don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 22 Ottobre 2023

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Responsabilità e servizio

XXIX DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO (ANNO A)

Dal libro del profeta Isaìa Is 45,1.4-6

Ho preso Ciro per la destra per abbattere davanti a lui le nazioni.

Dice il Signore del suo eletto, di Ciro:

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«Io l’ho preso per la destra,

per abbattere davanti a lui le nazioni,

per sciogliere le cinture ai fianchi dei re,

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per aprire davanti a lui i battenti delle porte

e nessun portone rimarrà chiuso.

Per amore di Giacobbe, mio servo,

e d’Israele, mio eletto,

io ti ho chiamato per nome,

ti ho dato un titolo, sebbene tu non mi conosca.

Io sono il Signore e non c’è alcun altro,

fuori di me non c’è dio;

ti renderò pronto all’azione, anche se tu non mi conosci,

perché sappiano dall’oriente e dall’occidente

che non c’è nulla fuori di me.

Io sono il Signore, non ce n’è altri».

Ciro, profezia di un Messia che viene da lontano

Le parole del profeta sono un invito a guardare gli eventi e la storia del mondo con occhi nuovi: gli uomini e i popoli si agitano, sono mossi da interessi e passioni, hanno slanci di generosità e ripiegamenti egoistici, ma il Signore li conduce e tutto fa entrare nel suo disegno di salvezza. Il profeta rivela ciò che il Signore sta per compiere in favore del suo popolo: il re dei persiani Ciro, dopo una serie di spedizioni vittoriose in cui conquista e sottomette, l’uno dopo l’altro, tutti i regni dell’Asia Minore e dell’oriente, si dirige infine contro Babilonia dove non incontra resistenza ed entra trionfalmente. Dominatore incontrastato del mondo, emana un editto nel quale si presenta come il salvatore degli oppressi, il difensore dei deboli, l’uomo pio di cui Dio si serve per realizzare i suoi piani. Ordina che siano liberati tutti i deportati: se lo desiderano, possono tornare nella terra dei loro padri, praticare la loro religione, anzi, egli stesso vuole contribuire alla ricostruzione dei luoghi di culto distrutti dai soldati di Babilonia (Esd 1,1-4).

il Signore – per bocca di questo profeta – presenta Ciro come il suo eletto (v. 1). Poi, come avviene negli oracoli di intronizzazione di un re (Sal 2; 110), Dio si rivolge direttamente al nuovo sovrano (vv. 4-5). Un titolo straordinario è stato dato da Dio a Ciro: eletto – dice la nostra traduzione (v. 1) – unto, messia, cristo – è invece il termine usato nel testo originale. Il Signore gliene ha attribuito altri: “Mio pastore, colui che porterà a compimento ogni mio disegno” (Is 44,28); “ricostruttore della mia città, liberatore dei miei deportati”, colui che “ho stimolato per la giustizia” e di fronte al quale “spianerò tutte le vie” (Is 45,13). Sono espressioni che fanno quasi supporre che Ciro sia considerato dal profeta come l’atteso salvatore, il messia, il re che “dominerà da mare a mare e dal fiume fino ai confini della terra” (Sal 72,8). Ciro fu lo strumento del Signore per liberare il popolo dalla schiavitù di Babilonia e – questa è la sorpresa – portò a compimento quest’opera di salvezza senza esserne cosciente.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 1Ts 1,1-5

Mèmori della vostra fede, della carità e della speranza.

Paolo e Silvano e Timòteo alla Chiesa dei Tessalonicési che è in Dio Padre e nel Signore Gesù Cristo: a voi, grazia e pace.

Rendiamo sempre grazie a Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere e tenendo continuamente presenti l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza nel Signore nostro Gesù Cristo, davanti a Dio e Padre nostro.

Sappiamo bene, fratelli amati da Dio, che siete stati scelti da lui. Il nostro Vangelo, infatti, non si diffuse fra voi soltanto per mezzo della parola, ma anche con la potenza dello Spirito Santo e con profonda convinzione.

