Luciano Manicardi – Commento al Vangelo di domenica 30 Luglio 2023

381

Parabole di sapienza

In questa XVII domenica del tempo Ordinario dell’annata liturgica A, la prima lettura (1Re 3,5.7-12) e il vangelo (Mt 13,44-52) trovano la loro unità nel tema della sapienza. Sapienza di Salomone che si esprime nel suo pregare, nel suo chiedere a Dio un cuore “capace di ascolto” (lev shomeac; la Bibbia CEI traduce “un cuore docile”) ovvero il discernimento per giudicare e governare; sapienza di Gesù che si esprime nel suo parlare in parabole, ma anche sapienza dei protagonisti delle parabole del tesoro e della perla (cf. Mt 13,44-45) che emerge nel loro discernimento e nella loro pronta decisione, e infine sapienza dello “scriba divenuto discepolo del Regno che trae fuori dal suo tesoro cose nuove e cose antiche” (Mt 13,52). La sapienza non è manichea, non elimina l’antico a esclusivo favore del nuovo e non resta ostinatamente attaccata all’antico per timore del nuovo, ma fa del nuovo la reinterpretazione dell’antico e dell’antico il fondamento del nuovo.

La sapienza è l’arte di orientarsi nella vita, l’arte di governare il timone della nave: “l’uomo sapiente terrà saldamente il timone” (Pr 1,5 LXX). È l’arte del traghettatore, di chi governa, di chi istruisce, di chi in-segna, cioè, consegna simboli e chiavi ermeneutiche della realtà. Ma è anzitutto l’arte di chi governa se stesso: compito, questo, a cui nessuno può permettersi di sottrarsi. Arte che si ottiene mediante la faticosa conoscenza di sé: “Il vero inizio per crescere in virtù è conoscere se stesso.

Colui che si conosce è il solo padrone di sé e, senza avere un regno, è veramente un re” (Pierre de Ronsard). È l’arte di cui oggi, nello smarrimento e nel disorientamento in cui viviamo, abbiamo grande bisogno. Oggi risuonano drammaticamente attuali le parole di Thomas Stearns Eliot: “Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo? Dov’è la sapienza che abbiamo perduto nella conoscenza? Dov’è la conoscenza che abbiamo perduto nell’informazione?” (La Roccia). Ora, la sapienza, quest’arte di vivere che sa far tesoro dell’esperienza, questa comprensione di sé in rapporto al mondo, agli altri e a Dio, nasce dal movimento basilare dell’ascolto.

- Pubblicità -

Non c’è sapienza senza ascolto. Non a caso, il testo parallelo di 1Re 3,9, che si trova in 2Cr 1,10, dice che Salomone ha chiesto “sapienza e conoscenza” e la risposta di Dio nel nostro brano liturgico consiste nel dono di “un cuore sapiente e intelligente” (1Re 3,12). Nella rilettura del brano di 1Re presente nel libro della Sapienza sta scritto: “Io pregai e mi fu data la prudenza, invocai, e venne a me lo spirito della sapienza” (Sap 7,7). Per la Bibbia il sapiente è anche colui che prega, che riconosce la propria piccolezza e le proprie carenze, le pone davanti a Dio e osa domandare.

Il riferimento alla sapienza è presente perfino letteralmente nella versione consegnataci dal Vangelo di Tommaso delle due parabole del tesoro nascosto nel campo e delle perla (Mt 13,44-46) che costituiscono l’inizio della pericope evangelica odierna. Si dice in questo antico vangelo apocrifo: “Gesù dice: ‘Il Regno del Padre è simile a un mercante che aveva della merce e trovò una perla. Questo mercante era sapiente: vendette la merce e si comprò la perla. Anche voi cercate il tesoro che non perisce, che è durevole, là dove non può avvicinarsi il tarlo per rodere, né il verme per distruggere” (Vangelo di Tommaso 76).

Conformemente al messaggio neotestamentario, paolino in particolare (cf. 1Cor 1,22-25), e connesso alla rivelazione di Dio nel Cristo crocifisso, la sapienza si colora delle tinte della follia e della stoltezza. È quantomeno azzardato, infatti, il comportamento del mercante che, trovata una perla di grande valore, si priva di tutti i suoi averi per acquistare quella perla: di che cosa vivrà ora se non intende evidentemente rivendere quella perla ma custodirla gelosamente? La logica spiazzante delle parabole ci obbliga a comprendere che quel tesoro nascosto nel campo e quella perla preziosa per cui un uomo si priva di tutto pur di entrarne in possesso, rinviano a qualcosa che in sé e per sé è motivo di vita e di gioia e fa vivere chi li ha trovati. Gli apocrifi Atti di Pietro (fine II secolo) rispondono con chiarezza: “Gesù è porta, luce, via, pane, acqua, vita, resurrezione, conforto, pietra preziosa, tesoro, seme, abbondanza, grano di senape, vigna, aratro, grazia, fede, parola. Egli è tutto” (Atti di Pietro 20,5).

