don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 11 Giugno 2023

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Dio non è un bene di consumo ma è il compimento del bene – SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO (ANNO A) – Lectio divina

Dal libro del Deuteronòmio Dt 8,2-3.14-16

Ti ha nutrito di un cibo, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto.

Mosè parlò al popolo dicendo:

«Ricòrdati di tutto il cammino che il Signore, tuo Dio, ti ha fatto percorrere in questi quarant’anni nel deserto, per umiliarti e metterti alla prova, per sapere quello che avevi nel cuore, se tu avresti osservato o no i suoi comandi.

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Egli dunque ti ha umiliato, ti ha fatto provare la fame, poi ti ha nutrito di manna, che tu non conoscevi e che i tuoi padri non avevano mai conosciuto, per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore.

Non dimenticare il Signore, tuo Dio, che ti ha fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile; che ti ha condotto per questo deserto grande e spaventoso, luogo di serpenti velenosi e di scorpioni, terra assetata, senz’acqua; che ha fatto sgorgare per te l’acqua dalla roccia durissima; che nel deserto ti ha nutrito di manna sconosciuta ai tuoi padri».

Il memoriale

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La prima lettura, tratta dal libro del Deuteronomio, ci offre due indicazioni preziose che sono un unico imperativo vitale per l’uomo: ricordare e non dimenticare. Il ricordo non è esercizio di nostalgia, ma è ricondurre al cuore quello che si vive rintracciando negli eventi, soprattutto quelli più difficili, il filo rosso della compagnia di Dio. Ricordare è un pellegrinaggio interiore col quale entriamo nel deserto che ci abita ripercorrendo con la mente il sentiero tracciato dalle orme che Dio lascia camminando insieme a noi.

Dio ci ordina di ricordare, cioè di dilatare lo spazio del desiderio dell’incontro con Lui. Nella memoria dell’uomo rimangono impressi i segni del dolore e della gioia, la sofferenza della propria povertà e la beatitudine della carità.

Il ricordo, che diventa preghiera, permette ancora una volta d’incontrare il Signore e sperimentare la sua premura di Padre che si prende cura del suo popolo. L’uomo ricorda attraverso il rito, fatto di gesti e di parole, e ricordando fa festa, cioè rivive la gioia di essere amato da Dio. È Lui che organizza la festa per l’uomo e lo invita a parteciparvi. L’incontro con Dio è sempre una festa perché la vita che ha in sé la dona con abbondanza come fa lo sposo che prepara un banchetto ricco di vivande in occasione delle sue nozze.

Dio che trasforma la schiavitù in libertà, il deserto in un giardino, la morte in vita, il lutto in gioia, la sterilità in fecondità, cambia anche la nostra vita. Tutto nasce e rinasce dalla bocca di Dio. Sin dal racconto delle origini Dio usa la bocca per donare il suo alito di vita e fare dell’uomo, tratto dalla terra arida e sterile, un essere vivente, capace di amare.

Il deserto è una terra arida senz’acqua, priva di vita. Dal deserto non si può trarre nulla se non polvere, cioè ciò che il vento porta via. Adam, l’uomo tratto dalla terra e che è terra, non può vivere senza Dio. L’uomo di terra non può vivere solo da ciò che trae dalla terra, non vive di solo pane, cioè di quello che sazia i suoi bisogni e che può garantirsi attraverso il lavoro, ma vive se si lascia amare e ama. L’autosufficienza è una illusione inutile, è il delirio di chi vorrebbe essere solo al comando, di sé e degli altri.

Dello Spirito di vita che esce dalla bocca di Dio si parla in tutta la Bibbia perché attraversa tutta la storia dalla salvezza. Dal racconto della creazione fino alla narrazione dell’esodo, passando per l’azione dei profeti, si parla sempre dello Spirito di Dio, lo Spirito di vita. Ogni pagina della Scrittura è un invito costante a mangiare e bere ciò che Dio offre. Tutta la creazione dice all’uomo: questo è dono per te, tutto è Grazia. Ricordare significa gustare e vedere quanto è buono il Signore e beato l’uomo che si rifugia in lui.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi (1Cor 10,16-17)

Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo.

Fratelli, il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? E il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?

Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un solo corpo: tutti infatti partecipiamo all’unico pane.

La mormorazione vanifica la grazia di Dio, la comunione fraterna la moltiplica.

