don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 23 Aprile 2022

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CRISTO RISORTO CORREGGE CON AMORE IL CUORE INDURITO PER APRIRLO ALLA FEDE E SPINGERCI NELLA MISSIONE

Anche oggi è per noi l’alba di un nuovo giorno, l’aurora di una vita nuova. La nostra vita, come quella di Maria di Magdala, è una settimana di peccati, sette, e non ne manca nessuno. Sette demoni, la pienezza dei demoni, secondo il significato di questo numero nella Scrittura. Maria aveva sperimentato il tempo senza Cristo, la dura legge di schiavitù di chi è obbligato a servire un padrone che non lascia scampo, che si porta via la vita a brandelli. Sette demoni, sette vizi, peccati capitali. Aristotele li descriveva come “gli abiti del male”: superbia, avarizia, lussuria, invidia, gola, ira, accidia.


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Capo dei capi la superbia, l’idolatria dell’ego; la vita della Maddalena, come la vita di ciascuno di noi, era asservita al proprio ego, a soddisfare le proprie voglie. Dove anche l’amore non è altro che un sentimento catarifrangente, narcisistico, anche quando tocca l’ambito spirituale. La sofferenza dell’uomo è tutta racchiusa in questa innaturale chiusura su se stessi, che macchia anche l’impulso più autentico di donarsi. Maria ha incontrato Cristo, e la sua vita è cambiata; Maria è stata liberata dalle catene dei demoni, era una creatura nuova, primizia e immagine di ogni uomo rinnovato dal potere del Signore. Per questo è a lei che, per prima, Cristo appare risorto, come a sigillare, come una profezia, quanto aveva compiuto in lei. Aveva combattuto e aveva vinto; aveva distrutto il drago dalle sette teste, aveva inaugurato il cammino in una vita nuova, e Maria era la prima discepola ad incamminarsi in quella nuova settimana. 

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Vi è infatti un giorno, il primo dopo il sabato, in cui tutto si fa nuovo, definitivamente nuovo, il giorno di Maria di Magdala, il giorno nel quale ha visto “surrexit Christus spes mea!, risorto Cristo mia speranza”. La schiava aveva sperimentato la speranza che non delude, nel perdono e nella libertà. Ora era lei a correre e ad annunciare che la sua esperienza era ormai un dono accessibile a tutti, che la porta della libertà era spalancata per sempre: Cristo mia speranza è risorto, era tutto vero, era vero il perdono, era vero il suo amore, era vera questa vita liberata dai sette demoni. Era vera e autentica la speranza, ed era per tutti, per i suoi fratelli, per gli apostoli, per ogni uomo, per noi oggi. 

Ma nella società di duemila anni fa, una donna non aveva alcuna autorità, la sua testimonianza non possedeva valore. Neanche per gli Undici, incapaci di credere alle sue parole perché oppressi dal dolore per la scomparsa del Maestro e, soprattutto, dal rimorso per il loro meschino tradimento. Li opprimeva infatti la durezza stratificata sul cuore di chi non ha ancora conosciuto la misericordia del Signore, che non elimina il male ma lo assume sino a farsene divorare per redimere il malvagio. Per loro Maria rappresentava il passato ancora irredento, la peccatrice perdonata ma non salvata, immagine cioè della loro stessa esperienza: avevano conosciuto il Maestro, ne avevano assaporato l’amore e lo avevano tradito. Molte loro ferite erano state rimarginate, ma il morbo maligno era ancora vivo, proprio perché sul più bello Gesù era morto e ogni speranza di cambiare davvero giaceva con Lui in una tomba.

Il cuore degli Undici aveva smesso di sperare perché ancora schiavo dalla superbia che, in un subdolo e malefico narcisismo negativo, gli ributtava in faccia la loro debolezza. Così il cuore diventa sempre più duro, come la pietra che serrava il sepolcro. La speranza infatti, “in questo mondo, non può non fare i conti con la durezza del male. Non è soltanto il muro della morte a ostacolarla, ma più ancora sono le punte acuminate dell’invidia e dell’orgoglio, della menzogna e della violenza. Gesù è passato attraverso questo intreccio mortale, per aprirci il passaggio verso il Regno della vita. Ma c’è stato un momento in cui Gesù appariva sconfitto: le tenebre avevano invaso la terra, il silenzio di Dio era totale, la speranza una parola che sembrava ormai vana” (Benedetto XVI, Messaggio di Pasqua 2012). Per questo negli Undici affiorava la stessa sclerocardia del Popolo che, condotto nel deserto dove non c’è la vita per imparare a credere attraverso l’esperienza reale della presenza e del potere di Dio che fa uscire acqua dalla roccia più dura, si era ostinato nell’incredulità.

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 E’ la nostra esperienza, quel perverso gioco del demonio che ci inganna e seduce spingendoci a toccare e mangiare dell’albero, che accende la superbia per farci schiavi dei sette demoni; e poi ci lascia nudi, pieni di vergogna inducendoci a disprezzarci e odiarci, facendo proprio del disprezzo di se stessi la carezza avvelenata dell’egoismo più feroce, la stoccata che ci uccide. Ci ritroviamo improvvisamente soli con le nostre debolezze, con i nostri peccati, e ci chiudiamo in una prigione dalla quale è sottratta la speranza. Schiavi della superbia più subdola che ci persuade che Dio non possa avere ragione dei nostri peccati. Per questo siamo incapaci di credere a quanti ci annunciano che Cristo, unica nostra speranza, è risorto, che i peccati sono perdonati, che quella situazione che ci ha fatto piombare in un lutto pieno di lacrime, è redenta nel sangue di Cristo! In fondo, quando la Chiesa ci annuncia la resurrezione, pensiamo come i discepoli: Maria era stata troppo peccatrice, aveva cambiato vita sì, me era pur sempre lei, come lo continuiamo ad essere noi; era necessario un “troppo” amore, ma quello che abbiamo sperimentato è svanito ingoiato da un sepolcro. E ci ostiniamo a pensare che il matrimonio continuerà così, che quel figlio si perderà sempre più, che non saprò mai amare davvero, che continuerò ad offrire tutto a me stesso in un egoismo insaziabile. I sette demoni sono più forti, lo sono stati sino ad oggi…

Ma oggi è un nuovo giorno, oggi il Signore appare a ciascuno di noi e illumina il nostro cuore indurito, e lo scioglie nel suo amore. Oggi per noi è il giorno del perdono, l’inizio di una nuova settimana, di una vita assolutamente nuova. E una vita immersa nella misericordia è un annuncio, come la vita di Maria, come quella dei due di Emmaus, come quella degli Undici. Come la nostra vita, trasformata nella fornace dell’amore di Cristo che sono le viscere di misericordia della Chiesa, è un Vangelo vivente; è Cristo stesso che appare, vivo, ad ogni uomo. Lo è naturalmente, in forza del suo amore più ostinato della nostra ostinazione, più duro della nostra durezza; lo è per l’evidenza della sua risurrezione che ci abbraccia mille volte, senza giudicarci, speranza incarnata nelle nostre vite risorte, primizie del Cielo. Capite? Gesù “rimprovera” sì gli apostoli, ma poi li invia ad annunciare il Vangelo!

Chi di noi farebbe lo stesso con suo figlio? E’ il mistero di un amore davvero più forte del dubbio, dei peccati, degli errori, e pur “correggendo” con la Verità, pur illuminando la realtà di ciascuno, non disprezza né rifiuta nessuno, anzi. L’amore che si dona e trasforma un debole e codardo in un apostolo. Questa è la Pasqua, l’antidoto al veleno della durezza di cuore, dell’incredulità e della disperazione. Tu, oggi, così come sei, raggiunto da Cristo risorto, perdonato e inondato della sua vita, proprio tu da oggi sarai un apostolo, un testimone, un martire di Cristo. E così tuo figlio perso nella droga, e qualunque altro uomo al quale appaia Cristo risorto attraverso l’annuncio della Chiesa. Che missione abbiamo, far risuscitare i traditori in una fedeltà sino alla morte, far passare i peccatori alla vita nuova. Coraggio allora perché laddove appare l’amore, appare Cristo risorto; e dove appare Cristo risorto si fa visibile, e afferrabile, la speranza, per tutti.