- Pubblicità -

Analogamente si esprime Il Fisiologo: “La perla rappresenta il Salvatore nostro Gesù Cristo: l’uomo che lo accoglie e vende tutti i propri averi, si procura la pietra preziosa” (Il Fisiologo 44). Del resto, altrove è lo stesso Gesù che si rivolge al giovane ricco che gli si era avvicinato e l’aveva interrogato su che cosa fare per avere la vita eterna, e gli dice: “Va’, vendi quanto possiedi, dallo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi” (Mt 19,21)? Sebbene la prima parabola parli di un ritrovamento casuale, non a seguito di una ricerca, nel caso del tesoro nel campo, mentre la seconda abbia per protagonista un cercatore (“un mercante che va in cerca di perle preziose”: Mt 13,45), tuttavia esse sono accomunate dall’elemento della sorpresa.

Anche il cercatore resta sorpreso e colpito dalla straordinaria preziosità della perla in cui si è imbattuto. Tanto che la reazione dei due protagonisti è la medesima: vanno – vendono tutti i loro averi – acquistano ciò che hanno trovato. E se solo nella prima parabola si specifica la gioia da cui è invaso chi ha scoperto il tesoro (“pieno di gioia”; lett. “per la gioia”, “nella sua gioia”), la possiamo certamente estendere anche al mercante protagonista della seconda parabola. Ecco cosa avviene quando il Regno dei cieli (13,44.45) diventa incontro tra Dio e uomo. Si assiste a un evento trasformativo che sconvolge la vita di una persona colmandola di gioia e orientando il suo cammino, donandole un senso e una direzione, un sapore e un gusto, un significato e una pienezza incomparabili: di ognuno dei due protagonisti delle parabole si dice che, fatta la scoperta, “va” (13,44.46).

Il “vangelo”, l’annuncio gioioso e che suscita gioia, riesce a orientare il desiderio, a dare futuro, a far intravedere un orizzonte, a mettere in moto vite, a spingere alla follia di chi sceglie di perdere tutto pur di immergersi totalmente nella novità di vita che gli è balenata innanzi. Non è forse l’esperienza che Paolo esprime con le vibranti e concitate espressioni presenti nella lettera ai cristiani di Filippi? Scrive Paolo: “Tutto io ritengo una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo … Non ho certo raggiunto la meta, … ma mi sforzo di correre per conquistarla, perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù” (cf. Fil 3,8.12).

Ecco cosa avviene quando Dio arriva a regnare su una persona. Ecco la sapiente follia, ecco la folle sapienza che suscita il coraggio di lasciare tutto, di spogliarsi di tutto ciò che fino a quel momento costituiva la propria vita, di abbandonare ogni sicurezza e partire, in una sorta di rinnovamento del gesto di Abramo che, lasciata ogni sicurezza, “partì senza sapere dove andava” (Eb 11,8).

La successiva parabola (13,47-50), la settima e ultima nel capitolo tredicesimo di Matteo, riprende immagini tratte dal mondo della pesca. Parla di una rete a strascico che cattura ogni sorta di pesci che poi vengono distinti dai pescatori tra “buoni” e “cattivi” (13,48): i primi messi nei canestri, i secondi buttati. La parabola è spiegata in riferimento alla fine del mondo e al giudizio finale (13,49-59). Così la prospettiva escatologica, il punto di vista della fine, diviene l’angolo prospettico da cui considerare l’oggi. L’atteggiamento sapienziale può trovare origine proprio dalla considerazione della storia e della quotidianità a partire dalla prospettiva della loro fine. Allora l’oggi e l’esperienza che in esso possiamo fare, acquistano tutto il loro peso venendo colti nella loro relatività e nella loro preziosità, nella loro precarietà e nella loro unicità irripetibile. Diventano il frammento in cui possiamo vivere il tutto che dà senso e direzione, sapore e gusto, significato e pienezza ai nostri giorni.

Come un maestro interroga gli allievi al temine della lezione, ora Gesù chiede ai discepoli se hanno compreso “tutte queste cose” (13,51). La loro risposta positiva li conferma tra i destinatari dei misteri del Regno di Dio (13,11): i loro occhi hanno visto e i loro orecchi hanno ascoltato l’annuncio del Regno da parte di Gesù, e questo tanto nel discorso parabolico quanto nelle opere del Messia (“ciò che udite e vedete”: Mt 11,4). Essi hanno visto e ascoltato ciò che profeti e giusti non hanno potuto né vedere né ascoltare (13,17).

Questo il novum, le cose nuove alla cui luce vengono ora lette le antiche. Gesù, sapienza di Dio personificata (“la sapienza è stata riconosciuta giusta per le opere che essa compie”: Mt 11,19), dà compimento all’antico rinnovandolo nella sua persona. E lo scriba cristiano (cf. Mt 23,34) è chiamato al compito sapienziale e profetico di integrare nuovo e antico: operazione in cui il nuovo è espressione nell’oggi dell’antico e l’antico è fondamento del nuovo. Principio che vale per il primo Testamento riletto e attualizzato nel Nuovo, ma anche per le stesse parole evangeliche che devono essere riespresse in ogni epoca in modo nuovo. Anche oggi.

A cura di: Luciano Manicardi

Per gentile concessione del Monastero di Bose