Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 6 Agosto 2023

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Vedere le Scritture in Gesù

Quest’anno il giorno 6 agosto, festa della Trasfigurazione del Signore, cade di domenica. Così, le letture bibliche previste per la XVIII domenica del tempo Ordinario lasciano il posto a quelle che celebrano questa importante memoria cristologica. Volendo riflettere sull’evento della metamórphosis (transfiguratio) noi commenteremo la pagina evangelica Mt 17,1-9 che nel Lezionario è preparata anche dal testo di 2Pt 1,16-19, cioè la seconda lettura. Infatti la pericope della seconda lettera di Pietro è l’unico testo non evangelico che presenta una testimonianza circa la trasfigurazione di Gesù. Anzi, afferma di trasmetterne la testimonianza oculare di Pietro stesso quando era insieme con Gesù “sul monte santo” (2Pt 1,18).

E l’autorevolezza della testimonianza dell’apostolo che ha visto la grandezza del Signore e ha ascoltato con le sue orecchie la voce dal cielo che lo proclamava messia e giudice escatologico, conferma la bontà delle profezie veterotestamentarie che non sono per nulla “favole artificiosamente inventate”, “miti sofisticati” (2Pt 1,16), “perché non da volontà umana è mai venuta una profezia, ma mossi dallo Spirito santo parlarono alcuni uomini da parte di Dio” (2Pt 1,21). La seconda lettera di Pietro garantisce l’autorità e l’origine divina delle profezie, vera “lampada che splende in luogo oscuro” (2Pt 1,19) fino alla venuta del Signore, fondandosi sull’esperienza personale di rivelazione accordata a Pietro e a quelli che erano con lui sul monte della trasfigurazione. O, come dice la 2Pt, sul monte dove Gesù “ricevette onore e gloria da Dio Padre” (2Pt 1,17).

La pericope evangelica inizia con una notazione di tipo cronologico, “sei giorni dopo” (Mt 17,1), che rinvia agli eventi raccontati precedentemente. Pochi giorni prima Gesù ha annunciato ai suoi discepoli, per la prima volta, la sua passione e morte. Gesù ha integrato il suo destino prossimo di morte, lo ha assunto a tal punto che ne ha parlato con chiarezza, senza tentennamenti e senza reticenze: Gesù lo ha verbalizzato e reso pubblico, lo ha esplicitato dicendolo apertamente ai suoi discepoli: “Gesù cominciò a mostrare ai suoi discepoli che egli doveva andare a Gerusalemme e patire molte cose dagli anziani e gran sacerdoti e scribi, ed essere ucciso” (Mt 16,21).

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Con le persone a lui più vicine Gesù parla della sua morte, osa parlare di sé e di ciò che più è scandaloso e intimo, la propria morte. L’unificazione personale, almeno a un certo punto della vita, chiede di integrare la prospettiva della propria morte, di passare dal pensiero della morte a quello della propria morte: altrimenti la persona rischia di restare in perpetua fuga da sé, dalla vita, e dunque dalla realtà. E ovviamente, dicendo questa cosa ad altri, rendendo altri testimoni di questa sua prospettiva di morte, essa diviene sempre più reale e concreta anche per lui stesso, per Gesù. Non è più un’intuizione o anche una certezza coltivata solamente tra sé e sé, ma entra nella relazione con gli altri, con quegli altri che essendo i più vicini a lui, sarebbero maggiormente colpiti dalla sua morte. In certo modo comincia ad essere reale.

Tuttavia, l’espressione “sei giorni dopo” presenta anche altre sfumature di significato. Essa rinvia all’evento sinaitico, quando Mosè dopo sei giorni fu chiamato da Dio dalla nube (Es 24,16) e allora “la gloria del Signore apparve agli occhi dei figli d’Israele come fuoco divorante sulla cima della montagna” (Es 24,17). Se il volto di Mosè divenne raggiante e luminoso perché aveva conversato con Dio (Es 34,29), il volto di Gesù diviene risplendente come il sole (Mt 17,2). Così, la prospettiva della propria morte che ormai abita in Gesù riceve una luce e un senso nuovi dal riferimento all’esperienza mosaica di intimità con il Signore. Dietro al nostro testo vediamo in filigrana le pagine della Scrittura che parlano dell’intimità di Mosè con Dio sul monte Sinai. Matteo suggerisce che l’intera vita di Gesù, l’esperienza di Dio che egli fa, il rapporto con i discepoli che egli vive, così come l’intero suo ministero e l’intera sua vita, sono guidati dall’obbedienza alle Scritture, sono orientati e illuminati dall’ascolto interiorizzato della parola di Dio contenuta nelle Scritture.

Per Matteo la Trasfigurazione è esperienza di obbedienza alle Scritture. Il Gesù trasfigurato è l’obbediente alle Scritture. Un’obbedienza che coincide con la fede stessa. La fede di Gesù, certo, ma anche la fede a cui sono invitati i discepoli. Infatti l’impatto sui discepoli della parola della Scrittura divenuta voce (la frase “Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento. Ascoltatelo” è composto da citazioni di Sal 2,7; Is 42,1; Dt 18,15) li sconvolge e getta a terra: al volto di Gesù su cui rifulge la luce gloriosa di Dio (v. 2) fa riscontro il cadere sul proprio volto (v. 6), faccia a terra, dei discepoli.

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La sequela di Gesù porta anche alla caduta, all’oscurità, allo smarrimento dell’identità. La nube che avvolge i discepoli per ora è solo caligine e confusione, ombra e incertezza. Ma qui si situa il cuore dell’esperienza di fede dei discepoli che è vitale per ognuno di noi. In quella crisi, in quello smarrimento di identità, caduti faccia a terra, quando si diventa estranei al proprio volto, i discepoli fanno un’esperienza di ascolto di una parola che si trasforma in visione di Gesù. Ascoltata la voce al cuore del buio della nube, udita la parola scritturistica nell’indistinzione e nella paura, essi arrivano ad alzare gli occhi e a vedere Gesù solo (“Alzando gli occhi non videro nessuno se non Gesù solo”: Mt 17,9). La trasfigurazione di Gesù è anche passaggio dei discepoli dalle tenebre alla luce, dal non vedere al vedere il volto di Gesù. Tutte le Scritture sante, la Legge e i Profeti, ora i discepoli li vedono in Gesù solo. Nella spoglia e gloriosa umanità di Gesù. Ecco l’esperienza nuda ed essenziale della fede, sempre da nutrire, coltivare e rinnovare: l’ascolto della parola della Scrittura che si condensa nella persona e nella vita di Gesù.

Alla Trasfigurazione è il Padre che indica in Gesù il Figlio (Mt 17,5). Al cuore della Trasfigurazione vi è la proclamazione dell’identità di Gesù. Chi è Gesù? Chi è l’uomo alla cui sequela si sono messi Pietro, Giacomo e Giovanni? C’è una luce su Gesù e di Gesù che emerge nella solitudine, in disparte, nel luogo appartato, nel silenzio. “Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse su un alto monte, in disparte” (Mt 17,1). Il luogo della trasfigurazione non è solo geografico, un alto monte, ma indica una condizione spirituale: la presa di distanza senza la quale la nostra vita si imbarbarisce e diventa piatta, insignificante, perfino volgare. Presa di distanza dalle troppe e distraenti presenze, presa di distanza dalle troppe e dispersive parole, presa di distanza dal troppo e angoscioso fare. Sull’alto monte vi è l’essere soli con Gesù da parte dei discepoli, e l’essere solo di Gesù con pochi discepoli. Poche presenze, poche parole: condizioni in cui avviene la trasfigurazione. Che è esperienza anche di pudore.

Mentre i discepoli erano riversi a terra, “Gesù si avvicinò, li toccò e disse: ‘Alzatevi e non temete’” (Mt 17,7). Questo versetto, proprio di Matteo, è al cuore del racconto. La parola di Dio ascoltata raggiunge in modo vitale i discepoli nella carne umana di Gesù che si fa loro prossimo, li tocca con dolcezza e dice loro che possono risollevarsi, che hanno il diritto di non aver più paura, ma che hanno anche la responsabilità di uscire dalla paura, hanno il compito di raccogliere le forze per rialzarsi. Quelle parole sono comando che dice una possibilità: potete alzarvi, ma che assegna anche una responsabilità: siete chiamati a uscire dalla paura, da ciò che vi tiene paralizzati a terra, inerti, in posizione di vittime. Quel comando: “Alzatevi” o “Alzati” è spesso detto a persone segnate da malattie e prostrate da sofferenze: un paralitico (Mt 9,5), un mendicante cieco (Mc 10,49), un uomo con una mano inaridita (Mc 3,3). Chiedono, questi comandi, che si tolga lo sguardo da sé, dalla propria situazione sofferente, che si esca dal vittimismo e si volga lo sguardo e si porga l’orecchio alla parola del Signore. Questo è entrare nella fede, ma anche crescere in umanità. Andando in profondo, che è sempre anche, prima o poi, andare a fondo.

La Trasfigurazione dice che lo splendore della gloria di Dio rifulge sul volto di Gesù, il Servo obbediente, colui che adempie le Scritture vivendole. Ecco cos’è vivere per fede e di fede: ci si fa guidare dalla parola di Dio, non dalle nostre parole. Ci si lascia illuminare dalla parola di Dio e non illudere dai nostri progetti o dai nostri desideri. Accettando le sofferenze e le traversate dell’oscurità che questo comporta. Quando Paolo dice che noi camminiamo per mezzo della fede (cf. 2Cor 5,7), non della visione, afferma che la fede ci guida anche nelle tenebre, nel buio, ci orienta quando siamo nello smarrimento. Gesù avanza nella fede, affronta con fede e decisione il cammino di cui ha già intravisto l’esito mortale che lo attende, ma ormai ne conosce, per fede e nella fede, anche la destinazione vitale. Gesù sa che quello è un cammino di vita. Non a caso, scendendo dal monte, Gesù ordinerà ai discepoli di non dire a nessuno la visione “finché il Figlio dell’uomo non sia risuscitato dai morti” (Mt 17,9).

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose