Ebbene sì: questa domenica saremmo veramente tentati di non scrivere alcunché, data la difficoltà del contenuto dell’estratto evangelico odierno.
E siccome la comprensione risulta quanto mai difficoltosa (a meno che il tutto venga ridotto alla consueta e semplicistica predica), l’unica cosa da fare sarebbe quella di abbandonarsi, remissivi, all’indicazione del Maestro: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14, 1).
Tuttavia la natura umana è restia a rimanere passiva, soprattutto dinanzi al mistero, poiché è sempre ostinata, con cocciuta caparbietà , alla ricerca di ogni spiegazione.
Ecco, allora, che dando sfogo al nostro umano impeto, non rinunciamo al tentativo di scavare nel testo del Vangelo.
Proviamo, però, a farlo «giocando». Infatti, non è forse vero che quando si è al cospetto di un qualche cosa di greve, affinché lo si possa assimilare, si cerca di smussarne la complessità , modulandola in forma ludica? – stando sempre bene attenti a non sminuire o banalizzare. Il «gioco», invero, non è sinonimo di futilità , poiché «giocare» è atto creativo; è atto divino (cf. Prv 8, 30-31)
Orbene, soffermiamoci, allora, sul versetto di Gv 14, 2: «Nella casa del Padre mio vi sono molte dimore. Se no, vi avrei mai detto: “Vado a prepararvi un posto“?»
In questa riga ci sono tre termini che spesso sono usati come sinonimi, e che potrebbero benissimo assimilarsi ad una matrioska: CASA; DIMORE; POSTO.
Cosa rappresentano?
Leggendo superficialmente il Vangelo secondo Giovanni, così come, nello specifico, la pericope odierna, solo la persona del Padre e del Figlio è ben evidente, mentre risulta apparentemente assente la presenza dello Spirito Santo.
Invece il Quarto Vangelo è fortemente pervaso dal Paraclito (cf. Gv 14, 16.26; cf. Gv 19, 30), e i tre sostantivi di cui sopra possono perfettamente rappresentare un chiaro rimando alla Trinità .
Ebbene, data questa premessa; avendo ammesso che «casa-dimore-posto» possono restituire un richiamo alla Trinità : chi è cosa?
Circa tale questione, facciamoci guidare dal greco.
Il nome «casa» è oikÃa, il cui senso va oltre quello di un edificio di quattro mura, poiché esprime in sé il concetto di «famiglia/casato/discendenza».
Come non ritrovare in oikÃa la persona del Figlio.
Il nome «dimore» è monaÃ. – è interessante il fatto che dei tre termini sia l’unico al plurale
Esso viene dal singolare moné, il quale intende propriamente «aspettativa/ritardo/riposo».
In tali accezioni è possibile scovare l’operare di Dio, ovvero i suoi attributi, il suo agire: Egli, infatti, è l’Aspettativa (cf. Lc 15, 20: «Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò»); è il Ritardo (cf. Sal 102, 8: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore»); è il Riposo (cf. Sal 62, 2: «Solo in Dio riposa l’anima mia»).
Come non ritrovare in monaà le dinamiche dello Spirito Santo.
Il nome «posto» è tópon, (accusativo di tópos).
Esso è rilevante tanto per il greco, quanto anche per l’ebraico.
In greco, infatti, questo sostantivo, che precisamente vale «luogo», può significare anche «tempio». Tuttavia è l’ebraico che ci offre una connotazione più profonda, in quanto Hammakom, ovvero «il Luogo», è uno dei nomi di Adonai, ed era termine che faceva riferimento proprio e direttamente al Tempio, luogo della Shekhinah di YHWH. – Shekhinah (ovvero «Presenza di Adonai») viene dal verbo shakà n che significa «abitare/attendare»
Come non ritrovare in tópon la roccia (cf. Sal 18, 2.32.47) del Padre.
Da ciò dato atto è considerevole osservare, nel Vangelo odierno, il versetto 10: «Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me stesso; ma il Padre, che rimane in me, compie le sue opere».
Nella circonlocuzione «patér («il Padre») en emoì («in me») ménon («rimane»)» c’è propriamente quanto abbiamo appena esplicato, ovvero è espressa profondamente la Trinità .
Infatti, la persona del Padre e del Figlio è chiara ed evidente; lo Spirito Santo, invero, è proprio in dissolvenza in quel «rimane», in quanto in greco il termine usato è ménon, ovvero il verbo che esprime esattamente il sostantivo moné/ monaà («dimora/dimore»).
Ma possiamo ancora andare avanti con la nostra analisi (ovvero «gioco»).
È assai curioso come nel termine monaà («dimore»), che abbiamo già notato essere adoperato non a caso al plurale, si ritrovi espresso (cf. il sostantivo greco monÃa) l’aggettivo mónos, che significa precisamente «un solo».
Ecco, allora, che l’utilizzo di questa parola monaà («dimore»), proprio al plurale, e proprio sita al centro della triade di vocaboli pronunziata da Gesù, sembra fungere esattamente da chiave, in quanto in essa è espressa poderosamente tanto la polifonia della Trinità , quanto l’Uno di Dio.
E per giungere alla conclusione della nostra riflessione, invitando il lettore stesso a proporre e a proporsi ulteriori giochi-meditazioni, è di notevole considerazione come lessicalmente monaà («dimore») sia legato, come detto, a mónos («un solo»); e mónos sia connesso all’aggettivo manós («non compatto»), da cui l’italiano «mano».
Quante volte per spiegare Dio Uno e Trino ci si ispira alla mano, che è esattamente un’unità plurale?
Interessante, in tal merito, notare come Tommaso, uno dei protagonisti del Vangelo odierno, abbia una particolare connessione stretta con «mano» (cf. Gv 20, 24-29; cf. TENDI LA TUA MANO E METTILA NEL MIO FIANCO); e su questa scia è considerevole, pure, rilevare come anche Filippo, l’altro discepolo che interviene quest’oggi, dica esattamente: «Signore, mostraci (deÄ©xon) il Padre e ci basta» (Gv 14, 8). Il verbo deÃknumi (da cui deÄ©xon), invero, è la radice del termine digitus («dito»).
Per gentile concessione di Fabio Quadrini che cura, insieme a sua moglie, anche la rubrica ALLA SCOPERTA DELLA SINDONE: https://unaminoranzacreativa.