La gioia nel riconoscere l’azione dello Spirito per la diffusione del Vangelo

Paolo giunse a Tessalonica nel 50 d.C. e, com’era sua consuetudine, annunciò Cristo anzitutto ai giudei che, in giorno di sabato, si riunivano nella sinagoga. I risultati furono piuttosto deludenti, pochi credettero alla sua predicazione. Ebbe un successo maggiore quando predicò ai pagani che aderirono alla fede in numero considerevole, fra di loro anche non poche donne della nobiltà (At 17,1-9). Dopo poche settimane, un subbuglio provocato dai giudei lo costrinse ad abbandonare precipitosamente la città, prima di essere riuscito a spiegare ai discepoli i temi centrali della fede; da qui la convinzione di aver lasciato dietro di sé una comunità piuttosto fragile.

Un giorno ecco giungere da Tessalonica i compagni di fatiche apostoliche Sila e Timoteo, latori di notizie tanto sorprendenti, quanto inattese: la comunità dei tessalonicesi si era sviluppata, era cresciuta rigogliosa ed era divenuta un modello di fede e di pratica della carità fraterna; affrontava con coraggio la persecuzione, le vessazioni, le molestie dei non credenti e godeva della stima dei pagani per la vita integra che i battezzati conducevano; tutti conservavano un nostalgico ricordo di Paolo, gli erano immensamente grati, perché da lui erano stati introdotti alla fede e consegnati a Cristo, attendevano con ansia una sua visita…

+ Dal Vangelo secondo Mt 22,15-21

Rendete a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio.

In quel tempo, 15 i farisei se ne andarono e tennero consiglio per vedere come coglierlo in fallo nei suoi discorsi. 16Mandarono dunque da lui i propri discepoli, con gli erodiani, a dirgli: “Maestro, sappiamo che sei veritiero e insegni la via di Dio secondo verità. Tu non hai soggezione di alcuno, perché non guardi in faccia a nessuno. 17Dunque, di’ a noi il tuo parere: è lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?”. 18Ma Gesù, conoscendo la loro malizia, rispose: “Ipocriti, perché volete mettermi alla prova? 19Mostratemi la moneta del tributo”. Ed essi gli presentarono un denaro. 20Egli domandò loro: “Questa immagine e l’iscrizione, di chi sono?”. 21Gli risposero: “Di Cesare”. Allora disse loro: “Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

LECTIO

Contesto

Dopo le tre parabole indirizzate in particolare ai capi dei sacerdoti e ai responsabili del popolo, la discussione cambia stile assumendo quella della disputa. Per ciascuna delle quattro diatribe con Gesù si alternano altrettanti gruppi di avversari. Nella prima gli interlocutori sono i farisei ed erodiani che cercano di portare Gesù sul terreno scivoloso della liceità del tributo a Cesare (22,15-22), nella seconda sono i sadducei a metterlo alla prova sulla questione della risurrezione dei morti (vv. 23-33), quindi tocca ad un rappresentante dei dottori della Legge ad interrogare il Maestro circa la gerarchia dei comandamenti (vv. 34-40), per finire s’invertono i ruoli sicché l’interrogato interroga i farisei riguardo al rapporto tra il Messia e Davide (vv.41-46).

Struttura

Introduzione (pre-consiglio per metter alla prova Gesù)– vv. 15-16a

Domanda per mettere alla prova Gesù 16b-17

Domanda e Richiesta di Gesù v.18-19a

Risposta degli interroganti v. 19b

Replica di Gesù v. 20

Conclusione (Preparativi per la passione di Gesù), v.21.

