Mons. Giovanni D’Ercole – Commento al Vangelo del 2 Luglio 2023

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1.“Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me; chi ama figlio o figlia più di me, non è degno di me”. A prima vista, queste parole di Gesù, che ci propone oggi il vangelo, suonano esigenti e in verità lo sono. Appaiono più dure se le leggiamo in un ‘altra versione, nella quale Gesù dice che per amarlo e seguirlo bisogna essere disposti addirittura al rifiuto dei propri cari. Scrive infatti l’evangelista Luca: «Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, la moglie, i figli, i fratelli, le sorelle e perfino la propria vita, non può essere mio discepolo” (Lc. 14, 26). Capite: odiare il padre, la madre, la moglie, i figli, i fratelli e perfino la propria vita per andare dietro a Gesù! Si tratta quasi di una pretesa inaudita e umanamente inconcepibile, tuttavia è il divino Maestro che parla a coloro che vogliono seguirlo per cui, superata la prima immediata reazione emotiva, questa parola va ascoltata con attenzione e poi meditata, ed è bene invocare lo Spirito Santo perché ci aiuti a comprenderla in profondità e accettarla con amore.

Tenendo però conto dello stile letterario dell’epoca e della lingua in cui si esprime, ci si rende conto che Gesù non pretende il rigetto e addirittura l’odio per i propri genitori, tanto più che ciò andrebbe contro lo stesso insegnamento divino (cf. Es 20,12; Dt 5,16), ben codificato nel quarto comandamento del Decalogo. Afferma in proposito il catechismo della Chiesa cattolica: “Il quarto comandamento ricorda ai figli divenuti adulti le loro responsabilità verso i genitori. Nella misura in cui possono, devono dare loro l’aiuto materiale e morale, negli anni della vecchiaia e in tempo di malattia, di solitudine o di indigenza. Gesù richiama questo dovere di riconoscenza”(n.2218). Non possiamo nemmeno pensare che Gesù esiga un amore totalitario ed esclusivo verso di lui, quasi geloso per la sua persona. Dobbiamo invece situare queste sue parole nel contesto di una totale fiducia verso di Lui, nella certezza che anche quando ci propone o domanda qualcosa di difficile e persino umanamente impossibile, lo fa sempre e solo per il nostro bene. Non si tratta allora di essere ciechi o fatalisti, nemmeno di lasciarsi guidare da una vana illusione nei momenti bui e complicati della nostra esistenza.

Il Signore ci chiama a conservare una fiducia saldamente radicata in Colui che è il sommo bene, il Dio che è Amore misericordioso, il quale, come scrive Alessandro Manzoni ne I Promessi Sposi, “non turba mai la gioia dei suoi figli se non per darne loro una più certa e più grande” (cap. VIII).  E se vogliamo seguirlo fedelmente esige che nulla e nessuno sia anteposto a lui, alla sua volontà e al suo amore. Ben comprese questo san Benedetto, il quale non dette inizio a fondazioni monastiche con lo scopo di evangelizzare le popolazioni barbare, come fecero altri grandi monaci missionari della stessa sua epoca. Volle invece aiutare, quanti erano desiderosi di dare un senso alla loro vita, a comprendere che lo scopo unico dell’esistenza umana è la sincera ricerca di Dio: “Quaerere Deum, cercare Dio”. Sapeva infatti che quando un credente entra in relazione profonda con il Signore non si può accontentare della mediocrità e di una religiosità superficiale. Per esprimere quest’ideale prese in prestito un’espressione di san Cipriano sintetizzandola così nella sua Regola come programma per i monaci (IV, 21): “Nihil amori Christi praeponere, Niente anteporre all’amore di Cristo”. Rispondere “sì” a tutto e in tutto a Gesù: ecco cosa egli attende dai suoi discepoli. E’ il cammino della santità tanto più urgente in quest’epoca in cui si avverte la necessità di ancorare saldamente la storia personale e comunitaria a stabili e sicuri riferimenti umani e spirituali.

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2. Chi può avere il coraggio di scelte così radicali? Dove attingere la forza per resistere alle molteplici difficoltà e tentazioni che rendono faticose anche le relazioni più comuni e quotidiane, ad esempio quelle familiari? Come accogliere un invito talmente radicale di Cristo? Torniamo al brano del vangelo odierno che chiude il lungo discorso di Gesù detto “apostolico” o “missionario”. Un discorso che, benché sia diretto agli apostoli, interessa tutti i cristiani, perché con il battesimo siamo chiamati e inviati ad annunciare il regno dei cieli ormai vicino (cf. Mt 10,7) e a far arretrare il potere del demonio (cf. Mt 10,1).

