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don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 19 Novembre 2023

Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 25, 14-30

Il servizio per amore è nella vita l’investimento più redditizio

Dal libro dei Proverbi Pr 31,10-13.19-20.30-31

La donna perfetta lavora volentieri con le sue mani.

Una donna forte chi potrà trovarla?

Ben superiore alle perle è il suo valore.

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In lei confida il cuore del marito

e non verrà a mancargli il profitto.

Gli dà felicità e non dispiacere

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per tutti i giorni della sua vita.

Si procura lana e lino

e li lavora volentieri con le mani.

Stende la sua mano alla conocchia

e le sue dita tengono il fuso.

Apre le sue palme al misero,

stende la mano al povero.

Illusorio è il fascino e fugace la bellezza,

ma la donna che teme Dio è da lodare.

Siatele riconoscenti per il frutto delle sue mani

e le sue opere la lodino alle porte della città.

Elogio della donna sapiente e fedele

La pagina conclusiva del Libro dei Proverbi è un elogio della Sapienza che s’incarna nella donna, sposa e madre virtuosa. Ella ama suo marito in maniera operosa e vive la fedeltà al suo sposo spendendosi per la sua famiglia. Ella non si risparmia nel lavoro manuale e non disdegna la fatica. È capace nelle relazioni con gli altri e indirizza le sue potenzialità per il bene della famiglia. L’arte della tessitura rivela la sua indole materna e la capacità di narrare con la vita la fede che anima la sua speranza e rende creativo e compassionevole il suo amore per gli altri, senza escludere nessuno.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Tessalonicési 1Ts 5,1-6

Non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro.

Riguardo ai tempi e ai momenti, fratelli, non avete bisogno che ve ne scriva; infatti sapete bene che il giorno del Signore verrà come un ladro di notte. E quando la gente dirà: «C’è pace e sicurezza!», allora d’improvviso la rovina li colpirà, come le doglie una donna incinta; e non potranno sfuggire.

Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, cosicché quel giorno possa sorprendervi come un ladro. Infatti siete tutti figli della luce e figli del giorno; noi non apparteniamo alla notte, né alle tenebre.

Non dormiamo dunque come gli altri, ma vigiliamo e siamo sobri.

Pronto intervento

Ignorare i tempi e i modi della venuta del Signore è il segno che non possediamo Dio e che non possiamo controllare tutto. Questa ignoranza non è un limite, ma una opportunità che ci fa vivere il presente in continua tensione verso Colui che si fa prossimo e viene a salvarci. Bisogna diffidare di chi spaccia le sue soluzioni per «pace e sicurezza». Non possiamo dirci “arrivati” ma sempre in pellegrinaggio verso la Casa di Dio. Perciò l’ignorare i tempi e i modi con cui Dio compie la sua volontà non deve portarci alla passività, alla rassegnazione o al ripiegarsi su sé stessi, ma ad un atteggiamento vigile, pronto e operoso. Attenti alla voce di Dio e allenati all’ascolto della sua parola siamo pronti a dire il nostro eccomi.

Dal Vangelo secondo Matteo Mt 25,14-30

Sei stato fedele nel poco, prendi parte alla gioia del tuo padrone.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:

