«Grazia ai tuoi occhi» – La Trinità di Andrej Rublev

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Il sacramento della conoscenza

Una delle regole della fede ortodossa è l’invisibilità e l’inconoscibilità di Dio.

Un’altra regola è la sua iconocità: la possibilità, benedetta da Dio stesso, di esprimere l’Essere divino attraverso le immagini. Il mistero può essere rivelato tramite il volto umano: questo è il principio dell’arte iconografica.

Ma, come in qualsiasi situazione paradossale, i due elementi che fanno parte di questo legame, raramente trovano un equilibrio perfetto. Di solito, l’umano ha la meglio sul divino e quando il pittore vuole dare un’immagine della Trinità, raffigura un venerabile Vegliardo con la barba bianca, il Cristo accanto alla croce e sopra una dolce colomba bianca. Anche se questa raffigurazione è stata proibita dalla Tradizione, essa è diventata una delle più popolari.

Parliamo qui della raffigurazione più famosa della Trinità, l’icona di Andrej Rublev. Questo monaco, come nessun altro ha mostrato il linguaggio delle immagini nel quale si poteva rivelare il «mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora è manifestati ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1, 26-27).

Sì, l’icona della Trinità mostra ciò che è velato e si trova al riparo dallo sguardo e dal pensiero umano. Ed il riparo diventa sempre più invalicabile grazie proprio al successo che si è manifestato per quest’opera nei milioni di copie e di cartoline diffuse in tutto il mondo. Tale è il destino di ogni tesoro mussale: un visitatore, passando accanto ad un’immagine, riceve per un attimo il messaggio, la sagoma dall’esterno ed esce con l’ingannevole impressione di aver visto e capito qualche cosa. Nel nostro caso, si tratta della conoscenza del Dio Uno e Trino. Oramai egli crede di sapere come è fatto Dio. Entriamo per un attimo in contatto con una grande opera d’arte, ma la comunione con Dio resta sempre velata per noi. Anzi, forse, essa è diventata ancora più lontana ed inaccessibile. Perché Dio si rivela nel cambiamento dell’uomo, in colui che cerca la comunione con Lui.

Non c’è bisogno di ricordare che l’arte della contemplazione sia una delle più difficili poiché essa resta legata al deposito non ancora esplorato della nostra memoria. La sua scoperta comincia con la meraviglia che si fa con l’aiuto di tutto ciò che è stato già scoperto dalla Tradizione, dall’esperienza dei santi ed è raffigurata nei testi liturgici. In altre parole, con la scuola della buona vista che si abitua, si aggiusta davanti all’oggetto della contemplazione. Così il nostro sguardo cambia. Davanti all’Oggetto incomprensibile – che non può essere mai un oggetto visto e toccato con gli occhi e con i pensieri –, lo sguardo contemplativo si muove dal proprio spirito sigillato verso l’invisibile presenza della Trinità. Lo sguardo ricorda ciò che una volta fu visto e risveglia la visione di Dio. Questo risveglio dell’uomo interiore (cfr. 1 Pt) chiede un grande sforzo spirituale. Il mistero nascosto da secoli si manifesta facendoci santi nella misura della nostra capacità della contemplazione, della nostra apertura alla rivelazione del mistero di Dio. Proprio in questa trasformazione interiore consiste l’enigma dell’opera di Rublev. La trasformazione: che secondo le parole del filosofo russo Lev Karsavin1, può essere chiamata «la comunione della conoscenza».

La comunione è il sacramento come atto ecclesiale. Ma anche la conoscenza lo può essere, poiché essa ci comunica allo spirito di Cristo. Se durante la liturgia tutto ciò che si fa con le parole, le azioni, i gesti, i colori, i suoni serve alla celebrazione del sacramento, lo è anche nella contemplazione dell’icona. In quella vera, il nostro sguardo fissato sull’immagine ci porta all’unione sacramentale tra lo spirito umano e lo Spirito Santo. Il Verbo s’incarna nella visione e diventa il sacramento della conoscenza. L’iconografo ci introduce nel cerchio di coloro che hanno la visione consacrata, ci comunica la conoscenza dei partecipanti alla Pentecoste. La sua arte consiste nel far conoscere la gloriosa ricchezza dell’Incomprensibile, di unirla con quella scintilla di luce che l’uomo porta in sé. Egli acquista la prova delle cose che non si vedono (cfr. Eb 11, 1), ma che si rivelano nella condizione umana, nella riscoperta della propria natura paradisiaca. L’arte dell’icona non è soltanto una contemplazione nel colore2, ma anche l’arte della nostra conoscenza in Dio.

La prova secondo Florenskij 

Si conosce la famosa massima del grande pensatore russo Pavel Florenskij nel suo libro Le porte regali: «Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è»3. Cosa voleva dire con questo? Che Rublev abbia dipinto Dio? Che Florenskij con la sua logica aristotelica (se c’è una causa, dovrebbe esserci anche una conseguenza), abbia costretto Dio ad essere? Non si tratta, però, di una costrizione razionale. La logica umana non può essere usata come un laccio per trascinare qualcuno – anche in modo intellettuale – ad essere per noi. Ma non è la logica che si mette in gioco e neanche l’esperienza di una visita sopranaturale vissuta da noi: si tratta della discreta rivelazione di un incontro.

Colui che è «Dio ineffabile, inesplicabile, invisibile, incomprensibile», come dice la liturgia di san Giovanni Crisostomo, è passato accanto a noi, ha lasciato le Sue tracce negli avvenimenti della vita umana, trasformandole in notizie su di Lui, nel Suo sigillo, nel segno del Suo pensiero su di noi. Questo segno può diventare visibile e comprensibile con il cuore e con la mente, immesso nella comunione umana. Questo sigillo non si cancella: una volta entrato nella memoria, lì rimane per sempre. Così come la guarigione inaspettata oppure la dura prova sono percepite dall’occhio interiore come una visita del Signore. Al pari, un’immagine della Madre di Dio, legata a un’irruzione di grazia nel nostro mondo, porta in sé un nome nuovo del Signore, iscritto in un evento storico o personale. Quel nome può un giorno diventare sorgente di un nuovo miracolo, come ci parlano i nomi di tantissime icone mariane:

Gioia inaspettata, Ricerca dei perduti, Sorgente vivificante, Gioia degli Afflitti e così via.

«Cos’è l’immagine di Dio, la luce spirituale del santo sguardo» chiede Pavel Florenskij «se non il nome di Dio tracciato sul volto santo? Sua somiglianza in quanto testimone è il mistico, il santo, che quand’anche parli lui, tuttavia testimonia non di sé ma di Dio, e attraverso se stesso rivela non se stesso ma Lui, come questi testimoni dei testimoni, i pittori d’icone, testimoniano non della loro arte dell’icona, cioè non di sé, ma dei santi testimoni del Signore, e con loro del Signore stesso»4.

Il nome del Signore, rivelato dall’icona di Andrej Rublev – è la Trinità stessa. Qui siamo davanti a tre testimoni che sono Tre Volti. Non sono dèi, ma coloro che fanno apparire Dio. Abramo, al momento dell’incontro con essi, si rivolge ad Uno:

«Mio Signore; se ho trovato grazia ai Tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo» (Gen 18, 3). Le stesse parole, ma espresse con le linee ed i colori, l’iconografo le porta ai nostri orecchi, testimoniando sui testimoni. La sua arte è la preghiera della benedizione del Signore, il suo compito è quello di comunicare questa benedizione a noi, di farci partecipare nella celebrazione in cui vivono le immagini da lui create. L’icona, per suo principio, è benedizione nel colore e sboccia nel fiume delle benedizioni della liturgia che si compie nella comunione ai Santi Doni. «Se c’è Trinità, c’è anche l’esperienza del Dio Trino che ci fa partecipi nel suo Spirito, rivelato nell’immagine» potrebbe dire Pavel Florenskij. «Non soltanto l’esperienza ma anche la realtà essenziale e sacramentale che tocca la mia esistenza». E se c’è un’esperienza della comunione – aggiunge la nostra fede –, c’è, dunque, anche Colui a cui stiamo per diventare partecipi. Così, l’icona diventa una prova secondo l’esperienza acquisita, un’illuminazione che va dalla visita, piena di grazia, alla realtà ontologica del Visitatore, all’Invisibile che abita nella «mente pura» (san Massimo il Confessore)5.

Correlazione con il Prototipo

La riflessione sull’icona della Trinità parte da alcune domande: se la visione intelligente e personale di Dio sia possibile; se la comunione con Lui sia pensabile; cos’è l’immagine di Dio immessa in noi?

Ogni tentativo di risposta va messo a confronto con la parola di Dio.

«Colui che ha detto di sé: ‘Io sono colui che sono!’ (Es 3; 14) è l’Essere personale nel senso supremo, assoluto del termine».6 Questo essere personale si chiarisce in noi quando rivolgiamo il nostro volto al Volto del Figlio, nel quale si riflette l’«immagine di Dio» (2 Cor 4, 4) che «è nel seno del padre» (Gv 1, 8).

L’immagine si riconosce nel Figlio, nel cristocentrismo di questa affermazione proviene dalla tradizione patristica. «I padri», afferma P. Gabriel Bunge

«identificavano questa immagine di Dio non con qualche cosa di statico, ma con un rapporto vivente. È un rimando allo spirito creato da Dio, pura ricettività e apertura dell’immagine al suo divino archetipo».7

Questo rimando è un segno della nostra natura creata, che fin dall’inizio fa parte della nostra umanità. L’uomo, destinato ad abitare nel giardino di Dio e con la sua capacità di vedere Dio faccia a faccia, non poteva essere sradicato completamento dopo la prima caduta (seguita poi da tante altre). Ciò è conservato nella nostra memoria e la memoria è una delle tavolette dell’immagine di Dio. La memoria ci apre alla personale contemplazione di Dio, anche se «come in uno specchio, in maniera confusa» (1 Cor 13, 12).

Tutta la conoscenza di Dio si svolge nella comunione, attraverso la sua conoscenza di noi e si effettua nella vita liturgica della Chiesa. Noi ci conosciamo quando ci apriamo al mistero di Dio – che entra in noi tramite la preghiera e l’immagine.

Dio ci appare nell’esperienza della comunione. L’icona, in rapporto al dono artistico dell’iconografo, riveste questa comunione d’immagini visibili. L’icona non è soltanto il linguaggio figurativo della fede, ma anche il luogo della teofania. E la teofania manifesta in sé la Pentecoste. Lo Spirito Santo raggiunge l’essere umano, che riceve in questo modo la facoltà della comunione con Lui. Grazie al Consolatore noi entriamo in contatto con l’Intoccabile e l’Impensabile, che può essere percepito con i nostri sensi. Questo contatto è il dono dello Spirito Santo che cambia l’uomo stesso. Tramite l’icona possiamo entrare in comunione con Lui: «A tutti noi, a viso scoperto, riflettendo come in un specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine. Di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2 Cor 3, 18).

La Trinità di san Andrej Rublev – più che qualsiasi altra icona – esprime questa esperienza iniziale della santità di Dio, come sacramento dell’incontro, della contemplazione, della comunione e della memoria. Essa ci parla del sacramento compiuto nel cuore dell’iconografo e non soltanto del suo incontro personale. Ma prima di tutto ciò ci comunica quello è immesso nel deposito della Chiesa: la visione degli angeli da parte degli uomini, l’essenziale similitudine fra gli angeli e la loro contemplazione, che può essere offerta anche a noi. Tutto questo lo possiamo chiamare visione di Dio, anche se nessuno ha visto Dio… (cfr. Gv 1, 18).

«Le Potenze Angeliche ti servono e i cori degli Arcangeli ti adorano; i Cherubini tutti ricoperti d’occhi, e i Serafini dalle sei ali, che stanno attorno a Te, si velano per timore della tua gloria inaccessibile»8.

«L’odiosa discordia del mondo»

L’icona della Trinità esprime la dimensione esterna della conoscenza e l’interiorità dell’esperienza o, meglio, della presenza dello Spirito. Grazie allo Spirito Santo, di cui l’icona è portatrice, siamo invitati alla partecipazione della natura divina (cfr. 2 Pt). Raffigurando Colui chi è inaccessibile, l’iconografo ci porta alla scoperta del nostro volto umano. Non si tratta della faccia di un uomo qualsiasi, perso nella folla, ma del volto interiore che Dio ci ha dato nel giorno della creazione. Il volto che Lui ci riconosce in ogni giorno della nostra esistenza. Il volto con cui veniamo nel mondo, moriamo e ci presentiamo al Giudizio. Esiste nel mondo della separazione e dell’opposizione, ma non esiste nella dimora del Padre. Nell’icona della Trinità, nonostante le diversità di colori e le differenze tra le figure non c’è nessuna opposizione, Dio è unico nelle Tre Persone. «Dio nessuno l’ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del padre, lui lo ha rivelato». (Gv 1, 18). Il messaggio dell’icona è lo stesso: il Padre è invisibile. Lo rivela e lo confessa il Figlio dal volto umano. Lo Spirito Santo ci ricorda di Lui e l’icona produce questa memoria dentro di noi.