L’episodio è introdotto dall’annotazione dell’evangelista circa la reazione dei farisei all’insegnamento di Gesù, fatto in parabole, in seguito al quale si erano sentiti offesi. Dunque, si organizzano per metterlo alla prova e raccogliere elementi sufficienti al fine di accusarlo. Il piano inizia a realizzarsi inviando alcuni farisei insieme ai rappresentanti della fazione degli erodiani. Si tratta di un’alleanza strategica messa su col solo fine di abbattere Gesù, perché i due gruppi erano su posizioni molto lontane, soprattutto per quello che riguardava il rapporto con l’autorità politica. Infatti, i farisei, essendo più pii e religiosi mal sopportavano le ingerenze romane soprattutto negli affari legati al culto. Gli erodiani, invece, erano simpatizzanti e collaborazionisti dell’autorità costituita. I farisei mettono alla prova Gesù insieme con gli erodiani perché vorrebbero allargare il fronte avversario a quello che la folla riconosceva come un rabbì. Gli inviati sono latori di un messaggio da parte dei mittenti dei quali è nota l’intenzione. L’approccio degli inviati contrasta in maniera plateale con la missione loro affidata. Essi si presentano come dei convinti ammiratori di Gesù chiamato col titolo di «Maestro». Lo riconoscono come un autorevole interprete della volontà di Dio che non si piega alla logica del compromesso. Questo elogio suona come una benedizione. Il problema è che essa è solamente formale col solo intento di carpire la buona fede di Gesù e indurlo ad uno sbilanciamento grazie al quale l’avrebbero fatto cadere o sul versante dell’accusa di collaborazionismo o su quello della ribellione. In un modo o nell’altro, ovvero, o del popolo o del re, essi erano convinti di poter dimostrare che Gesù fosse un traditore.

Chiamandolo «maestro» i suoi avversari collocano Gesù in quella categoria di persone che oggi potremmo definire «influenzer» o «opinionisti» che rendono noto il loro parere su ogni tipo di questione, pur non avendo competenze. Per i farisei più intransigenti la religione, fondata sulla legge mosaica, doveva estendere la sua autorità su ogni ambito della vita. Un vero Israelita non poteva non seguire che la sola Legge promulgata da Mosè. Dunque, ogni altra legge, era da rigettare perché non poteva coesistere con quella propria d’Israele. I farisei avevano la consapevolezza di essere parte di un popolo diverso e separato dagli altri popoli proprio per il fatto che Israele ha la Legge e gli altri no. Immischiare due ordinamenti giuridici o tollerare la loro coesistenza significava tradire la propria vocazione alla purezza rituale e cultuale. Al Maestro non pongono tanto la domanda se le tradizioni dei padri, che essi esaltano e assolutizzano, sia veramente conforme alla volontà di Dio, quanto piuttosto chiedono di schierarsi a favore o contro la loro idea di giustizia. La questione è posta nell’ambito della liceità, ovvero se la norma “civile” di pagare il tributo a Cesare è conforme o no alla “legge costituzionale” mosaica.

L’intenzione malevola dei suoi interlocutori, che vestono i panni di discepoli in cerca della sapienza, non sfugge all’intelligenza di Gesù che smaschera l’ipocrisia degli avversari e ne chiede conto. Essi, che in realtà cercano solo un pretesto per accusare Gesù, sono da lui rinviati alla loro stessa coscienza. La stessa, che mostrano in crisi davanti al dilemma se sia giusto pagare il tributo a Cesare o no, dovrebbe suggerire loro se il quesito che gli hanno sottoposto è lecito o no.