«14Avverrà infatti come a un uomo che, partendo per un viaggio, chiamò i suoi servi e consegnò loro i suoi beni. 15A uno diede cinque talenti, a un altro due, a un altro uno, secondo le capacità di ciascuno; poi partì. Subito 16colui che aveva ricevuto cinque talenti andò a impiegarli, e ne guadagnò altri cinque. 17Così anche quello che ne aveva ricevuti due, ne guadagnò altri due. 18Colui invece che aveva ricevuto un solo talento, andò a fare una buca nel terreno e vi nascose il denaro del suo padrone. 19Dopo molto tempo il padrone di quei servi tornò e volle regolare i conti con loro. 20Si presentò colui che aveva ricevuto cinque talenti e ne portò altri cinque, dicendo: “Signore, mi hai consegnato cinque talenti; ecco, ne ho guadagnati altri cinque”. 21“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 22Si presentò poi colui che aveva ricevuto due talenti e disse: “Signore, mi hai consegnato due talenti; ecco, ne ho guadagnati altri due”. 23“Bene, servo buono e fedele – gli disse il suo padrone -, sei stato fedele nel poco, ti darò potere su molto; prendi parte alla gioia del tuo padrone”. 24Si presentò infine anche colui che aveva ricevuto un solo talento e disse: “Signore, so che sei un uomo duro, che mieti dove non hai seminato e raccogli dove non hai sparso. 25Ho avuto paura e sono andato a nascondere il tuo talento sotto terra: ecco ciò che è tuo”. 26Il padrone gli rispose: “Servo malvagio e pigro, tu sapevi che mieto dove non ho seminato e raccolgo dove non ho sparso; 27avresti dovuto affidare il mio denaro ai banchieri e così, ritornando, avrei ritirato il mio con l’interesse. 28Toglietegli dunque il talento, e datelo a chi ha i dieci talenti. 29Perché a chiunque ha, verrà dato e sarà nell’abbondanza; ma a chi non ha, verrà tolto anche quello che ha. 30E il servo inutile gettatelo fuori nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti”».

LECTIO

Contesto

Per il contesto immediato si veda il commento di domenica scorsa. La parabola dei servi e dei talenti segue quella delle vergini sagge e stolte che si concludeva con l’invito a vegliare, ovvero a discernere ciò che c’è nel cuore, soprattutto nel tempo della prova.

Anche la parabola si conclude con un detto sapienziale che rimanda al giorno finale nel quale si tirano le somme e si fa la verifica della propria vita.

Struttura narrativa

La parabola ha tre tempi che scandiscono anche il ritmo del racconto. Il primo tempo è quello della consegna (vv. 14-15) a cui fa riscontro il terzo in cui avviene la riconsegna (vv. 19-27). Nel tempo intermedio i protagonisti assoluti sono i servi che si comportano in maniera diversa, formando due gruppi. Anche se i servi a cui sono affidati i talenti sono tre, i primi due si differenziano dal terzo.

La figura del padrone appare solo nella prima e nella terza scena nell’atto di consegnare e di ricevere i suoi beni. La partenza conclude la prima parte della parabola e il suo ritorno inaugura la terza. Il tutto si gioca nel tempo intermedio nel quale i protagonisti assoluti sono i servi i quali sono liberi di agire. Due di essi guadagnano il 100% di quanto hanno ricevuto, mentre il terzo compie nasconde il denaro in una buca del terreno.

Spiegazione del testo

Il padrone affida tutti i suoi beni a tre servi. Il loro affidamento non è in egual misura. Essa dipende dalla capacità di ciascuno, che il padrone conosce. Di quale capacità si tratti lo si capisce dalla seconda scena nella quale la differenza la fa il guadagno. Il padrone, consegnando tutti i suoi beni, si fida dei servi conoscendone le loro capacità, che non sono uguali per tutti e tre. La fiducia si manifesta anche nel non accompagnare l’affidamento dei talenti con un comando esplicito, lasciando in tal modo la libertà di interpretare il gesto da lui compiuto nei loro confronti. Il talento non è una moneta ma è una unità di misura che corrisponde a 30-40 kg. Un talento corrisponde all’incirca a seimila denari. Considerando che la paga giornaliera di un operaio era di un denaro si comprende che un talento era una cifra considerevole. Per capacità s’intende la misura dei propri mezzi o possibilità. La misura dei talenti non rivela solo quella delle capacità di ciascuno dei tre servi ma indica anche la quantità di occasioni offerte per attivare le loro possibilità.   