Sullo sfondo delle parole di Paolo c’è la questione della liceità di mangiare carne di dubbia provenienza. Alcuni, molto scrupolosi, avevano timore di mangiare quello che portavano i credenti provenienti dal paganesimo e che acquistavano al mercato. A volte poteva capitare che al mercato si vendesse parte della carne che era stata offerta agli dei. Questo era motivo di mormorazione da parte di coloro che si ritenevano puri e non volevano contaminarsi con gli altri. Paolo spiega che la vera contaminazione, che porta alla morte, è la mormorazione tra i fratelli. Invece di amarsi reciprocamente ci si giudica aspramente senza tener conto della capacità di discernimento e della libertà di coscienza che ognuno ha. Paolo richiama l’esperienza d’Israele nel deserto. Tutti gli Israeliti mangiarono al manna e le quaglie e bevvero dalla roccia, ma alcuni di essi mormorando contro Dio e i fratelli andarono incontro alla morte. La mormorazione vanifica il dono ricevuto facendo sprofondare negli inferi coloro che fomentano le divisioni. Al contrario, chi partecipa alla mensa di Cristo, cresce nell’amore fraterno per diventare fautore di comunione e artefice di unità, pur nella diversità di storie, sensibilità, maturità e capacità di discernimento.

+ Dal Vangelo secondo Gv 6,51-58 – Corpus Domini

La mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

In quel tempo, Gesù disse alla folla:

51Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo”.

52Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”. 53Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno. 55Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda. 56Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui. 57Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me. 58Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

Lectio

Contesto

Dopo il segno dei pani sulla riva del mare di Tiberiade (Gv 6, 1-15) e il successivo passaggio verso Cafarnao, dove Gesù raggiunge i discepoli camminando sulle acque (Gv 6, 16-21), anche la folla lo cerca e vi si dirige (Gv 6, 22-24); una volta trovato inizia il dialogo che avviene nella sinagoga di quella cittadina (Gv 6, 25-59). La discussione, ricca di accenni polemici, in un primo momento è tra Gesù e la folla (vv. 26-40), che lo cerca per il fatto di essersi saziata con il cibo che Gesù ha procurato, per poi degenerare in una sorta di lite con i Giudei che mormorano contro di lui (vv. 41-58).

La folla cerca Gesù per farlo re perché riconosce in lui il compimento della promessa fatta da Mosè (Dt 18, 15.18). Infatti, il miracolo dei pani richiama quello della manna nel deserto. Durante il viaggio verso la terra promessa Israele sperimenta la potenza di Dio che assicura anche nel deserto il nutrimento necessario per vivere. La manna era finalizzata a sostenere il cammino. Essa termina con l’ingresso nella terra promessa dove gli Israeliti sono finalmente liberi di coltivare la terra e trarne il cibo da mangiare. Il popolo doveva procurarsi il cibo raccogliendo la manna che, pur essendo considerato “celeste”, era deperibile come qualsiasi altro alimento “terreno”. Gesù invita la folla a non procurarsi solo il cibo terreno, che deperisce e può corrompere, come la manna, ma quello che Dio offre. Infatti, Il pane di Dio, non è una cosa ma è una persona, colui che discende dal cielo per dare la vita. Gesù identifica sé stesso con il pane del cielo: «Io sono il pane della vita» (6, 34). Gli Israeliti hanno gustato il pane dato loro gratuitamente, hanno visto con i loro occhi quanto è buono il Signore, ma il loro desiderio non è andato oltre il bisogno di saziare la fame. La folla va da Gesù non perché si sente attratta dal desiderio di vita eterna, ma dall’istinto della fame. La gente cerca ciò che sazia e non ciò che fa vivere, ciò che riempie la pancia e non ciò che compie la volontà di Dio. Gesù aveva detto ai discepoli che lo invitavano a mangiare ciò che avevano comprato a Sicar, in Samaria poco distante dal pozzo di Giacobbe: «Mio cibo è fare la volontà di colui che mi ha mandato e compiere la sua opera» (Gv 4,34). Infatti, afferma di non essere disceso dal cielo per fare la sua volontà ma la volontà del Padre, colui che lo ha mandato. Il progetto di Dio è questo: «Chiunque vede il figlio e crede in lui abbia la vita eterna» e risusciti nell’ultimo giorno (cf. Gv 6, 40). La risurrezione non è semplicemente vivere oltre la morte, ma vivere attraverso la morte, ossia vivere per amore e per amare. Nelle parole di Gesù alla folla in filigrana appare il racconto della creazione in cui Dio da all’uomo da mangiare ciò che produce la terra. Tutti i frutti può mangiare, tranne quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Istigata dal serpente, la donna vede il frutto proibito con gli occhi pieni di avidità; gli appare bello e buono da mangiare per acquistare sapienza, perciò, prende e mangia dandone anche all’uomo. La donna ha visto e ha disobbedito al comando di Dio. Gesù si presenta come il frutto che il Padre offre da mangiare. Le sue parole (e i segni da lui compiuti) sono vere perché in Gesù c’è la sapienza, cioè la verità. Il serpente, che è la sapienza di questo mondo, è menzognero mentre Gesù, Sapienza di Dio è veritiero. Il Diavolo vuole allontanarci da Dio, mentre Gesù ci accompagna verso il Padre; il Demonio vuole la nostra morte, mentre Dio desidera la nostra vita. L’albero della vita nel giardino dell’Eden è la croce, posta sul Golgota, il cui frutto è Gesù, il trafitto. Giovanni, dopo la trafittura con la lancia e la fuoriuscita di acqua e sangue dal fianco, cita il profeta Zaccaria 12,10: «Volgeranno lo sguardo a colui che hanno trafitto» (Gv 19, 37). «Vedere e credere» per il quarto evangelista significa conoscere la volontà di Dio e metterla in pratica. La volontà di Dio nasce dall’amore che nutre verso gli uomini per i quali desidera la vita eterna. Dunque, il cuore del messaggio della prima parte del dialogo con la folla è l’autorivelazione di Gesù, Pane di vita disceso dal cielo.