Qui l’evangelista ha raccolto consigli e indicazioni operative che il divino Maestro in svariate circostanze ha partecipato ai suoi ascoltatori delineando l’identikit del missionario. A chi intende seguire le sue orme chiede anzitutto di pregare molto senza stancarsi  e poi gli domanda di porre ogni fiducia in Colui che lo sceglie  per una missione ben più grande di ogni umana possibilità. Non gli assicura un’esistenza senza sofferenze e fatiche e anzi lo previene che contrasti e opposizioni, abbandoni e tradimenti, imprevisti e insuccessi saranno compagni inseparabili del suo cammino, senza escludere persino il martirio. E perché tutto questo? Perché la missione del credente si svolge in un mondo in cui da sempre si consuma lo scontro tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna mentre più intensa si fa la lotta di satana contro i veri amici di Dio.

L’esperienza mostra che se si vuole essere coerenti con il vangelo ci si ritrova confrontati a opposizioni e gelosie, divisioni e incomprensioni, emarginazioni e persecuzioni. E mentre Gesù continua a chiamare operai nella sua vigna, chiunque intende accogliere il suo appello, deve ben sapere cosa lo attende; al tempo stesso però può contare sul suo aiuto e sulla convinzione profonda che da Lui riceverà la forza e il coraggio di fare scelte radicali per mettere il Signore al primo posto nella sua vita e nella sua azione.  In tale prospettiva si evidenza meglio la parola di Cristo: se i genitori, o chiunque altro a cui siamo legati da ogni tipo di vincolo di parentela e di amore o interesse umano, costituiscono un impedimento alla fedeltà al vangelo, non c’è altra scelta che riaffermare il primato assoluto di Dio mettendo in secondo piano tutto il resto e persino noi stessi.  

Con il linguaggio semitico familiare a Gesù, un linguaggio che utilizzava immagini assai concrete e si serviva di un modo di esprimersi ricco di antitesi e di forti contrasti, nel passo parallelo del vangelo di Luca Gesù arriva persino ad utilizzare il verbo odiare: “Se uno viene a me e non odia ….non può essere mio discepolo” (Lc 14,26). Tutto ciò che ostacola nel seguire Cristo, siano persone o cose, va “odiato”, cioè deve essere considerato un ostacolo da eliminare senza paura e senza esitazioni. Alla luce di questa radicalità, ci sentiamo stimolati a rileggere la nostra storia, a riflettere sulle nostre scelte e aspirazioni, e soprattutto a ben ponderare ogni decisione in questo nostro tempo dove domina la logica dei facili compromessi e si respira un clima di incertezza e confusione.

 3. “Chi non prende la propria croce e non mi segue, non è degno di me. Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà”.  Gesù continua nel parlare chiaramente e senza sconti.Prendere la propria croce non appare proprio il linguaggio più consono alla mentalità oggi dominante che in ogni modo vorrebbe eliminare il dolore, la fatica e la sofferenza dall’orizzonte del vivere quotidiano. Eppure il vangelo non invecchia ed è sempre attuale. Rinunciare a tutto per Gesù appare paradossale, ma è il gesto più liberante. “Se siamo morti con Cristo – afferma san Paolo nella lettera ai Romani crediamo anche che vivremo con lui sapendo che la morte non ha più potere su di lui”. Prendere, abbracciare la propria croce è quindi morire con Cristo uccidendo la prepotenza del proprio “ego”, liberandosi dal peso dell’uomo vecchio, dalla schiavitù del peccato e dall’influsso del demonio, “il principe di questo mondo” (Gv 12,31; 16,11).

“Cosi anche voi – prosegue l’Apostolo –consideratevi morti al peccato, ma viventi per Dio, in Cristo Gesù”. Sembra impossibile, ma l’esperienza dei santi prova che il vero discepolo non ha altra strada che far morire nel suo cuore tutto ciò che appartiene alla mondanità, allo spirito di questo secolo; smettere di considerarsi importanti agli occhi del mondo per aprirsi alla conoscenza vera di Cristo e in lui assaporare la bellezza della sua sequela. Liberati dall’energia dello Spirito Santo, possiamo entrare con gioia e pace nel mistero della morte di Cristo, e con lui consegnare la vita al vangelo spendendola nel compiere solo e sempre la volontà divina, amando il prossimo in maniera gratuita e disinteressata. Vivere in Dio è il respiro della novità del cristiano. Quanti uomini e donne nel corso dei millenni lo hanno compreso e realizzato: sono i martiri e i confessori della fede che veneriamo e invochiamo perché ci aiutino a imitarli.  

