e non costringe, che accarezza e non giudica, che ama l’ombra stremata di ciascuno, che l’abbraccia e l’accoglie per permetterle di vedere la luce. I pellegrini della vita – quelli che approdano sulle nostre rive – chiedono ascolto, raccontano, a volte anche solo con lo sguardo.

Storie in cui il dolore e la fatica hanno preso il sopravvento, chiedono che si riempia la loro ciotola di un senso. Provare a ospitare la loro stanchezza e la loro fragilità, cercando di offrire un po’ di calore e un boccone di cibo per il cuore: restituendo loro la bellezza di una casa. Cosa c’è di più bello che sentirsi a casa? Mi son chiesto tante volte incontrando degli sconosciuti con lo sguardo smarrito. Almeno così credo di averli percepiti. L’ospite migliore è colui che mette tanto a proprio agio colui che è arrivato da farlo sentire come a casa propria: c’è qualcosa di sacro, c’è qualcosa di divino nell’ospitalità. Immagino Dio che, per chi ci crede, quando ci accoglierà alla fine della nostra vita farà di tutto per non farci sentire scomodi o fuori posto, per non metterci a disagio. Forse il Paradiso, per chi ci crede, consisterà nel sentirsi totalmente, completamente, interamente accolti.

Sarà il non patire più alcuna lontananza. Per questo, negli ambienti che frequento, mi piace e mi commuove tutto ciò che è segno di una Chiesa che non trattiene la vita, che si lascia muovere e rinnovare e che apre orizzonti, come vuole Papa Francesco. Una Chiesa fatta di uomini e donne che fabbricano passaggi dove ci sono i muri; che aprono brecce negli sbarramenti; che saltano ostacoli e costruiscono ponti; che mantengono fresca la spontaneità, l’invenzione e la creatività; che spezzano le dipendenze e l’ovvietà. Uomini e donne concreti, che rifiutano le astrazioni, sono ma capaci di abbracciare il sogno con la realtà, che non si spaventano delle differenze e del le contraddizioni; uomini e donne non impazienti, non frettolosi, non avari, ma che permettono all’amore di maturare e diventare pacifico, dolce, umile, comprensivo.

E quindi ospitale. Abbiamo tanto bisogno di queste sentinelle che vigilano attente su ogni moto della fantasia, su ogni nuovo slancio di coraggio, su ogni accenno di libertà che si ridesta, su ogni inizio di generosità, su ogni germoglio di speranza.

Fonte
Il Sole 24 Ore – Editoriali e commenti – 30 dicembre 2017, pag. 8