La seconda scena descrive il modo con il quale i tre servi autonomamente gestiscono quello che è stato loro affidato. Il gruppo dei tre servi, che nella prima parte della parabola erano distinti secondo le loro capacità, si divide in due: i primi due servi agiscono nello stesso modo sortendo il medesimo risultato, mentre il terzo, quello che aveva ricevuto di meno di tutti, compie delle azioni dalle quali egli non trae nessun guadagno. L’ottenuto o il mancato Il guadagno, che è l’elemento discriminante tra i servi, dipende dal modo in cui hanno usato i beni ad essi affidati. I primi due servi, ricevendo la misura dei talenti loro affidata, attivano tutte le loro potenzialità, con il risultato di duplicare il loro patrimonio. Al contrario, il terzo servo, sotterrando il denaro, non attiva un processo generativo. Potremmo dire che i primi due «seminano» mentre il terzo «seppellisce». Per i primi due servi la loro opera è assimilabile al lavoro che trasforma in ricchezza ciò che hanno ricevuto. Il terzo servo non compie un lavoro ma gesti che, sebbene richiedano fatica, ma non sortiscono nessun effetto.

La terza scena, la più lunga del racconto, descrive l’incontro con il padrone che chiama i suoi servi per verificare ciò che hanno fatto dei beni loro affidati. A differenza delle prime due scene, nelle quali le uniche parole sono solo quelle del narratore che descrive le azioni dei protagonisti, nella terza egli, ritirandosi, lascio lo spazio al dialogo tra le parti. Uno dopo l’altro entrano in scena tutti i servi, nello stesso ordine con cui erano stati presentati nella prima parte del racconto. Il primo ad essere esaminato è quello che ha ricevuto di più. Egli presenta il frutto del suo lavoro. Il padrone, compiaciuto dell’opera del suo servo lo elogia definendolo «buono e fedele». La fedeltà del servo si è dimostrata nel poco (anche se cinque talenti sono una cifra enorme, pari a 30.000 denari), perciò egli si guadagna una responsabilità ancora più grande. La sentenza finale è l’ottenimento del premio: entrare nella gioia del suo Signore. La condizione finale del servo è molto più grande del guadagno che ha realizzato con la sua opera. Egli ha investito tutte le risorse a disposizione che erano proporzionate alle sue potenzialità. Si è speso tutto guadagnando il 100%. La ricompensa finale è la centuplicazione di tutte le energie che ha profuso. Non si tratta di beni da sfruttare e di cui godere ma di un ingrandimento dell’ambito dell’autorità e del servizio. Il servo buono e fedele partecipa alla gioia del suo signore che nulla a che fare con l’allegria dei «padroni» di questo mondo. La bontà e la fedeltà sono le due virtù che vengono riconosciute al servo. La bontà e la fedeltà indicano le caratteristiche del servizio offerto, sia verso gli altri compagni sia verso il suo signore. L’aggettivo «fedele» definisce il credente, mentre «buono» è l’attributo riferito alla sua umanità. Il servo saggio e fedele è colui che obbedisce sempre al comando del padrone, soprattutto quando è assente ed è chiamato a renderlo presente con la sua opera; al contrario del servo malvagio che approfitta dell’assenza del suo padrone per spadroneggiare (Cf. Mt 24, 45-51). Il servo buono e fedele è colui che coniuga la fede nella bontà di Dio al bene che lui stesso pratica verso i suoi compagni in obbedienza alla volontà del Signore. Nel caso della parabola la bontà e la fedeltà non sono solo espressione di perseveranza nell’obbedienza alla volontà del padrone, ma si manifesta anche nella creatività con la quale si mettono a frutto i beni che riceve e le capacità che possiede.

Nell’incontro con il secondo servo si ripete il dialogo negli stessi termini del precedente. Benché le capacità e la dotazione di questo erano inferiori al primo, il risultato non cambia perché anch’egli ha dato il massimo delle sue capacità e ha investito tutti i beni a sua disposizione ottenendo il 100% del guadagno. Anche se sono due servi diversi per potenzialità e opportunità, hanno agito nello stesso modo, guadagnando la medesima ricompensa. I criteri di giudizio del Signore non sono quantitativi ma qualitativi.