Lo Spirito è invisibile, ma la sua presenza si manifesta nella vita e nell’esperienza accessibile a noi. Una di queste manifestazione è il superamento dell’«odiosa discordia del mondo», secondo il motto di san Sergio di Radonež. Le radici di questa discordia sono molto più profonde che le guerre perenni ed i litigi umani. La discordia si trova nel fondamento stesso del nostro essere sulla terra e si appoggia, filosoficamente parlando, sulla dualità del soggetto-oggetto. In altre parole, sull’opposizione dell’essere umano come soggetto a qualsiasi oggetto, vicino o lontano, corporale o immateriale, reale o virtuale. In fin dei conti, a Dio stesso. La radice di tutte le guerre e le conquiste è già qui. Questa discordia è regolata dalla legge che tiene sotto controllo l’inimicizia ed il caos, nascosti, cum grano salis, nell’aspetto relativamente dignitoso e corretto del nostro mondo. Ma il caos e la discordia funzionano come vulcani che dormono, per poi gettare il fuoco dal sottosuolo. La legge della convivenza obbligatoria regola queste irruzioni, sistema i rapporti fra l’uomo e l’uomo, fra l’uomo ed il mondo, fra l’uomo e Dio, ma parte sempre dal principio della divisione e dell’opposizione.

«Perché la legge fu data per mezzo di Mosé. La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 18). La stupenda novità dell’Incarnazione e la donazione dello Spirito che l’ha seguita sta proprio nella abrogazione della legge dell’opposizione, ma anche nella profondità ontologica dell’esistenza umana, nella divisione fra il nostro ego e qualsiasi altra creatura di Dio. Ed anche tra noi e lo stesso Dio.

«Il Regno di Dio è vicino» (Mc 1, 15) dice Giovanni Battista. «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» fa eco Gesù (Lc 17, 21). Una nuova realtà è venuta nel mondo, una realtà dove Dio e l’uomo non sono più divisi, dove possono incontrarsi e stare insieme. «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3, 16). Nell’interrogazione di Paolo si rivela anche una concezione nuova del corpo umano. Il corpo non è più l’oggetto o lo strumento, ma diventa il ricettacolo del dono di Dio, un vaso d’argilla contenente il tesoro che è la vita nello Spirito. La grazia e la verità vincono il potere della divisione, dell’opposizione del soggetto e dell’oggetto, della conoscenza e delle cose conoscibili, del padrone e dello schiavo, del possessore e del posseduto, perché lo Spirito della verità che riempie tutta la creazione, porta all’essere creato il dono della rivelazione della Trinità. Dio lascia di essere ricordato, visto, invitato all’incontro con Lui in tutto ciò che è uscito dalle mani del Padre. E l’uomo, tempio dello Spirito, è il luogo privilegiato di questo incontro. Questo tempio non è gettato nell’universo come un corpo eterogeneo: questo tempio è la concentrazione del cosmo. L’uomo è il luogo dell’abitazione di Dio, nel quale il cosmo non si divide in forze nemiche e volontà che s’oppongono, ma realtà che si riuniscono e si ritrovano in armonia. «L’odiosa discordia del mondo» è inizialmente estranea alla natura creata dell’uomo e la Trinità di Rublev ci ricorda di questo inizio e del nostro Creatore.

Vediamo i corpi, ma non c’è nessuna opposizione tra loro. Ci sono i volti che esprimono la fioritura delle facce umane, ma non c’è neanche una traccia di soggettività. Ci sono tra le figure differenze, ma non ci sono separazioni. Ci sono le immagini dei pellegrini che nascondono e manifestano il Dio incarnato che appare in tre Persone, ma non c’è una certificazione obbligatoria per ciascuno. Le teste di due Angeli sono rivolte verso il Primo e sembra che il Primo le attiri, ma nulla ci costringe ad identificarle con le immagini del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Possiamo chiamarli Angeli o, semplicemente, Ospiti di Abramo. La cosa essenziale è che qui non c’è una differenza ontologica fra il raffigurato ed il contemplato perché ciò che vediamo è una particella dell’esperienza ecclesiale – anche della nostra vita interiore, nella misura in cui la nostra facoltà si avvicina alla sorgente, dove essa diventa la vita divino-umana. Noi scrutiamo l’immagine e riconosciamo ciò che è stato già iscritto nella profondità della nostra fede. Ogni divisione, pur con le proprie minutissime limitazioni, è qui superata. Davanti a questi Volti della Trinità, ciascuno di noi possiede occhi che si aprono e si trova al posto di Abramo che accoglie i Tre Pellegrini sotto la propria tenda.

La benedizione di Abramo

«Non dimenticatevi l’ospitalità; alcuni praticandola hanno accolto degli angeli, senza saperlo» (Eb 13,2 ).

Abramo è la persona con la quale il Signore prima ha fatto l’alleanza e poi gli viene confermata l’elezione quando tre Pellegrini vengono da lui. Chi erano questi Tre? San Procopio di Gaza (VI sec.) dice: «alcuni affermano che loro erano tra angeli. Gli altri affermano che uno di loro era Dio, gli angeli sono gli altri due, ma la maggior parte pensa che si tratta del Prototipo (typos) della Santissima Trinità».

L’autore dell’icona non sapeva nulla di tutte queste interpretazioni, ma l’esperienza spirituale e liturgica, serbata nella Tradizione ecclesiale (che andava dalla benedizione di Abramo fino a san Sergio di Radonež, quasi contemporaneo di Rublev) si è cristallizzata nell’immagine. Nella benedizione di Abramo si trova anche la prima sorgente della Trinità di Rublev, perché benedicendo il Signore si rivela. Perché il «Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe» (Es 3, 16) è lo stesso Dio degli iconografi e lo stesso Dio che si è rivelato di nuovo in Gesù di Nazaret. «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza furono fatte le promesse» (Gal 3, 16). E l’icona della Trinità è il compimento di questa promessa, dell’antica benedizione.

L’icona fa giungere la sua benedizione eterna anche a noi. Il seme d’Abramo sono oramai tutti i credenti, riuniti nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Dal nomade che un tempo ha camminato con la moglie e con i servi prende avvio la corrente delle benedizioni che arriva anche ai nostri giorni. L’icona parla della visita ricevuta da Abramo e ci fa partecipi di questa visita. L’opera di Andrej Rublev risveglia la nostra memoria ed anche le promesse dei beni futuri. Non soltanto lo spazio con le sue opposizione è qui superato, ma anche il tempo. Nell’icona non c’è un’opposizione fra i Volti, ma neanche l’opposizione fra il passato remoto e il futuro delle promesse, il Regno di Dio.

Abramo come personaggio storico non appare nell’icona di Rublev. La sua presenza, ancora rappresentata nei predecessori dell’iconografo russo, poteva dare all’icona il carattere di un sacro ricordo, mentre il suo messaggio è quello della memoria del futuro. La sua presenza davanti alla Trinità aggiungerebbe un momento d’opposizione, di divisione fra lui ed i Personaggi rappresentati. Abramo non c’è, ma ci sono i doni da lui portati, il segno della comunione. Non c’è la presenza fisica, ma c’è il compimento dell’alleanza. Non c’è il padre terrestre di Isacco, ma c’è una promessa realizzata: «in lui si diranno benedette tutele nazioni della terra» (Gen 18, 18). E l’aria di questa benedizione è sciolta nell’icona, perché la benedizione è già comunione con Dio.

L’immagine fatta dal nostro iconografo è testimonianza della comunione e dell’ospitalità di Dio. Il Signore ci lascia entrare nella sua vita intima e nascosta. Ma l’icona fa spalancare questa vita davanti a noi. «Ciò che ci intenerisce, colpisce e quasi brucia nell’opera di Rublev» dice Pavel Florenskij, «non è affatto il soggetto né il numero tre né la coppa sul tavolo né le ali, ma il velo improvvisamente sollevatosi davanti a noi sul mondo noumenico; e per noi, nell’ordine estetico, è importante non con quali mezzi il pittore d’icone ha raggiunto questa manifestazione del noumenico, (…), bensì il fatto che egli veramente ha trasmesso a noi la visione apparsagli»9.

Questa rivelazione che avvenne sulla soglia della storia umana (l’incontro sotto le Querce di Mamre) contiene anche la promessa dell’incontro aldilà della storia, nella realtà del Regno, delle «cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrato nel cuore di uomo» (1 Cor 2, 9). Qui non c’è Abramo, ma è accessibile «il seno di Abramo» (Lc 16, 22), il paradiso che ha toccato la terra, la comunione contemplativa annunciata e effettuata dall’icona. E questa comunione diventa un atto non di un mistico solitario, ma della Chiesa nel suo insieme.

Il compimento della icona

Prima di diventare un’icona, la visita della Trinità fu un avvenimento. Ciò che è avvenuto una volta in tempi lontani si ferma e si forma come una finestra aperta sul mondo noumenico, come un’«immagine mobile dell’eternità»10. In essa Dio si rivela agli uomini, si trasforma nella conoscenza e nella memoria del cuore. Ma anche se dipinta sul legno, la conoscenza rivelata non può essere immobile, fissata per sempre. Essa si presenta come sorgente permanente del messaggio di Dio. Nel caso della Trinità il messaggio è la benedizione data una volta ad Abramo. L’icona attualizza: questo incontro avviene in noi stessi, la benevolenza donata ad Abramo scende su di noi, il Signore – incomprensibile ed invisibile –, entra sotto la nostra tenda. Così l’icona si rinnova sempre nell’esperienza dei santi.

«Il compimento dell’icona è la Rivelazione stessa che continua, quando Dio ha la bontà di scendere su di noi, si lascia riconoscere nell’Eucarestia, nella tradizione della Chiesa, nella nostra vita stessa. In quel senso l’iconografo è il servitore della Buona e lieta Notizia. Perciò», scrive P. Gabriele Bunge, «l’icona della Trinità ha sempre da dirci qualche cosa di nuovo»11.

La Trinità ci parla affinché noi, pur rimanendo dentro lo spazio del messaggio- incontro, possiamo custodire la facoltà della comunione ed essere partecipi dell’esperienza dalla quale questa icona è nata. La comunione rimarrà un avvenimento che trasforma il nostro rifugio – sia esso la casa, la comunità, la Chiesa oppure l’anima – nello spazio della visita della Trinità. Andrej Rublev non ha avuto l’intenzione di raffigurare Dio – che nessuno ha mai visto. Egli ha soltanto rappresentato nelle immagini la grazia di Dio che portava nel proprio cuore, la Buona Notizia dell’Incarnazione. Ha svelato il Volto di Dio in una misura accessibile alla facoltà visiva e spirituale dell’uomo.

Nell’icona vediamo la mitezza delle linee, la dolcezza dei colori e la profondità che prevale sulla luminosità. Sembra che questa luminosità nasconda una luce inaccessibile al nostro occhio. La luce diventa carne – figura, vestito, volto – per perdere il proprio mistero. La Trinità è la visione della luce di Dio come comunione. Essa esprime l’avvenimento che non si lascia cogliere con le parole: quello della comunione che unisce le Tre ipostasi l’una all’altra nell’unica essenza e nella stessa partecipazione dell’uomo a questo mistero – come individuo, come Chiesa e come umanità.

Davanti all’icona noi, in forza dell’arte della contemplazione che acquistiamo, ci avviciniamo alla «profondità della ricchezza della sapienza e della scienza di Dio» (Rm 11, 33) che si trova nella fede trinitaria. Diveniamo – anche per un attimo con il sacramento della vista – coloro che fanno ospitalità, seduti davanti alla propria tenda, mentre la Santissima Trinità passa accanto a noi12.

Il sacramento della conoscenza

Una delle regole della fede ortodossa è l’invisibilità e l’inconoscibilità di Dio.

Un’altra regola è la sua iconocità: la possibilità, benedetta da Dio stesso, di esprimere l’Essere divino attraverso le immagini. Il mistero può essere rivelato tramite il volto umano: questo è il principio dell’arte iconografica.

Ma, come in qualsiasi situazione paradossale, i due elementi che fanno parte di questo legame, raramente trovano un equilibrio perfetto. Di solito, l’umano ha la meglio sul divino e quando il pittore vuole dare un’immagine della Trinità, raffigura un venerabile Vegliardo con la barba bianca, il Cristo accanto alla croce e sopra una dolce colomba bianca. Anche se questa raffigurazione è stata proibita dalla Tradizione, essa è diventata una delle più popolari.

Parliamo qui della raffigurazione più famosa della Trinità, l’icona di Andrej Rublev. Questo monaco, come nessun altro ha mostrato il linguaggio delle immagini nel quale si poteva rivelare il «mistero nascosto da secoli e da generazioni, ma ora è manifestati ai suoi santi, ai quali Dio volle far conoscere la gloriosa ricchezza di questo mistero ai pagani, cioè Cristo in voi, speranza della gloria» (Col 1, 26-27).

Sì, l’icona della Trinità mostra ciò che è velato e si trova al riparo dallo sguardo e dal pensiero umano. Ed il riparo diventa sempre più invalicabile grazie proprio al successo che si è manifestato per quest’opera nei milioni di copie e di cartoline diffuse in tutto il mondo. Tale è il destino di ogni tesoro mussale: un visitatore, passando accanto ad un’immagine, riceve per un attimo il messaggio, la sagoma dall’esterno ed esce con l’ingannevole impressione di aver visto e capito qualche cosa. Nel nostro caso, si tratta della conoscenza del Dio Uno e Trino. Oramai egli crede di sapere come è fatto Dio. Entriamo per un attimo in contatto con una grande opera d’arte, ma la comunione con Dio resta sempre velata per noi. Anzi, forse, essa è diventata ancora più lontana ed inaccessibile. Perché Dio si rivela nel cambiamento dell’uomo, in colui che cerca la comunione con Lui.

Non c’è bisogno di ricordare che l’arte della contemplazione sia una delle più difficili poiché essa resta legata al deposito non ancora esplorato della nostra memoria. La sua scoperta comincia con la meraviglia che si fa con l’aiuto di tutto ciò che è stato già scoperto dalla Tradizione, dall’esperienza dei santi ed è raffigurata nei testi liturgici. In altre parole, con la scuola della buona vista che si abitua, si aggiusta davanti all’oggetto della contemplazione. Così il nostro sguardo cambia. Davanti all’Oggetto incomprensibile – che non può essere mai un oggetto visto e toccato con gli occhi e con i pensieri –, lo sguardo contemplativo si muove dal proprio spirito sigillato verso l’invisibile presenza della Trinità. Lo sguardo ricorda ciò che una volta fu visto e risveglia la visione di Dio. Questo risveglio dell’uomo interiore (cfr. 1 Pt) chiede un grande sforzo spirituale. Il mistero nascosto da secoli si manifesta facendoci santi nella misura della nostra capacità della contemplazione, della nostra apertura alla rivelazione del mistero di Dio. Proprio in questa trasformazione interiore consiste l’enigma dell’opera di Rublev. La trasformazione: che secondo le parole del filosofo russo Lev Karsavin13, può essere chiamata «la comunione della conoscenza».

La comunione è il sacramento come atto ecclesiale. Ma anche la conoscenza lo può essere, poiché essa ci comunica allo spirito di Cristo. Se durante la liturgia tutto ciò che si fa con le parole, le azioni, i gesti, i colori, i suoni serve alla celebrazione del sacramento, lo è anche nella contemplazione dell’icona. In quella vera, il nostro sguardo fissato sull’immagine ci porta all’unione sacramentale tra lo spirito umano e lo Spirito Santo. Il Verbo s’incarna nella visione e diventa il sacramento della conoscenza. L’iconografo ci introduce nel cerchio di coloro che hanno la visione consacrata, ci comunica la conoscenza dei partecipanti alla Pentecoste. La sua arte consiste nel far conoscere la gloriosa ricchezza dell’Incomprensibile, di unirla con quella scintilla di luce che l’uomo porta in sé. Egli acquista la prova delle cose che non si vedono (cfr. Eb 11, 1), ma che si rivelano nella condizione umana, nella riscoperta della propria natura paradisiaca. L’arte dell’icona non è soltanto una contemplazione nel colore14, ma anche l’arte della nostra conoscenza in Dio.

La prova secondo Florenskij

Si conosce la famosa massima del grande pensatore russo Pavel Florenskij nel suo libro Le porte regali: «Esiste la Trinità di Rublev, perciò Dio è»15. Cosa voleva dire con questo? Che Rublev abbia dipinto Dio? Che Florenskij con la sua logica aristotelica (se c’è una causa, dovrebbe esserci anche una conseguenza), abbia costretto Dio ad essere? Non si tratta, però, di una costrizione razionale. La logica umana non può essere usata come un laccio per trascinare qualcuno – anche in modo intellettuale – ad essere per noi. Ma non è la logica che si mette in gioco e neanche l’esperienza di una visita sopranaturale vissuta da noi: si tratta della discreta rivelazione di un incontro.

Colui che è «Dio ineffabile, inesplicabile, invisibile, incomprensibile», come dice la liturgia di san Giovanni Crisostomo, è passato accanto a noi, ha lasciato le Sue tracce negli avvenimenti della vita umana, trasformandole in notizie su di Lui, nel Suo sigillo, nel segno del Suo pensiero su di noi. Questo segno può diventare visibile e comprensibile con il cuore e con la mente, immesso nella comunione umana. Questo sigillo non si cancella: una volta entrato nella memoria, lì rimane per sempre. Così come la guarigione inaspettata oppure la dura prova sono percepite dall’occhio interiore come una visita del Signore. Al pari, un’immagine della Madre di Dio, legata a un’irruzione di grazia nel nostro mondo, porta in sé un nome nuovo del Signore, iscritto in un evento storico o personale. Quel nome può un giorno diventare sorgente di un nuovo miracolo, come ci parlano i nomi di tantissime icone mariane: Gioia inaspettata, Ricerca dei perduti, Sorgente vivificante, Gioia degli Afflitti e così via.

«Cos’è l’immagine di Dio, la luce spirituale del santo sguardo» chiede Pavel Florenskij «se non il nome di Dio tracciato sul volto santo? Sua somiglianza in quanto testimone è il mistico, il santo, che quand’anche parli lui, tuttavia testimonia non di sé ma di Dio, e attraverso se stesso rivela non se stesso ma Lui, come questi testimoni dei testimoni, i pittori d’icone, testimoniano non della loro arte dell’icona, cioè non di sé, ma dei santi testimoni del Signore, e con loro del Signore stesso»16.

Il nome del Signore, rivelato dall’icona di Andrej Rublev – è la Trinità stessa. Qui siamo davanti a tre testimoni che sono Tre Volti. Non sono dèi, ma coloro che fanno apparire Dio. Abramo, al momento dell’incontro con essi, si rivolge ad Uno:

«Mio Signore; se ho trovato grazia ai Tuoi occhi, non passar oltre senza fermarti dal tuo servo» (Gen 18, 3). Le stesse parole, ma espresse con le linee ed i colori, l’iconografo le porta ai nostri orecchi, testimoniando sui testimoni. La sua arte è la preghiera della benedizione del Signore, il suo compito è quello di comunicare questa benedizione a noi, di farci partecipare nella celebrazione in cui vivono le immagini da lui create. L’icona, per suo principio, è benedizione nel colore e sboccia nel fiume delle benedizioni della liturgia che si compie nella comunione ai Santi Doni. «Se c’è Trinità, c’è anche l’esperienza del Dio Trino che ci fa partecipi nel suo Spirito, rivelato nell’immagine» potrebbe dire Pavel Florenskij. «Non soltanto l’esperienza ma anche la realtà essenziale e sacramentale che tocca la mia esistenza». E se c’è un’esperienza della comunione – aggiunge la nostra fede –, c’è, dunque, anche Colui a cui stiamo per diventare partecipi. Così, l’icona diventa una prova secondo l’esperienza acquisita, un’illuminazione che va dalla visita, piena di grazia, alla realtà ontologica del Visitatore, all’Invisibile che abita nella «mente pura» (san Massimo il Confessore)17.

Correlazione con il Prototipo

La riflessione sull’icona della Trinità parte da alcune domande: se la visione intelligente e personale di Dio sia possibile; se la comunione con Lui sia pensabile; cos’è l’immagine di Dio immessa in noi?

Ogni tentativo di risposta va messo a confronto con la parola di Dio.

«Colui che ha detto di sé: ‘Io sono colui che sono!’ (Es 3; 14) è l’Essere personale nel senso supremo, assoluto del termine».18 Questo essere personale si chiarisce in noi quando rivolgiamo il nostro volto al Volto del Figlio, nel quale si riflette l’«immagine di Dio» (2 Cor 4, 4) che «è nel seno del padre» (Gv 1, 8).

L’immagine si riconosce nel Figlio, nel cristocentrismo di questa affermazione proviene dalla tradizione patristica. «I padri», afferma P. Gabriel Bunge «identificavano questa immagine di Dio non con qualche cosa di statico, ma con un rapporto vivente. È un rimando allo spirito creato da Dio, pura ricettività e apertura dell’immagine al suo divino archetipo».19

Questo rimando è un segno della nostra natura creata, che fin dall’inizio fa parte della nostra umanità. L’uomo, destinato ad abitare nel giardino di Dio e con la sua capacità di vedere Dio faccia a faccia, non poteva essere sradicato completamento dopo la prima caduta (seguita poi da tante altre). Ciò è conservato nella nostra memoria e la memoria è una delle tavolette dell’immagine di Dio. La memoria ci apre alla personale contemplazione di Dio, anche se «come in uno specchio, in maniera confusa» (1 Cor 13, 12).

Tutta la conoscenza di Dio si svolge nella comunione, attraverso la sua conoscenza di noi e si effettua nella vita liturgica della Chiesa. Noi ci conosciamo quando ci apriamo al mistero di Dio – che entra in noi tramite la preghiera e l’immagine.

Dio ci appare nell’esperienza della comunione. L’icona, in rapporto al dono artistico dell’iconografo, riveste questa comunione d’immagini visibili. L’icona non è soltanto il linguaggio figurativo della fede, ma anche il luogo della teofania. E la teofania manifesta in sé la Pentecoste. Lo Spirito Santo raggiunge l’essere umano, che riceve in questo modo la facoltà della comunione con Lui. Grazie al Consolatore noi entriamo in contatto con l’Intoccabile e l’Impensabile, che può essere percepito con i nostri sensi. Questo contatto è il dono dello Spirito Santo che cambia l’uomo stesso. Tramite l’icona possiamo entrare in comunione con Lui: «A tutti noi, a viso scoperto, riflettendo come in un specchio la gloria del Signore, veniamo trasformati in quella medesima immagine. Di gloria in gloria, secondo l’azione dello Spirito Santo» (2 Cor 3, 18).

La Trinità di san Andrej Rublev – più che qualsiasi altra icona – esprime questa esperienza iniziale della santità di Dio, come sacramento dell’incontro, della contemplazione, della comunione e della memoria. Essa ci parla del sacramento compiuto nel cuore dell’iconografo e non soltanto del suo incontro personale. Ma prima di tutto ciò ci comunica quello è immesso nel deposito della Chiesa: la visione degli angeli da parte degli uomini, l’essenziale similitudine fra gli angeli e la loro contemplazione, che può essere offerta anche a noi. Tutto questo lo possiamo chiamare visione di Dio, anche se nessuno ha visto Dio… (cfr. Gv 1, 18).

«Le Potenze Angeliche ti servono e i cori degli Arcangeli ti adorano; i Cherubini tutti ricoperti d’occhi, e i Serafini dalle sei ali, che stanno attorno a Te, si velano per timore della tua gloria inaccessibile»20.

«L’odiosa discordia del mondo»

L’icona della Trinità esprime la dimensione esterna della conoscenza e l’interiorità dell’esperienza o, meglio, della presenza dello Spirito. Grazie allo Spirito Santo, di cui l’icona è portatrice, siamo invitati alla partecipazione della natura divina (cfr. 2 Pt). Raffigurando Colui chi è inaccessibile, l’iconografo ci porta alla scoperta del nostro volto umano. Non si tratta della faccia di un uomo qualsiasi, perso nella folla, ma del volto interiore che Dio ci ha dato nel giorno della creazione. Il volto che Lui ci riconosce in ogni giorno della nostra esistenza. Il volto con cui veniamo nel mondo, moriamo e ci presentiamo al Giudizio. Esiste nel mondo della separazione e dell’opposizione, ma non esiste nella dimora del Padre. Nell’icona della Trinità, nonostante le diversità di colori e le differenze tra le figure non c’è nessuna opposizione, Dio è unico nelle Tre Persone. «Dio nessuno l’ha mai visto; proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del padre, lui lo ha rivelato». (Gv 1, 18). Il messaggio dell’icona è lo stesso: il Padre è invisibile. Lo rivela e lo confessa il Figlio dal volto umano. Lo Spirito Santo ci ricorda di Lui e l’icona produce questa memoria dentro di noi.

Lo Spirito è invisibile, ma la sua presenza si manifesta nella vita e nell’esperienza accessibile a noi. Una di queste manifestazione è il superamento dell’«odiosa discordia del mondo», secondo il motto di san Sergio di Radonež. Le radici di questa discordia sono molto più profonde che le guerre perenni ed i litigi umani. La discordia si trova nel fondamento stesso del nostro essere sulla terra e si appoggia, filosoficamente parlando, sulla dualità del soggetto-oggetto. In altre parole, sull’opposizione dell’essere umano come soggetto a qualsiasi oggetto, vicino o lontano, corporale o immateriale, reale o virtuale. In fin dei conti, a Dio stesso. La radice di tutte le guerre e le conquiste è già qui. Questa discordia è regolata dalla legge che tiene sotto controllo l’inimicizia ed il caos, nascosti, cum grano salis, nell’aspetto relativamente dignitoso e corretto del nostro mondo. Ma il caos e la discordia funzionano come vulcani che dormono, per poi gettare il fuoco dal sottosuolo. La legge della convivenza obbligatoria regola queste irruzioni, sistema i rapporti fra l’uomo e l’uomo, fra l’uomo ed il mondo, fra l’uomo e Dio, ma parte sempre dal principio della divisione e dell’opposizione.