La sua provenienza divina è l’oggetto della mormorazione dei Giudei che presumono di sapere le sue origini, per niente nobili, perché conoscono il padre e la madre. I Giudei sanno chi è Gesù perché altri uomini li hanno istruiti. Gesù invita a non cercare la sapienza discutendo tra loro ma, come affermano i profeti (cf. Is 54,13 e Ger 31, 33-34), a mettersi in ascolto dell’insegnamento di Dio desiderosi di essere istruiti da Lui. La Parola di Dio è nutriente più del pane che sazia la fame. Gesù invita a cercarlo non per ricevere il pane che sazia ma la Parola di Dio che fa vivere. Bisogna ascoltare e lasciarsi guidare dal Padre che con il suo Spirito ha riversato su tutti la sua grazia e la sua consolazione e ha scritto la sua legge nel cuore. La fede è il dono del Padre che attira al Figlio con il desiderio di unirsi e conformarsi a lui. Egli, infatti è l’unico che conosce il Padre perché lo ha visto. Gesù è la Sapienza di Dio da lui inviata perché chiunque l’assimila (crede in lui) possa vivere come Dio (la vita eterna). Dopo la prima autorivelazione alla folla, Gesù ribadisce per la seconda volta: «Io sono il pane della vita». La manna del deserto è solo ombra del vero pane del cielo. Infatti, i padri che l’hanno mangiata sono morti, come anche coloro che si sono nutriti dell’insegnamento delle Scritture. Mosè ha portato dal monte Sinai la Legge e ha pregato perché il popolo nel deserto potesse essere sfamato da un cibo. In tal modo Dio, ha preparato Israele ad accogliere il vero pane del cielo, la Sapienza che viene dall’alto, affinché chi ne mangia possa non morire per sempre ma vivere.

Struttura

I vv. 51-58, che compongono la pericope evangelica, riportano le parole rivolte ai Giudei. Possiamo distinguere due parti separate dal v. 52 che riporta la seconda obiezione dei Giudei.

v. 51: Autorivelazione e l’autodonazione di Gesù

v. 52:  Obiezione dei Giudei

vv. 53-58: La pro-esistenza di Gesù e del credente

v. 51: «Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo».

Il versetto contiene due frasi e tre affermazioni:

a – Io sono il pane vivo, disceso dal cielo.

b – Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno

a1 – il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo.

La prima affermazione riprende la sua origine divina e la identificazione con il pane della vita dato da Dio, prefigurato nella manna del deserto e nella Legge di Mosé. In realtà non è Mosè che ha dato il pane dal cielo ma è il Padre che da il pane vero. Gesù si identifica con il pane del cielo che Dio offre. Dio è il datore del pane che viene dal cielo.

La terza affermazione aggiunge alla rivelazione della donazione divina il fatto dell’autodonazione («la mia carne»). L’incarnazione, espressa da Giovanni con l’affermazione «il Logos divenne carne», segna il momento nel quale il Padre dà il pane dal cielo. Dio, diventando uomo, condivide la nostra condizione umana in tutto, eccetto il peccato. L’affermazione centrale riguarda l’uomo a cui Dio dona il nutrimento. Chi si nutre del cibo che Dio dona vive per sempre.

v. 52: «Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?”».