Il terzo servo si presenta davanti al signore nello stesso modo con cui si era allontanato dopo aver ricevuto la sua parte di beni. Dalle sue parole emerge l’idea che si era fatto di lui, despota ingiusto ed enigmatico. Il pregiudizio ha alimentato la paura che ha preso il sopravvento al punto dal bloccarlo nel prendere l’iniziativa. Ha preferito seppellire il suo talento per mantenerlo e avere la certezza di restituirglielo. Non se l’è sentita di rischiare, come invece hanno fatto i primi due servi. La diffidenza origina la paura che blocca, mentre la fiducia sostiene la gioia con la quale attivare processi generativi e di crescita personale. Il pregiudizio è la proiezione del proprio sé, di cui non sia ha stima, sull’altro che viene disprezzato. Le accuse pregiudiziali sono un’autodenuncia. Il servo malvagio e pigro nel criticare l’agire del padrone si accusa. Infatti, nella replica il signore indica quello che il servo avrebbe dovuto fare e non ha fatto. Il mancato guadagno, imputabile esclusivamente dall’indolenza del servo, ha causato una perdita anche al suo padrone. La malvagità sta nell’omissione del servizio attraverso il quale avrebbe ottenuto un guadagno, ma non un vantaggio per sé. I primi due servi agiscono non per interesse personale, di cui per altro non avevano alcuna garanzia, ma semplicemente per amore al padrone al quale offrono il loro guadagno. In tal modo, essi ricevono molto di più di quanto hanno potuto fare e guadagnare. Il terzo servo non ama il suo padrone ma lo giudica e lo critica, giustificando in tal modo le sue omissioni. La sentenza di condanna riflette l’operato del servo malvagio che perde il talento ricevuto perché ha preferito perdere l’occasione di metterlo a frutto piuttosto che rischiare per un guadagno a esclusivo vantaggio del padrone. Al contrario dei primi due servi, che avvertivano forte il senso di appartenenza e di responsabilità, il terzo servo dimostra la sua distanza affettiva dal suo signore inducendolo all’indolenza. La condizione finale del terzo servo riflette il suo chiamarsi fuori da ogni tipo di legame affettivo col padrone. L’affidamento dell’ incarico non ha indotto il servo a interrogarsi sul suo padrone e a mettere in discussione il suo giudizio su di lui.

La massima sapienziale che chiude il racconto trae dalla vicenda una conclusione che suona come un principio universale. Il proverbio contrappone «colui che ha» e «colui che non ha» riproponendo in tal mondo i due gruppi della parabola; da una parte i due servi buoni e fedeli e dall’altra il servo malvagio e pigro. I primi si presentano con il frutto del loro impegno mentre il secondo si limita a restituire quello che aveva ricevuto. Chi investe tutto per Dio, fino al punto di rischiare la vita per lui, riceve il centuplo e la vita eterna; chi invece gioca al risparmio perde tutto, anche quello che aveva perché gli era stato dato.

La sorte del servo inutile è la sua perdizione. Chi perde le occasioni per operare il bene, accampando scuse, tradisce e ferisce Dio, ma quello che è più grave e drammatico è il fatto che si autocondanna all’insignificanza. Il racconto è costruito in modo da raffrontare il gruppo dei servi buoni e fedeli, che indicano la comunità, e il singolo servo malvagio e pigro. La loro condizione finale non è semplicemente l’atto finale di un processo giudiziale che si conclude con il premio e la condanna, ma è la conseguenza delle scelte di vita. L’aggettivo «pigro» si contrappone a «fedele» per indicare che la fede consiste nell’operare il bene mentre la malvagità del servo pigro sta nella sua omissione nel fare il bene. Né gli uni né l’altro, avevano ricevuto disposizioni precise nel momento in cui avevano ricevuto i talenti. La differenza sta nel fine che si sceglie di dare alla propria vita e dalle motivazioni che orientano verso di esso. Il servo inutile è il credente non praticante, quindi “in-fedele” che non ha speranza, ovvero che non tende spiritualmente e affettivamente a Dio perché diffida di lui e teme il suo giudizio, e si rifugia nelle forme di conservatorismo che lo rendono una persona, insoddisfatta, giudicante, triste, rigida e isolata.     