La risposta di Gesù non entra in merito alla questione della liceità del tributo perché egli, al contrario di loro, non sia fa giudice di nessuno. Chiede che dalla teoria si passi al pratico e che gli si venga mostrata la moneta del tributo. Egli non ce l’ha con sé ma in compenso ce l’hanno i suoi avversari, sicuramente gli erodiani che gliela presentano. Gesù sa bene di chi è l’immagine e l’iscrizione corrispondente sulla moneta che gli presentano, ma vuole che venga riconosciuta da chi lo interroga. La moneta nascosta e poi ostentata è di Cesare. La strategia di Gesù è far venire alla luce l’ingiustizia dei suoi avversari che replicano quella dell’oppressore straniero. Essi mostrano qualcosa che non appartiene a loro, per questo la devono restituire al legittimo proprietario. Similmente essi vorrebbero tenere in pugno Gesù, ma non si può trattenere per sé o usare secondo i propri interessi qualcosa o qualcuno che appartiene a Dio, persino la propria vita.

Nella domanda a trabocchetto si cela la mal sopportazione del tributo perché considerato un orgoglioso capriccio del governante, oppure una prassi di comodo e compromesso per avere salva la vita.

Se, dunque, per utilità o interesse si paga il tributo a Cesare, molto di più si deve restituire a Dio, senza trattenere indebitamente per sé, Colui che è l’immagine visibile del Dio invisibile. Restituire a Dio ciò che gli spetta significa riconoscerne l’autorità e la sua dignità di re dell’universo. Restituire è il verbo della responsabilità. Gratuitamente si è ricevuto da Dio e gratuitamente si offre a Lui. Diversa, invece, la logica mondana per la quale la pace che viene “imposta” deve essere «pagata» mediante il censo.

Non c’è opposizione tra Dio e Cesare ma c’è un irriducibile contrasto tra l’atteggiamento rappresentato da Cesare e quello riconducibile a Dio. Non può coesistere culto ed empietà nell’atteggiamento degli uomini, ma nel progetto di Dio egli può avvalersi dei re stranieri per attuare il suo disegno di salvezza a avantaggio di tutti. Se dunque è lecito pagare il tributo a Cesare in base ai servizi che Egli ha reso, è ancora più giusto rispondere alla chiamata di Dio e mettersi al suo servizio.

Tutta la scena verte sul tentativo di far uscire allo scoperto la vera immagine dell’altro. Con la loro richiesta, i farisei e gli erodiani vorrebbero portare in luce il fatto che Gesù è un traditore. Con la sua risposta Gesù dapprima dimostra che i suoi interlocutori sono servi di Cesare e che a lui devono obbedire, giacché gli mostrano la moneta del censo con impressa l’immagine e il nome dell’imperatore, poi mostra la sua vera immagine di sapiente perché servo di Dio del quale porta impressa l’immagine e il nome. Egli non è un traditore ma è il servo di Dio che per obbedienza alla volontà di Dio e per il bene di tutti gli uomini pagherà il prezzo del riscatto dal peccato con la sua vita. A Cesare si dà il prezzo della “pace” di poco valore che egli impone sui popoli, mentre a Dio si offre la propria vita come segno di amore riconoscente e oblativo.

MEDITATIO

Ciò che l’avidità egoistica monetizza l’amore responsabile valorizza

La parabola dei contadini omicidi rivela l’ingiustizia perpetrata soprattutto dalle autorità religiose che, dimenticando di aver ricevuto da Dio il dono e la responsabilità di prendersi cura del popolo, non corrispondono alle Sue aspettative e non rispondono ai bisogni della gente, soprattutto dei poveri. Quando in una relazione si tralascia la memoria che alimenta la gratitudine si perde la virtù della riconoscenza e prende piede l’avidità. Sicché le persone non sono riconosciute nel loro valore intrinseco ma il rapporto con esse viene monetizzato. Il tradimento è il risultato della monetizzazione delle relazioni, per cui l’innamoramento non matura in amore, la ricerca del piacere non sfocia nel senso del dover esser per l’altro, l’obbedienza non diventa responsabilità.

L’imperatore romano aveva imposto un tributo monetario per affermare la sua autorità e il suo diritto di proprietà. Pagare il tributo significava riconoscere tale diritto e accettare di appartenere al regnante. Alla domanda tendenziosa che viene rivolta a Gesù soggiace l’idea che il regno dei Cieli sia altro rispetto a quelli terreni e che la logica sulla quale si regge il primo sia diversa da quella su cui poggiano i secondi. In definitiva, si vorrebbe affermare la tesi per la quale fede e vita camminano su binari paralleli se non addirittura in direzione opposta l’una all’altra. Separare la relazione con Dio da quella con l’autorità umana porta ad un conflitto nel quale viene chiesto di parteggiare per l’uno o per l’altro, come se aderire alla fede sia in contrasto con il proprio credo politico. Oggi come allora spesso si assiste a battaglie ideologiche, dietro cui si nascondono logiche d’interesse individuale, in cui la laicità è sinonimo contrario di religiosità. Si conducono battaglie in nome della laicità, come se il suo valore fosse minacciato dalla religiosità e si organizzano nuove crociate in nome della difesa della religiosità. Così facendo si mortifica la dignità dell’uomo e si tradisce la volontà di Dio.

La risposta che Gesù dà a coloro che vorrebbero farlo cadere nella trappola della partigianeria parte dall’oggetto materiale del contendere. La moneta ha un suo valore economico dato dal materiale di cui è fatta, ma ha anche un valore immateriale che dipende dall’uso che se ne fa. La moneta del tributo era coniata con l’immagine e il nome dell’imperatore in carica per far conoscere a tutti chi era il Cesare di turno a cui obbedire.

Rendere a Cesare ciò che è suo non significa confondere l’autorità politica con Dio e avallare ogni sua azione considerandola buona a prescindere, ma vuol dire riconoscerne l’autorità e ciò che rappresenta. La prima lettura, tratta dal profeta Isaia, invita a riconoscere nel re Ciro, benché non fosse israelita, un inviato di Dio per il bene del popolo. Il fatto che è straniero non giustifica la diffidenza, l’ostilità e la reticenza che sono generate dal pregiudizio. Abbiamo paura dell’ombra dell’autorità per il fatto che è vista come una realtà a noi estranea che ci sovrasta. La paura che l’altro invada il campo della nostra vita rubandoci il pieno controllo e il possesso ci fa alzare muri di protezione che limitano molto la capacità di comunicare il bello che c’è in noi. Questa paura deve cedere il posto alla fiducia che cresce nella docilità all’azione dello Spirito Santo che imprime in noi l’immagine di Dio. S. Paolo rivolgendosi ai cristiani di Tessalonica loda «l’operosità della vostra fede, la fatica della vostra carità e la fermezza della vostra speranza» nella quale si rende visibile la loro obbedienza all’azione dello Spirito di Dio.

Gesù ci invita ad appartenere al Regno dei Cieli e a considerare Dio non come un’autorità superiore che impone la sua volontà, ma come il fondamento della nostra vita, la pietra angolare sulla quale costruire la nostra esistenza. Accettare il suo invito e obbedire significa fare un cammino di ritorno alla nostra origine, affondare le radici della nostra volontà per intercettare la fonte della vita.

Misconoscere e rifiutare l’autorità comporta il dramma di tagliare le radici che garantiscono alimentazione e stabilità, significa defilarsi dalla propria responsabilità e allentare i legami di appartenenza fino ad annullarli. La crisi che viviamo nelle famiglie, nelle comunità, nella chiesa stessa, è crisi di appartenenza che affonda le sue radici nella difficoltà a riconoscere l’autorità e nel vivere l’obbedienza responsabile. Pagare il tributo a Cesare è un atto di restituzione con il quale non si rinuncia alla propria libertà, ma la si fa dono per appartenere alla comunità degli uomini e per renderla sempre migliore.

