Don Luciano Labanca – Commento al Vangelo del 2 Aprile 2021

Di fronte al mistero della sofferenza e della morte, l’uomo di ogni epoca, di ogni luogo, di ogni cultura ed estrazione sociale trema di paura e rimane attonito e confuso. Quel passaggio dal luce e calore della vita alla fredda oscurità della tomba, dal rumore al silenzio, dai successi umani alla sconfitta, per la povera mente umana risulta un ostacolo insormontabile. La figura del veggente dell’Apocalisse di Giovanni, che piange molto perchè non si trova nessuno in cielo e sulla terra capace di aprire il rotolo (cfr. Ap 5,4), può rappresentare l’uomo di sempre che piange di fronte al mistero della vita e della morte umana, perchè non riesce a comprenderne il senso.

È il dolore dell’antica maledizione di Adamo: pulvis es et in pulverem reverteris. Il paradosso misterioso del Venerdì Santo viene a sconvolgere e trasformare questo grido dell’umanità! La morte che sembrava aver sconfitto per sempre l’umanità, distruggendo la vita, attraverso il Verbo Incarnato viene assunta e definitivamente redenta. Lasciandosi inghiottire dalla sua oscurità, Cristo, il Figlio purissimo del Padre, Leone di Giuda, Agnello Immolato, “pieno di grazia e di verità” (Gv 1,14), ha inghiottito la morte, togliendole l’ultima parola sulla vita umana e rendendola il passaggio verso un’altra vera vita. Come ci ricorda San Paolo: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (2Cor 5, 21).

Senza il pungiglione del peccato, la morte perde il suo veleno, trasformandosi in un passaggio pasquale. Il dolore innocente, la sofferenza inspiegabile, le ingiustizie inaccettabili, in Cristo crocifisso trovano una risposta. In Lui Dio si è fatto prossimo alla fragilità dell’umanità, offrendovi una luce nuova tramite il mistero della Croce. Il Dio cristiano, al contrario delle divinità pagane, delle quali si celebravano trionfi, non offre soluzioni facili ai drammi dell’umanità, alle prove e alle sofferenze, ma Lui stesso li assume su di sè, li accoglie e li trasforma dall’interno con la potenza dell’amore: le prove diventano strumento di redenzione e l’uomo non è più condannato all’abbandono, alla solitudine a all’irrazionale, perchè Cristo è con Lui.

Egli non ci salva dalle prove quotidiane, ma se riconosciamo la sua presenza e il suo amore, ci salva dentro di esse, rendendole luogo privilegiato della sua sequela: “Se qualcuno vuole venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà” (Mt 16,24). Non c’è dubbio, si tratta di un messaggio forte e controcorrente in un mondo che esorcizza la sofferenza e la morte, inebriandosi di divertimenti e distrazioni. Dire che anche le prove possono avere un senso, che il dolore può essere redentivo, non è facilmente accettabile in una cultura di superuomini, in cui le sconfitte e le debolezze non sono accettabili.

Eppure quelle parole dell’evangelista Giovanni che concludono il meraviglioso racconto della Passione, continuano a rivelarsi di una disarmante attualità: “Chi ha visto ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; egli sa che dice il vero, perché anche voi crediate” (Gv 19, 35). Il dramma della “morte di Dio” nel Venerdì Santo ci pone sempre di nuovo di fronte al dilemma dell’esistenza: se crediamo, la morte può diventare vita in Cristo, perchè Lui stesso l’ha resa tale, facendola diventare solo un passaggio (Pesah, Pasqua) verso la vera vita; se non crediamo la morte resta un abisso che ci sovrasta con il suo potere oscuro e apparentemente invincibile.


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