MEDITATIO

Il servizio per amore è nella vita l’investimento più redditizio

Ciascuno di noi sin dalla nascita riceve in consegna un tesoro. Si tratta della vita e con essa coloro che l’hanno generata, quelli che permettono che cresca, la storia, la cultura, le capacità, i carismi etc. Arriva il momento nel quale decidere cosa fare della propria vita, quale compito assumersi per darle un senso. Chi accoglie la vita tutti i giorni come dono di Dio cerca il modo con il quale valorizzarlo e farlo fruttificare, chi invece la vede come un peso che grava sulle sue spalle o un tragico destino toccato in sorte, tende a nascondersi. È il modo con cui ogni giorno approcciamo la vita e ci relazioniamo con il Signore a generare i nostri pensieri ed emozioni, a orientare le nostre scelte e determinare la nostra condotta.

Tutti e tre i destinatari dei talenti sono servi, quindi in una condizione di subalternità ma che ricevono non un comando ma un tesoro, affidato nelle loro mani; la differenza tra loro è data dal modo in cui intendono il servizio e dal valore che attribuiscono a quello che hanno ricevuto. I servi buoni sono quelli che si sentono gratificati dal Signore e in quello che è stato loro affidato riconoscono di essere destinatari della sua fiducia. Essi fanno proprie le attese del padrone. La gratitudine apre gli occhi del cuore a contemplare la bontà di Dio e il suo desiderio di partecipare a noi la sua gioia. Come Dio ripone la fiducia nei suoi figli, soprattutto nei più piccoli, così noi, suoi servi siamo buoni nella misura in cui siamo fedeli non solo alle piccole cose ma ai piccoli. Un esempio di fedeltà è dato dall’immagine della donna descritta nella prima lettura. Non si tratta dell’elogio della bellezza estetica, ma di quella che affascina per la sua saggezza. Ciò che attira l’attenzione e suscita ammirazione non è l’armonia delle forme del corpo femminile, ma la grazia della carità operosa che fluisce dalle sue mani. Sono mani che non trattengono ma che accolgono, lavorano e donano. Le mani della donna sono sempre all’opera, mai in tasca e con le braccia conserte, che invece rifletterebbero la passività di colui che sta fermo in attesa che gli altri prendano l’iniziativa o che lo servano.

Al contrario dei primi due servi, quello malvagio, come ammette lui stesso, ha paura. Si tratta di quella diffidenza radicata nel cuore dell’uomo e legata al suo peccato originale. La paura proietta su Dio e su sé stessi l’ombra del dubbio e della sfiducia. Il servo pigro usa la vergogna, l’indecisione, l’ignoranza come alibi per nascondersi e non rischiare; per cui conduce la sua vita senza un fine ben preciso se non quello di campare alla giornata e limitandosi a fare il minimo indispensabile di quello che gli viene comandato.

I servi buoni sono fedeli perché investono tutto, non una parte di ciò che hanno ricevuto, al contrario del pigro che preferisce non rischiare, trattenere per sé e non utilizzare ciò che gli è stato affidato.

La parabola usa il linguaggio dell’economia per suggerirci che siamo manager di noi stessi e che il capitale che abbiamo a disposizione va gestito in maniera saggia. Il vero problema, sembra dirci Gesù, è la gestione della nostra vita il cui successo non dipende dall’andamento dei mercati ma dal movimento del cuore, ovvero se esso si lascia ispirare dalla gratitudine e dall’entusiasmo o dalla paura e dalla diffidenza, in altri termini, se lo anima la carità di Dio o l’egoismo.

