don Giovanni Berti (don Gioba) – Commento al Vangelo del 27 Marzo 2022

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Tessitori di fraternità

“Un cristiano che non ama è come un ago che non cuce. Punge e fa del male ma non unisce i tessuti e non serve a nulla…”
È la bellissima immagine che Papa Francesco ha usato nella sua omelia durante la celebrazione in San Pietro il 25 marzo scorso. Era la celebrazione penitenziale e di preghiera per la pace con quel gesto fortemente simbolico di consacrare al Cuore Immacolato di Maria i popoli dell’Ucraina e della Russia. Questi due popoli sono divisi da questa terribile guerra, ma hanno una comune eredità cristiana che non può e non deve dividerli.

Papa Francesco parlava di misericordia, quella che c’è in Dio e quella che è presente di riflesso nell’uomo, in noi. Senza questo amore misericordioso, che perdona e riconcilia, che unisce e ripara gli strappi, la fede diventa sterile e la religione rischia di fare inutilmente male, proprio come un ago non usato per unire ma solo per pungere.

Gesù veniva aspramente criticato dai religiosi del suo tempo perché aveva questo comportamento misericordioso con quelli che erano considerati peccatori e lontani. Farisei e scribi dicevano, come introduce Luca nel suo Vangelo, “Costui accoglie i peccatori e mangia con loro”. La terza delle tre parabole della misericordia contenute nel capitolo quindicesimo del Vangelo di Luca, è quella più lunga e articolata, la più ricca di elementi che raccontano simbolicamente prima di tutto di Dio e poi di noi.

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È la storia di una famiglia che si sfalda, di strappi dovuti a separazioni e incomprensioni. Un padre apparentemente “debole” non riesce a trattenere il figlio più giovane che se ne va con la propria parte di eredità che in poco tempo butta letteralmente via per nulla. Questo figlio alla ricerca della libertà e felicità, abbandonando la casa del padre, trova alla fine miseria e infelicità. Gesù nel raccontare la sua condizione misera vuole spegnere in chi ascolta lo sguardo accusatorio verso questo figlio, e accendere la pietà.

Ma anche l’altro figlio che rimane, in realtà non rimane in casa come figlio ma come servo. Anche lui ha abbandonato con il cuore la casa paterna e non riconosce più l’altro come fratello (“… ma ora che è tornato questo tuo figlio”) e non riconosce il padre come padre, rivelando che in fondo per lui è sempre stato solo un padrone da servire. La parabola racconta di tanti strappi e lacerazioni tra di noi, dentro le nostre famiglie, dentro la nostra Chiesa e anche tra le Chiese, racconta gli strappi tra i popoli, anche tra quelli fratelli per origine come lo sono quelli dell’Ucraina e della Russia.

Ma al centro del racconto c’è questo padre apparentemente debole e arrendevole, che non ha vergogna di correre incontro ai figli, che rinuncia al suo potere e diritto di punire e separare. Al centro c’è questo padre “tessitore” di fratellanza, che vuole ricucire i rapporti, anche quelli più lacerati e apparentemente irrecuperabili. Il padre della parabola è un artigiano di pace che usa il suo potere non per pungere e ferire ma per amare e riconciliare.

Se noi possiamo vederci nell’atteggiamento dei due fratelli, incapaci di vera libertà e di perdono, possiamo anche vederci in quel padre misericordioso. Possiamo essere come Gesù, tessitori di fraternità, con in mano la nostra fede che ama e perdona, una fede che non ferisce e punge ma unisce e ripara.


Fonte: il blog di don Giovanni Berti (“in arte don Gioba”)