don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 26 Novembre 2021

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L’INVERNO CHE SEMBRA CHIUDERE LA PORTA ALLA SPERANZA E’ INVECE IL SENO FECONDO DOVE E’ DEPOSTO E GESTATO L’AMORE CHE NON MUORE


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

E’ inverno e fa freddo. Personalmente non mi piace per nulla, ho sempre odiato il freddo e mal sopportato questa stagione. Perché non piace al mio uomo vecchio che ancora cerca nella carne e negli affetti il tepore del caminetto accanto al quale raggomitolarsi, stretto in una coperta e disteso su un comodo divano. Basta una notizia che spariglia i piani a spingerci fuori dalla stanzetta calda e comoda, in mezzo al freddo per sperimentare l’attacco del demonio, il principe delle parole inutili, il maestro dei sofismi, il padre delle menzogne che intrappolano cuore e mente nella tristezza generata dal non capire che cosa accade.

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Ecco perché non mi è mai piaciuto l’inverno: perché è segnato dal freddo che ingoia i pensieri, i criteri, i desideri e le parole dell’uomo vecchio. Perché seppellisce sotto terra e neve le passioni ingannatrici dell’uomo della carne. Perché frantuma il seme, ovvero il progetto di vita che Dio ha disegnato per me, e per questo mi sembra che tutto sia inospitale e inavvicinabile. L’inverno è segno del rifiuto, e sembra contestare la vita, l’allegria e il riposo, i frutti e la sazietà che invece dipingono l’estate con i loro colori accesi. Insomma, non mi piace l’inverno perché non mi garba morire, e infilarmi nel vento e nella pioggia, nel grigio acuminato di giornate come questa che mi ha accolto proprio oggi. Non mi piace perdere la vita, perché il demonio è lesto e astuto per ingannarmi facendomi credere che tutto è destinato a passare e perdersi per sempre, fagocitato dal freddo della tomba.

E per questo devo difendermi dai rigori dell’inverno, non lasciare cioè che la mia vita passi per scendere nella morte. Il freddo mi inchioda alla paura e all’incapacità di fare qualsiasi cosa, come l’inganno del demonio mi incatena all’impossibilità di amare e donarmi. Invece Dio, attraverso la Chiesa, come il contadino con i suoi semi, depone la fede proprio quando e dove non ci aspetteremmo e vorremmo, perché la nostra vita possa crescere nella precarietà come un albero radicato nella certezza del suo amore. In ogni istante infatti, è nascosto il Mistero Pasquale del Signore, il suo passaggio dalla morte alla vita.

Per questo la Pasqua è proprio il cammino di un seme che, dal sepolcro della terra, si fa strada attraverso l’oscurità per spuntare, vivo e forte, alla luce, e lanciarsi giorno dopo giorno verso il Cielo. “Il cielo e la terra passeranno, ma le Parole del Signore non passeranno” proprio perché sono le uniche capaci di passare attraverso la morte e resistere intatte, autentiche nel loro compiersi, una dopo l’altra. Mentre tutte le altre parole segnano il passo rivelandosi effimere e transitorie, la sua Parola d’amore, capace di ri-crearci nella misericordia, è l’unica eterna perché attraversa la morte senza esserne assorbita.

Così, nella nostra vita ogni cosa è destinata a passare per lasciar posto alla Parola fatta carne, al potere della predicazione, a Cristo vivo nell’annuncio del Vangelo. Il passare di tutto riverbera infatti il passaggio pasquale del Signore nella storia: questa è l’unica verità che non passerà mai, perché è il segno che Lui ci ama così come siamo, sempre. Per questo, le sofferenze, i problemi, le angosce, il fallire dei progetti, sono i germogli che spuntano sui rami della nostra croce, preannunciano l’estate, non la morte! Nelle parole del Signore si ode l’eco del Cantico dei Cantici; dure e crude, sono parole d’amore. E’ lo Sposo che incede, e vuole destare la sposa, accendere in lei il desiderio di Lui, e schiudere i suoi occhi in un discernimento capace di intercettare i segni del suo avvento imminente.

Gli eventi descritti dal Signore nei brani precedenti ci aiutano a riconoscere in essi i germogli che preannunciano la dolcezza dell’incontro con Lui, il premio sperato e atteso. Questo significa avere discernimento e vivere nell’attesa del compimento, perché il passato semina nel presente la profezia dell’avvenire, non la malinconia per quello che è passato e perduto. La vita perduta per amore è il segno profetico che illumina il presente e lo orienta verso la pienezza di vita che solo il dono dell’amore è capace di generare. Così una sposa e madre che, unita a Cristo, passa il suo tempo stirando camice per le quali nessuno le dirà mai grazie, o pulendo tazze del gabinetto che tutti useranno senza accorgersi della loro brillantezza, ama perdendo pezzi di se stessa che ritrova ogni giorno moltiplicati in gioia, pace e pienezza di senso che la accompagnano nei giorni e la spingono a donarsi ancora, e di più.

Altro che frustrazione, chi ama e si consegna al proprio marito e ai frutti di questa amore sottomesso che sono i figli, non ha bisogno di cercare gratificazione fuori di casa. La storia non genera in lei rimpianti, ma gioia, pienezza e desiderio di donarsi ancora, e di più. Così un marito che esce ogni giorno per un lavoro routinario dove il capo non ha altro da fare che umiliarlo. Mentre perde la sua vita per amore di sua moglie e dei suoi figli, la ritrova proprio nelle ore spese per loro, perché l’amore dà senso e gratificazione a quel suo stare lì, a prendere insulti e senza la minima gratificazione. Tutti questi sono i germogli della vita nuova che ha cominciato a scorrere ben prima del loro apparire. Per questo abbiamo bisogno dell’inverno, per distenderci e imparare a dissolverci sotto terra, perché chi non muore nella terra resta solo.

Ma chi invece, nella Chiesa, si lascia allevare come Gesù durante trenta anni a Nazaret, paesino di pochissime anime lontanissimo da Gerusalemme, darà frutto a suo tempo, come Lui e in Lui. Da Nazaret non poteva venire nulla di buono dicevano gli intelligenti e i religiosi del tempo, come anche oggi la cultura ci dice che oggi, da una casalinga seppellita a casa non può uscire altro che frustrazione, Così come non può uscire nulla di buono dalla nostra storia, dall’inverno di solitudine e sofferenza che ha accolto il seme della vita nuova deposto in noi dalla Chiesa. E invece proprio l’inverno di Nazaret, ripeto, trenta anni, è stato il grembo benedetto che ha gestato il Gesù l’Uomo capace di offrire se stesso alla morte più dura e dolorosa.

Come la tua Nazaret ha sino ad oggi gestato l’uomo o la donna capace di offrire la propria vita all’altro, anche a l nemico. Senza inverno non c’è primavera di primizie e neanche l’estate dei frutti! In questo Avvento, entriamo con Cristo nell’inverno preparato per noi, per essere, in Lui, i germogli di speranza che annunciano al mondo la sua vittoria sul sepolcro di peccato e morte. Se chi ti è accanto vedrà spuntare i germogli di una vita che la sua cultura e i suoi criteri ritegno impossibile, potrà iniziare a sperare che davvero esista l’estate, che anche la sua vita potrà dare frutti, proprio entrando nell’inverno preparato per lui.

Ogni evento è un germoglio che ci ricorda l’elezione che ci ha presi dal mondo, perché il fico è anche immagine di Israele: “guardai ai vostri padri come ai primi frutti di un fico” (Os 9,10). La storia concreta, le persone che ci sono date, tutto di noi e in noi segna la primo-genitura, il senso stesso della nostra vita, che è essere i primi frutti dell’umanità. Dietro a tutto si cela lo Sposo, innamorato e appassionato, che ci chiama ad alzarci; ci guarda con tenerezza, e ci annuncia oggi che è passato l’inverno, che la morte è vinta, che possiamo entrare negli eventi dai quali siamo sempre scappati terrorizzati. Bruciato il passato di morte nel fuoco del suo amore, possiamo correre verso l’estate che ci attende, liberi, e attirare con noi questa generazione.