Guadagnare è molto di più che accumulare. Il guadagno è un processo che inizia dal perdere. Investire è un po’ come seminare. Sia chi affida al banchiere i suoi beni che colui che affida il seme alla terra lo fa con la speranza che ciò che in un primo momento perde poi gli viene restituito moltiplicato. Così è chi ama. Non si tratta semplicemente di accumulare soddisfazioni, onori, benefici, ma di attivare processi di crescita e di promozione.

Non importa quanto abbiamo da investire, ciò che è importante è farlo, prendere l’iniziativa, darsi da fare, assumersi delle responsabilità, darsi dei compiti, impegnarsi al massimo spendendosi totalmente. Bisogna guardarsi intorno e fuori di sé, ascoltare la realtà, recepire le istanze e le richieste che vengono dal mondo che abitiamo. La vita riserva il gusto migliore man mano che si coniuga la propria vocazione, e il desiderio di realizzare qualcosa, con i bisogni dei fratelli, soprattutto dei più poveri. Sono essi i banchieri a cui affidare il tesoro dei nostri carismi. Il modo più utile per interpretare il compito che abbiamo scelto di assumere, o quello che la vita ci riserva, è amare avendo a cuore il bene di tutti, soprattutto dei fratelli più piccoli. Il guadagno è proporzionato alla generosità con la quale si ama, alla fiducia con cui si semina la speranza, all’entusiasmo nel diffondere la gioia, alla creatività impiegata nell’ educare alla cultura della solidarietà e dell’inclusione, alla disponibilità a collaborare con gli altri per fare sistema.

La paura blocca, la gioia anima il coraggio e la creatività

La parabola mette in luce il fatto che ognuno di noi è diverso dall’altro ma la vera differenza non consiste nella quantità dei doni ricevuti o nella misura della propria capacità ma dal modo con cui investiamo le risorse che abbiamo. Tutti possediamo una ricchezza da amministrare e, così facendo, offriamo un servizio. I servi buoni e fedeli sono coloro che agiscono cercando d’interpretare con creatività la volontà del padrone. Non fanno tanti ragionamenti e soprattutto non pretendono di giudicarlo. I servi sono riconosciuti fedeli perché hanno fatto fruttificare il poco ricevuto. Non si sono persi nel confrontarsi tra loro e nel vantarsi per aver ricevuto più degli altri o nel deprimersi se gli è stato dato di meno. Non si sono lasciati distrarre dalla ricerca del criterio di distribuzione dei beni, ma hanno colto subito il senso della fiducia riposta in loro e l’hanno tradotta in servizio fruttuoso. In fondo è la gioia di essere chiamati al servizio che spinge i due servi buoni e fedeli a rischiare. La gioia spinge ad osare e chi ha il coraggio di rischiare innanzitutto vince sulla paura che invece blocca, come per il terzo servo. Ciò che sa l’ultimo servo è nient’altro che il pregiudizio verso il padrone, in cui sono compendiate tutte le sue insicurezze e le malvagità che conserva nel cuore, e verso il quale prova sentimenti di diffidenza e timore. Nel servo malvagio prevale la rabbia per aver ricevuto di meno sulla riconoscenza e la gratitudine per l’incarico affidatogli. La sua capacità è inferiore rispetto a quella degli altri perché il suo cuore è pieno di risentimento e complessi d’inferiorità. La paura è lo strumento che l’Ingannatore usa per indurci al peccato di omissione. La paura, infatti, è all’origine della rinuncia a fare il bene. Al contrario, la gioia pervade il cuore della persona che fa spazio dentro di sé a Dio perché possa compiersi la sua volontà. La gioia di Dio si moltiplica e si diffonde diventando in chi l’accoglie la forza propulsiva che permette di superare ogni dubbio e resistenza, interiore ed esteriore.  

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna

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