Ma accanto a quelli iscritti nel catalogo dei santi della Chiesa cattolica, ci sono molti altri uomini e donne di Dio “santi della porta accanto”, come li definisce papa Francesco. E’ l’eroismo di persone più o meno “nascoste” come Chiara Corbella Petrillo o Benedetta Bianchi Porro e con loro una schiera di bambini, adolescenti e giovani, adulti e anziani dei quali non conosciamo il nome e vivono l’ordinarietà del quotidiano. Accettando tutto ciò che avviene nella loro vita, danno testimonianza di un amore concreto fatto di piccoli gesti e con serenità subendo pazientemente prove e sofferenze fisiche e morali qualche volta veramente grandi. La loro testimonianza è quell’antidoto necessario per neutralizzare al veleno del secolo, che è l’attaccamento al successo, al piacere e all’apparire, al rifiuto di ogni forma di sofferenza e ricerca di tutte le comodità e forme di ogni confort. Scriveva con intelligente lettura della storia in proposito G. K. Chesterton: “Ogni generazione è convertita dal santo che ne è agli antipodi e più la contraddice”.  

4. Sì, perché i santi sono i soli che scrivono  con il loro esempio la storia della speranza dell’umanità,  e questa storia dura nel corso dei secoli.  Pensiamo a Perpetua e Felicita, due donne del terzo secolo d. C. accomunate dalla fede cristiana. Al procuratore Ilariano che, avendo il potere della spada, disse a ciascuna di loro: “Abbi pietà dei capelli bianchi di tuo padre e della tenera età d tuo figlio. Sacrifica agli dèi per la salute degli imperatori”, risposero in maniera unanime: “Non facciamo sacrifici agli dèi”.  E alla successiva richiesta: “Sei cristiana?”, più decisa e chiara la replica di ognuna di esse: “Sì, sono cristiana”. (Passione di Perpetua e Felicita 6,3-4). Chiaro esempio di come all’amore per Cristo non sia da anteporre nessun altro amore legittimo, santo e buono fossero pure i legami familiari. Questo è il radicalismo cristiano, una sequela vissuta nell’amore appassionato per Cristo che fa del discepolo un credibile testimone del “Regno che viene”, grazie a una relazione che riempie l’esistenza e che conduce a non aver paura di sacrificare la propria vita. Un amore del genere non è immaginabile imporlo oppure riuscire ad ottenerlo grazie a uno sforzo volontaristico: lo si può sicuramente desiderare con un’ardente aspirazione, ma solo la Grazia divina può renderlo possibile. 

San Francesco nella Ammonizione VI, invita a volgere lo sguardo del cuore a Cristo buon pastore, che per amore nostro sostenne la morte in croce. Egli così scrive: “Guardiamo con attenzione, fratelli tutti, il buon pastore che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce. Le pecore del Signore l’hanno seguito nella tribolazione e persecuzione, nella vergogna e nella fame, nella infermità e nella tentazione e in altre simili cose; e per questo hanno ricevuto dal Signore la vita eterna. Perciò è grande vergogna per noi, servi di Dio, che i santi abbiano compiuto queste opere e noi vogliamo ricevere gloria e onore con il raccontarle e predicarle”. Se la croce è il segno e l’evento con il quale il Salvatore si è assunto tutte le nostre miserie per arricchirci del suo amore, perché aver paura di abbracciare ogni giorno la nostra croce e, alla luce dell’amore crocifisso, costruire ogni relazione con il prossimo? “Chi accoglie voi – dice Gesù – accoglie me e chi accoglie me accoglie colui che mi ha mandato”. Perché esitare nel prenderci cura di quanti incontriamo sul cammino della vita, seguendo le orme del Maestro buon Pastore che morendo in croce fa dono della sua vita per tutte le sue pecore?.

AUTORE: Mons. Giovanni D’Ercole, Vescovo emerito – Pagina FacebookSito Web Commento al brano del Vangelo di:  ✝ Mt 10,37-42