L’obiezione dei Giudei, dopo la questione della sua origine divina, si concentra su quella dell’ autodonazione. La mormorazione dei Giudei richiama quella degli Israeliti nel deserto che, stanchi della manna, sono desiderosi di qualcos’altro. Dio promette di dar da mangiare carne ma gli Israeliti sono increduli. Anche per i Giudei quelle di Gesù sono affermazioni inaudite. Se è problematico accettare l’abbassamento di Dio che viene per assumere la carne umana, lo è ancora di più credere che possa immolarsi. I Giudei conoscevano solo la carne dei sacrifici di comunione che veniva offerta dai sacerdoti per essere mangiata. Condividere la carne dei sacrifici significava partecipare di quella comunione con Dio che si era realizzata col sacrificio. I Giudei comprendono che Gesù sta alludendo ad un sacrificio cruento come quello dell’agnello pasquale che veniva immolato nel tempio e le cui carni erano consumate nel rito pasquale.

La risposta di Gesù si articola attorno alla vita intesa come comunione con lui e il Padre.

vv. 53-56: Chi mangia la carne e beve il sangue di Gesù è in comunione con lui.

v. 57: Come Gesù vive per il Padre (ama e fa la sua volontà), così chi mangia Gesù vive per lui (ama come lui ha amato).

v. 58: Chi mangia il pane disceso dal cielo vive in eterno.

v.53: Gesù disse loro: “In verità, in verità io vi dico:

se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue,

non avete in voi la vita.

v.54: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue

ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.

v.55: Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.

v.56: Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue

rimane in me e io in lui.

La rivelazione di Gesù riprende quello che ha detto alla folla circa il cibo che dà il Figlio dell’uomo, quello che dura e non si corrompe perché viene dal Padre (Gv 6, 27). Aggiunge che bisogna mangiare la sua carne e bere il suo sangue per avere in sé la vita. Nel v. 54 Gesù spiega che il misterioso Figlio dell’uomo di cui bisogna mangiare la carne e bere il sangue è lui stesso. Il divieto di mangiare la carne degli animali con il sangue viene dall’idea che il sangue è la sede della vita. In origine Dio aveva dato come cibo agli uomini e agli animali solo prodotti della terra. Nella nuova alleanza sancita con Noè viene introdotta la possibilità di nutrirsi di carne facendo ben attenzione a non bere il sangue: «Soltanto non mangerete la carne con la sua vita, cioè con il suo sangue» (Gn 9,4). Questo divieto intende educare l’uomo a non considerarsi padrone assoluto della vita, né della propria né tantomeno di quella altrui, animale o persona che sia. Al contrario, L’uomo deve dare conto a Dio del sangue sparso, ovvero, della vita tolta con violenza. La vita si toglie anche con la calunnia. Quindi bere il sangue significa fare propria la vita dell’altro. Al di là della letteralità delle parole, Gesù intende dire che egli offre sé stesso come sacrificio vivente. In tal senso, comprendiamo che Gesù non sta invitando a violare la legge che proibisce di bere il sangue, ma ad accoglierlo e riceverlo come dono, e non semplicemente come un bene di consumo. Chi mangia di lui non si nutre di un morto, ma di Colui che è vivo e dà la vita.

La vita di Gesù è lo Spirito Santo, amore che apre il cuore per farsi amare e spinge ad amare facendosi dono per l’altro. La «carne e il sangue» del Figlio dell’uomo indica la sua condizione di debolezza e di fragilità sintetizzate nell’immagine dell’Agnello pasquale. Questo animale rappresenta la forza dell’umiltà e la potenza del perdono. Il sangue dell’agnello, nel contesto della pasqua, è segno d’identità, di appartenenza e di salvezza. Mangiare la carne e bere il sangue significa entrare in un rapporto di comunione intima grazie alla quale avviene l’interiorizzazione del rapporto e il legame che si instaura diventa indissolubile, come quello che si stabilisce al momento della generazione. Una volta generati si è figli o padri e madri per sempre. Le parole di Gesù spiegano l’evento della Pasqua che si perpetua nell’Eucaristia. Il sacrificio di Cristo sulla croce è il dono del suo corpo agli uomini in obbedienza alla volontà del Padre. Il valore della Pasqua è duplice: espiatorio, perché il sangue perdona il peccato, e comunionale perché con la riconciliazione stabilisce un rapporto di alleanza eterna fondata sull’amore.  

v.57: Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.

Gesù instaura un paragone per indicare che il modello dell’uomo beato e sapiente non è Mosè e i loro padri, ma Gesù, il quale, essendo il Figlio di Dio, ha un rapporto unico con Lui, ma non esclusivo. Infatti, come Gesù vive per il Padre, perché lo ama e obbedisce alla sua volontà, così chi lo ama e obbedisce al comando dell’amore, si nutre della Parola che lo aiuta ad amare i fratelli con tutto sé stesso. Per Gesù il senso della vita risiede nel dialogo continuo col Padre a cui accede anche chi interiorizza la Parola di Cristo facendo dell’amore misericordioso, ovvero la vita di Dio, il principio ispiratore di ogni progetto e stile di vita in tutti gli ambiti e le relazioni.

v. 58: Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno.

L’autodonazione nel sacrificio della croce è il compimento del dono di Dio che nutre il suo popolo nel cammino dell’esodo. Gesù è superiore a tutti gli altri doni di Dio perché lui è la pienezza della grazia. «Dalla sua pienezza abbiamo ricevuto grazia su grazia. Perché la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16-17). San Paolo in 1Cor 10 spiega che i padri che avevano mangiato il pane nel deserto erano morti perché, ingrati, avevano ceduto alla mormorazione alimentando malumore e ribellione. Solo chi mangia con il desiderio di fare comunione con Dio e i fratelli vive veramente perché egli stesso diventa pane spezzato per i fratelli.

Meditatio

Nell’Eucaristia lo “scambio” diventa “cambiamento” e la “trasformazione” una nuova “Trasfigurazione”

Gesù nel vangelo insiste nel dire di mangiare la propria carne. Nel linguaggio biblico la carne indica l’umanità fragile, soggetta alla sofferenza, vulnerabile. Diventando uomo Dio si è fatto mortale, debole, mancante. Prendendo la nostra carne Dio si è fatto povero con i poveri, pellegrino con i pellegrini, precario con i precari, vittima con chi subisce ingiustizie, sofferente con gli infermi. Dio ha piantato la sua tenda in mezzo alle nostre nel deserto per condividere il nostro dolore affinché noi potessimo partecipare della sua gloria.

Gesù soffrendo la fame e la sete, subendo ingiustizie e condanne, mangia con noi il pane di lacrime, sopporta con noi la fatica nel proseguire sul cammino della vita, beve con noi il calice amaro delle tante umiliazioni. Nei nostri deserti, lì dove sentiamo la delusione di amori traditi, la rabbia per sogni infranti, la tristezza per ciò che ci manca, Dio ci viene incontro e prepara per noi un banchetto nel quale dà sé stesso.

La vita è un cammino che ci cambia in meglio o in peggio. Ci cambia in meglio se, lasciandoci amare, cresciamo come uomini e figli di Dio, in peggio se, dimenticandolo, pretendiamo di fare a meno di Lui regredendo così su posizioni che ci fanno assomigliare più alle bestie selvatiche che a persone. L’uomo viene deformato da ciò che accumula con avidità, ma si lascia educare come persona da ciò che accoglie con spirito filiale e di gratitudine.

Un Dio compassionevole che condivide tutto con l’uomo, eccetto il peccato, non era stato ancora conosciuto, perché un amore così grande non era stato ancora sperimentato fino a quando Gesù Cristo, il Figlio di Dio, non è morto sulla croce.

Alla mensa eucaristica si rinnova quel mistico scambio che chiamiamo comunione: Dio compassionevole prende su di sé la nostra povertà e con benevolenza dona la ricchezza della sua misericordia; dall’altra parte l’uomo accoglie con gratitudine la grazia di Dio e gli offre con umiltà la sua povertà.

Nell’eucaristia lo scambio diviene cambiamento sostanziale e la trasformazione una trasfigurazione. I gesti rituali danno forma e significato a quelli esistenziali. Sicché la comunione con Dio diventa comunione fraterna.

Nell’Eucaristia avviene una nuova creazione in cui l’uomo diventa essere vivente perché capace di comunione. I suoi gesti quotidiani diventano segni eucaristici attraverso i quali giunge lo Spirito di Dio che ridona il sorriso a chi lo ha perduto, il coraggio allo sfiduciato, la salute agli infermi, la speranza ai delusi, la vita ai morti. La povertà, la sofferenza e la morte di Gesù sulla croce si trasformano per l’uomo in ricchezza di amore, in gioia nel donare e vita che genera. 

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna