Monastero di Bose – Commento al Vangelo del giorno – 10 Novembre 2020

Gli apostoli hanno appena chiesto al Signore: “Accresci in noi la fede” (Lc 17,6), quasi in risposta alla sua richiesta esigente di perdonare chi si pente, fosse anche per la settima volta in un solo giorno. Forse sono consapevoli dei propri limiti e chiedono al Signore di condurli a un di più senza il quale non sarebbero responsabili della loro incapacità a perdonare. Gesù cambia la loro prospettiva e ricorda che la fede – che è fiducia, adesione, sequela – non si misura, non si pesa: ne basta un granellino quasi invisibile che è l’appiglio, lo spazio anche ridottissimo – come quello scovato dallo scalatore in una fenditura della roccia – in cui la nostra volontà resta aggrappata alla volontà del Padre, grazie all’adesione al Figlio che sempre opera conformemente a quel volere. 

A noi come discepoli non è chiesta una fiducia cieca – “Beati i vostri occhi perché vedono quello che molti profeti e re hanno voluto vedere!” (cf. Lc 10,23-24) – bensì una fiducia tenace, non una fiducia da accrescere per vedere chi è il più grande, ma una fiducia da rinsaldare nelle piccole cose – un essere fedeli nel poco – per riconoscerci e restare piccoli, quei piccoli cui sono rivelate cose nascoste ai sapienti e ai dotti.

Ma come far sì che il gelso del nostro egocentrismo sia sradicato a trapiantato altrove? Come la nostra minuscola fiducia può conservare la tenacia che ci fa restare attaccati al Signore dopo essere stati afferrati da lui? Qui intervengono le parole di Gesù nel brano evangelico odierno: non si tratta tanto di un ulteriore cambiamento di prospettiva, quanto piuttosto di un insegnamento sulla forza della piccolezza. Restiamo attaccati al Signore se e quando restiamo o torniamo a essere semplici servi, discepoli al servizio dei nostri fratelli e delle nostre sorelle, in comunità e in umanità.

Anche qui la nostra tentazione è quella della quantità, ma se quello è il metro, chi di noi potrà mai dire sinceramente: “Ho fatto tutto quello che mi è stato comandato?” (cf. v. 9). Misurare il “fare” non garantisce la natura evangelica del nostro “essere”, la quale invece è data dal servizio alla sequela del servo del Signore. Il servizio è quel granello di senape della nostra fiducia, è quell’appiglio saldo cui tornare ogni volta che la nostra saldezza vacilla. Il servizio è quello che fa dello stare insieme dei cristiani una comunità del Signore che è venuto nel mondo per servire e che, quando tornerà, ci farà mettere a tavola e passerà a servirci.

E il servizio non si misura in quantità, non c’è da preoccuparsi e agitarsi per molte cose come Marta: il servizio è intensità nel restare attaccati all’unico necessario. Al servizio degli altri possiamo e dobbiamo ritornare sempre: allora la nostra fede-fiducia-adesione non ci parrà poca, perché lì, nel servizio, ritroviamo il Signore Gesù affamato, assetato, nudo, ammalato, carcerato, povero, straniero. È “tutto quello che ci è stato chiesto”, ed è quello che ci basta: allora il granello di senape del nostro semplice servizio sarà diventato parabola del Regno.

fratel Guido


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