«Perché la legge fu data per mezzo di Mosé. La grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1, 18). La stupenda novità dell’Incarnazione e la donazione dello Spirito che l’ha seguita sta proprio nella abrogazione della legge dell’opposizione, ma anche nella profondità ontologica dell’esistenza umana, nella divisione fra il nostro ego e qualsiasi altra creatura di Dio. Ed anche tra noi e lo stesso Dio.

«Il Regno di Dio è vicino» (Mc 1, 15) dice Giovanni Battista. «Il Regno di Dio è in mezzo a voi» fa eco Gesù (Lc 17, 21). Una nuova realtà è venuta nel mondo, una realtà dove Dio e l’uomo non sono più divisi, dove possono incontrarsi e stare insieme. «Non sapete che siete tempio di Dio e che lo Spirito di Dio abita in voi?» (1 Cor 3, 16). Nell’interrogazione di Paolo si rivela anche una concezione nuova del corpo umano. Il corpo non è più l’oggetto o lo strumento, ma diventa il ricettacolo del dono di Dio, un vaso d’argilla contenente il tesoro che è la vita nello Spirito. La grazia e la verità vincono il potere della divisione, dell’opposizione del soggetto e dell’oggetto, della conoscenza e delle cose conoscibili, del padrone e dello schiavo, del possessore e del posseduto, perché lo Spirito della verità che riempie tutta la creazione, porta all’essere creato il dono della rivelazione della Trinità. Dio lascia di essere ricordato, visto, invitato all’incontro con Lui in tutto ciò che è uscito dalle mani del Padre. E l’uomo, tempio dello Spirito, è il luogo privilegiato di questo incontro. Questo tempio non è gettato nell’universo come un corpo eterogeneo:

questo tempio è la concentrazione del cosmo. L’uomo è il luogo dell’abitazione di Dio, nel quale il cosmo non si divide in forze nemiche e volontà che s’oppongono, ma realtà che si riuniscono e si ritrovano in armonia. «L’odiosa discordia del mondo» è inizialmente estranea alla natura creata dell’uomo e la Trinità di Rublev ci ricorda di questo inizio e del nostro Creatore.

Vediamo i corpi, ma non c’è nessuna opposizione tra loro. Ci sono i volti che esprimono la fioritura delle facce umane, ma non c’è neanche una traccia di soggettività. Ci sono tra le figure differenze, ma non ci sono separazioni. Ci sono le immagini dei pellegrini che nascondono e manifestano il Dio incarnato che appare in tre Persone, ma non c’è una certificazione obbligatoria per ciascuno. Le teste di due Angeli sono rivolte verso il Primo e sembra che il Primo le attiri, ma nulla ci costringe ad identificarle con le immagini del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Possiamo chiamarli Angeli o, semplicemente, Ospiti di Abramo. La cosa essenziale è che qui non c’è una differenza ontologica fra il raffigurato ed il contemplato perché ciò che vediamo è una particella dell’esperienza ecclesiale – anche della nostra vita interiore, nella misura in cui la nostra facoltà si avvicina alla sorgente, dove essa diventa la vita divino-umana. Noi scrutiamo l’immagine e riconosciamo ciò che è stato già iscritto nella profondità della nostra fede. Ogni divisione, pur con le proprie minutissime limitazioni, è qui superata. Davanti a questi Volti della Trinità, ciascuno di noi possiede occhi che si aprono e si trova al posto di Abramo che accoglie i Tre Pellegrini sotto la propria tenda.

La benedizione di Abramo

«Non dimenticatevi l’ospitalità; alcuni praticandola hanno accolto degli angeli, senza saperlo» (Eb 13,2 ).

Abramo è la persona con la quale il Signore prima ha fatto l’alleanza e poi gli viene confermata l’elezione quando tre Pellegrini vengono da lui. Chi erano questi Tre? San Procopio di Gaza (VI sec.) dice: «alcuni affermano che loro erano tra angeli. Gli altri affermano che uno di loro era Dio, gli angeli sono gli altri due, ma la maggior parte pensa che si tratta del Prototipo (typos) della Santissima Trinità».

L’autore dell’icona non sapeva nulla di tutte queste interpretazioni, ma l’esperienza spirituale e liturgica, serbata nella Tradizione ecclesiale (che andava dalla benedizione di Abramo fino a san Sergio di Radonež, quasi contemporaneo di Rublev) si è cristallizzata nell’immagine. Nella benedizione di Abramo si trova anche la prima sorgente della Trinità di Rublev, perché benedicendo il Signore si rivela. Perché il «Dio di Abramo, d’Isacco e di Giacobbe» (Es 3, 16) è lo stesso Dio degli iconografi e lo stesso Dio che si è rivelato di nuovo in Gesù di Nazaret. «Ora è appunto ad Abramo e alla sua discendenza furono fatte le promesse» (Gal 3, 16). E l’icona della Trinità è il compimento di questa promessa, dell’antica benedizione.

L’icona fa giungere la sua benedizione eterna anche a noi. Il seme d’Abramo sono oramai tutti i credenti, riuniti nel Corpo di Cristo che è la Chiesa. Dal nomade che un tempo ha camminato con la moglie e con i servi prende avvio la corrente delle benedizioni che arriva anche ai nostri giorni. L’icona parla della visita ricevuta da Abramo e ci fa partecipi di questa visita. L’opera di Andrej Rublev risveglia la nostra memoria ed anche le promesse dei beni futuri. Non soltanto lo spazio con le sue opposizione è qui superato, ma anche il tempo. Nell’icona non c’è un’opposizione fra i Volti, ma neanche l’opposizione fra il passato remoto e il futuro delle promesse, il Regno di Dio.

Abramo come personaggio storico non appare nell’icona di Rublev. La sua presenza, ancora rappresentata nei predecessori dell’iconografo russo, poteva dare all’icona il carattere di un sacro ricordo, mentre il suo messaggio è quello della memoria del futuro. La sua presenza davanti alla Trinità aggiungerebbe un momento d’opposizione, di divisione fra lui ed i Personaggi rappresentati. Abramo non c’è, ma ci sono i doni da lui portati, il segno della comunione. Non c’è la presenza fisica, ma c’è il compimento dell’alleanza. Non c’è il padre terrestre di Isacco, ma c’è una promessa realizzata: «in lui si diranno benedette tutele nazioni della terra» (Gen 18, 18). E l’aria di questa benedizione è sciolta nell’icona, perché la benedizione è già comunione con Dio.

L’immagine fatta dal nostro iconografo è testimonianza della comunione e dell’ospitalità di Dio. Il Signore ci lascia entrare nella sua vita intima e nascosta. Ma l’icona fa spalancare questa vita davanti a noi. «Ciò che ci intenerisce, colpisce e quasi brucia nell’opera di Rublev» dice Pavel Florenskij, «non è affatto il soggetto né il numero tre né la coppa sul tavolo né le ali, ma il velo improvvisamente sollevatosi davanti a noi sul mondo noumenico; e per noi, nell’ordine estetico, è importante non con quali mezzi il pittore d’icone ha raggiunto questa manifestazione del noumenico, (…), bensì il fatto che egli veramente ha trasmesso a noi la visione apparsagli»21.

Questa rivelazione che avvenne sulla soglia della storia umana (l’incontro sotto le Querce di Mamre) contiene anche la promessa dell’incontro aldilà della storia, nella realtà del Regno, delle «cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrato nel cuore di uomo» (1 Cor 2, 9). Qui non c’è Abramo, ma è accessibile «il seno di Abramo» (Lc 16, 22), il paradiso che ha toccato la terra, la comunione contemplativa annunciata e effettuata dall’icona. E questa comunione diventa un atto non di un mistico solitario, ma della Chiesa nel suo insieme.

Il compimento della icona

Prima di diventare un’icona, la visita della Trinità fu un avvenimento. Ciò che è avvenuto una volta in tempi lontani si ferma e si forma come una finestra aperta sul mondo noumenico, come un’«immagine mobile dell’eternità»22. In essa Dio si rivela agli uomini, si trasforma nella conoscenza e nella memoria del cuore. Ma anche se dipinta sul legno, la conoscenza rivelata non può essere immobile, fissata per sempre. Essa si presenta come sorgente permanente del messaggio di Dio. Nel caso della Trinità il messaggio è la benedizione data una volta ad Abramo. L’icona attualizza: questo incontro avviene in noi stessi, la benevolenza donata ad Abramo scende su di noi, il Signore – incomprensibile ed invisibile –, entra sotto la nostra tenda. Così l’icona si rinnova sempre nell’esperienza dei santi.

«Il compimento dell’icona è la Rivelazione stessa che continua, quando Dio ha la bontà di scendere su di noi, si lascia riconoscere nell’Eucarestia, nella tradizione della Chiesa, nella nostra vita stessa. In quel senso l’iconografo è il servitore della Buona e lieta Notizia. Perciò», scrive P. Gabriele Bunge, «l’icona della Trinità ha sempre da dirci qualche cosa di nuovo»23.

La Trinità ci parla affinché noi, pur rimanendo dentro lo spazio del messaggio- incontro, possiamo custodire la facoltà della comunione ed essere partecipi dell’esperienza dalla quale questa icona è nata. La comunione rimarrà un avvenimento che trasforma il nostro rifugio – sia esso la casa, la comunità, la Chiesa oppure l’anima – nello spazio della visita della Trinità. Andrej Rublev non ha avuto l’intenzione di raffigurare Dio – che nessuno ha mai visto. Egli ha soltanto rappresentato nelle immagini la grazia di Dio che portava nel proprio cuore, la Buona Notizia dell’Incarnazione. Ha svelato il Volto di Dio in una misura accessibile alla facoltà visiva e spirituale dell’uomo.

Nell’icona vediamo la mitezza delle linee, la dolcezza dei colori e la profondità che prevale sulla luminosità. Sembra che questa luminosità nasconda una luce inaccessibile al nostro occhio. La luce diventa carne – figura, vestito, volto – per perdere il proprio mistero. La Trinità è la visione della luce di Dio come comunione. Essa esprime l’avvenimento che non si lascia cogliere con le parole: quello della comunione che unisce le Tre ipostasi l’una all’altra nell’unica essenza e nella stessa partecipazione dell’uomo a questo mistero – come individuo, come Chiesa e come umanità.

Davanti all’icona noi, in forza dell’arte della contemplazione che acquistiamo, ci avviciniamo alla «profondità della ricchezza della sapienza e della scienza di Dio» (Rm 11, 33) che si trova nella fede trinitaria. Diveniamo – anche per un attimo con il sacramento della vista – coloro che fanno ospitalità, seduti davanti alla propria tenda, mentre la Santissima Trinità passa accanto a noi24.

Vladimir Zelinskij

  • 1 Karsavin Lev P. (1882 -1952), filosofo religioso e storico medievale.
  • 2 Cfr. E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona russa, Milano 1977.
  • 3 P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano 1977, p. 64.
  • 4 P. Florenskij, op. cit., p. 64.
  • 5 «Tuttavia, l’ambiente più adatto per Dio è la mente pura. Per questo Lui [Dio] ha deciso di costruire una chiesa a forma di…», San Massimo il Confessore, Questioni e dubbi, questione XXXI, ed. Маrtis, Мosca 1994 (ed. russa).
  • 6 G. Bunge, Lo spirito consolatore. Il significato dell’iconografia della santa Trinità dalle catacombe a Rublev, Casa di Mariona 1994, p. 9.
  • 7 Idem, p. 10.
  • 8 Da La trasmissione del santo battesimo, secondo il rito bizantino.
  • 9 P. Florenskij, La laura della Trinità e di san Sergio e la Russia, in Russia Cristiana, II, 1977, 4 (154), pp. 3-19.
  • 10 Platone, Timeo, 37d.
  • 11 G. Bunge, op. cit., p. 90.
  • 12 Dal canone bizantino dedicato alla SS. Trinità.
  • 13 Karsavin Lev P. (1882 -1952), filosofo religioso e storico medievale.
  • 14 Cfr. E. Trubeckoj, Contemplazione nel colore. Tre studi sull’icona russa, Milano 1977.
  • 15 P. Florenskij, Le porte regali. Saggio sull’icona, Milano 1977, p. 64.
  • 16 P. Florenskij, op. cit., p. 64.
  • 17 «Tuttavia, l’ambiente più adatto per Dio è la mente pura. Per questo Lui [Dio] ha deciso di costruire una chiesa a forma di…», San Massimo il Confessore, Questioni e dubbi, questione XXXI, ed. Маrtis, Мosca 1994 (ed. russa).
  • 18 G. Bunge, Lo spirito consolatore. Il significato dell’iconografia della santa Trinità dalle catacombe a Rublev, Casa di Mariona 1994, p. 9.
  • 19 Idem, p. 10.
  • 20 Da La trasmissione del santo battesimo, secondo il rito bizantino.
  • 21 P. Florenskij, La laura della Trinità e di san Sergio e la Russia, in Russia Cristiana, II, 1977, 4 (154), pp. 3-19.
  • 22 Platone, Timeo, 37d.
  • 23 G. Bunge, op. cit., p. 90.
  • 24 Dal canone bizantino dedicato alla SS. Trinità.