Ogni uomo è la moneta di Dio sulla quale è impressa la Sua immagine ed è scritto il Suo nome. Rendere a Dio ciò che è suo significa fare della propria vita un dono a Lui. La relazione con Dio non deve essere ridotta a un “dovere” da compiere, una tassa da pagare per stare tranquilli come se fosse il “pizzo mafioso”, ma necessita di maturare nella logica del dono e della corresponsabilità. Il grado di maturità e d’intimità in una relazione è dato dal modo con il quale rendiamo il servizio, cioè restituiamo ai fratelli l’amore che Dio ci dona.

In una società “liquida”, cioè che cambia forma in maniera repentina senza darci il tempo di adattarci, i legami di appartenenza sono addirittura allo “stato gassoso”. Sentiamo l’urgenza di soddisfare il bisogno di sicurezza e di salvezza, ma esso sarà possibile solamente se, a partire dagli adulti, matura la responsabilità di non trattenere per sé il bene che si è ricevuto ma di restituirlo trasmettendolo agli altri nelle relazioni quotidiane. C’è infatti un legame strettissimo tra vita di fede e vita sociale. Nella misura in cui la relazione con Dio è resa viva crescendo gradualmente nella logica del dono da accogliere e restituire, matura anche la responsabilità civile nei confronti del bene comune. La famiglia, la comunità, la Chiesa non appariranno come strutture che ci ingabbiano, ma le sentiremo come casa nostra la cui solidità e bellezza dipendono dal servizio che offriamo e dal bene che diffondiamo.

Obbedire non significa cedere ad un altro lo spazio della propria libertà ma condividerlo con lui, così la restituzione non vuol dire rinunciare a ciò che ci appartiene ma comparteciparlo.

La fede non sia ipocrita

Nell’ultima settimana della vita di Gesù sono concentrati alcuni incontri, tra cui quello con una delegazione composta da farisei ed erodiani. Sono due categorie di persone molto differenti tra loro; i primi stretti osservanti della legge che mal digeriscono l’ingerenza dell’imperatore romano nelle questioni religiose, i secondi invece sono filogovernativi. Essi pongono la questione sulla liceità del tributo da pagare all’imperatore. Gesù è chiamato in causa, a dispetto di quello che affermano all’inizio, non perché lo rispettino e ne ammirino la sapienza, ma per avere un motivo per accusarlo.

In altri termini, essi sono veramente ipocriti perché nascondono il loro reale volto e le loro intenzioni dietro la maschera di coloro che vorrebbero essere illuminati da una parola autorevole che indichi loro la cosa giusta da fare. In realtà essi vogliono che Gesù, sbilanciandosi da una parte o dall’altra, si schieri. Anche noi siamo esposti alla tentazione tante volte quando siamo contattati o siamo depositari di confidenze e indotti a prendere una posizione a favore o contro qualcuno. Gesù, anche se è chiamato in causa come una sorta di giudice, non sta al gioco e, rifiutandosi di giudicare sulla liceità del tributo, eleva il discorso da un piano politico e sociale a quello teologico e antropologico.

Proprio perché Gesù insegna la via di Dio secondo verità, egli non si ferma all’apparenza o alle questioni secondarie, come sono quelle legate alla logica della spartizione del potere, ma punta dritto alla verità e va al cuore delle cose. Il suo ragionamento non è elaborato in astratto o per partito preso, ma parte dal contatto con la realtà. Per questo vuole vedere la moneta del tributo. C’è un’evidenza riconosciuta da tutti; l’immagine e l’iscrizione appartengono all’imperatore. Così ogni uomo, secondo il racconto della Genesi, è l’immagine di Dio e porta il suo nome. Il denaro è di Cesare mentre l’uomo appartiene a Dio. Spesso questa verità la nascondiamo a noi stessi anteponendo all’appartenenza a Dio Padre la dipendenza altre cose. La vera fede non contrappone le persone in nome di una ideologia o di una specifica appartenenza partitica, ma riconosce al di là delle differenze, il comune legame filiale a Dio che ci fa fratelli. La fede non orienta le scelte partitiche ma quelle esistenziali che determinano il fine per cui vivere.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna