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don Andrea Vena – Commento al Vangelo di domenica 28 Aprile 2024

Domenica 28 Aprile 2024
Commento al brano del Vangelo di: Gv 15, 1-8

Domenica scorsa abbiamo soffermato la nostra attenzione su Gesù buon Pastore, comprendendo che Lui solo «è» il  bene della nostra vita e «fa» il bene della nostra vita. E proprio questo spiega perché oggi i testi della liturgia puntano  a farci capire che il discepolo di Gesù risorto è colui che «sta» in Gesù, che sta «con» e «in» Lui, come il tralcio alla vite.  Questo perché diversamente rischieremmo di condurre una nostra vita, di interpretare le cose con i nostri criteri,  sempre sospettosi di quanto c’è fuori dal recinto o fortino della nostra esperienza, come abbiamo visto ieri e viene  testimoniato oggi nella prima lettura che la liturgia ha scelto in questa quinta domenica. Di fronte all’apparire di Paolo  di Tarso, sono subito sorte paure e sospetti, ma per fortuna il Signore fa sorgere al momento giusto la persona giusta,  Barnaba!  

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Gv 15,1-8 | don Andrea Vena 57 kb 24 downloads

V domenica di Pasqua, anno B At 9,26-31 sal 22 1Gv 3,18-24 Gv 15,1-8 a cura di…

v. 1: “Io sono la vite e il Padre mio è l’agricoltore”: Io-sono, ritorna questa espressione che abbiamo incontrato nei  vangeli di queste domeniche e che rimanda alla rivelazione di Dio a Mosè (Es 3,14). Gesù rivendica a sé, qui come in  altri passi, il nome di Dio: “Io sono il pane della vita” (Gv 6,35); “Io sono la luce del mondo” (Gv 8,12); “Io sono la porta  delle pecore” (Gv 10,7); “Io sono la resurrezione e la vita” (Gv 11,25); “Io sono la via, la verità e la vita” (Gv 14,6); “Io sono  la vite” (Gv 15,5). Gesù è dunque “Colui che è”, Colui che cammina sempre con te, che non ti lascia; è l’Emmanuele, il  Dio-con-noi (Is 7,14, Natale), fino alla fine dei giorni ( (Mt 28,20). Un insistere per aiutare a capire che il Signore Gesù,  il crocifisso e risorto, è veramente Dio. Domenica scorsa, “Io-sono il buon pastore”, oggi “La vite”. Già nell’Antico  Testamento “La vigna” è il simbolo del popolo: “Canterò per il mio diletto il mio cantico d’amore per la sua vigna…” (Is  5,1ss). Il profeta Isaia segnala che di fronte all’impegno del vignaiolo nel prendersi cura della vigna, questa non ha  portato frutto, tanto da decidere di abbandonarla e renderla un deserto, concludendo: “Ebbene, la vigna del Signore  degli eserciti è la casa di Israele; gli abitanti di Giuda la sua piantagione preferita. Egli si aspettava giustizia…rettitudine…”  (v.7).  

“il Padre mio è l’agricoltore”:Colui che ha cura della vite è il Padre stesso che ha mandato il suo Figlio Gesù. Il profeta  Isaia dichiarava: “Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?” (v. 4). Ecco, una cosa il Padre non  aveva ancora fatto, mandare suo Figlio. Con l’Incarnazione questo è avvenuto a dimostrazione del Suo amore per la  vigna.  

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v. 2: “Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più  frutto”: attraverso l’immagine di Isaia, si comprende che Gesù è la vite, cioè il tronco solido, e i discepoli del Risorto  sono i tralci che devono dare frutti. “Non porta frutto”: significa non assolvere al compito che Dio ha dato a ciascuno:  “Siate fecondi e moltiplicatevi” (Gn 1,28); “Se il grano caduto in terra muore, produce molto frutto” (Gv 12,24): fin dalla  Creazione Dio chiede di “portare frutto”: “Non chi dice Signore Signore entrerà nel regno…ma chi fa la volontà del Padre  mio” (Mt 7,21); un “fare” che corrisponde a quello del Padre: “Sono disceso dal cielo non per fare la mia volontà, ma la  volontà di colui che mi ha mandato” (Gv 6,40): “Io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza” (Gv  10,10). 

“Lo taglia…lo pota”: comunque vada, il tralcio va “tagliato”: o per essere gettato perché im-produttivo, o “potato”  perché porti “più frutto”. È un’operazione che spetta al Vignaiolo, il Padre del cielo, nei modi e nei tempi che lui riterrà. Se la potatura è finalizzata a valorizzare la pianta affinché porti più frutto, il gettare nel fuoco è dovuto al fatto che  non si può far granché del tralcio, e Gesù, da figlio di un falegname, lo sa. Ecco perché si getta nel fuoco. In questo  modo viene indicata la sua inutilità.  

v. 3: “Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunziato”: una purezza/beatitudine che nasce dall’ascolto  della Parola (cfr Lc 11,27), che in bocca è come miele, ma appena inghiottita ne senti l’amarezza (cfr Ap 10,8ss), perché  la “Parola di Dio è viva, efficace, più tagliente di ogni spada a doppio taglio…” (Eb 4,12), e mette allo scoperto tutto  quello che non è secondo Dio. 

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v.4: “Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così  neanche voi se non rimanete in me”: Rimanete in me!” non solo un invito, ma un imperativo. Se Gesù è fedele alla sua promessa di rimanere sempre con noi – “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20) – non è detto che lo siano anche i discepoli: ed abbiamo visto Pietro, Tommaso, Giuda…anch’essi tralci! Non spetta al  singolo scegliere o meno di essere tralcio: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi” (15,16), ed è una scelta che  nasce da un amore preferenziale: “Egli ci amato per primo” (1Gv 4,19). Tutti siamo “tralci” per grazia di Dio, ma spetta  a ciascuno portare frutto, con l’aiuto di Dio.  

v. 5: “Io sono la vite voi i tralci. Chi rimane in me e io in lui, porta molto frutto”: “il rimanere in Lui” non è motivo di  prigionia, un togliere la libertà, ma permettere alla libertà di ciascuno di esprimersi al massimo nel “portare frutto”.  L’abbondanza sgorga da una vita “innestata” in Cristo a tal punto da poter esclamare: “Non sono più io che vivo, ma  Cristo vive in me” (Gal 2,20). 

v. 6: “Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca: poi lo raccolgono e lo gettano nel fuoco…”:  l’esistenza vale nella misura che c’è questo “innesto”, questa relazione, come Gesù ha dichiarato fin dall’inizio: “Li  chiamò perché stessero con lui, e anche per mandarli” (Mc 3,14-15). Scegliere di non restare con Lui e di rinunciare alla  “missione affidata”, porta a una vita senza frutto, come denunciava il profeta Ezechiele di fronte alle ossa  inaridite/secche: “La mano del Signore fu sopra di me…mi depose nella pianura che era piena di ossa…tutte inaridite. Mi  disse: “Figlio dell’uomo, potranno queste ossa rivivere?…Profetizza su queste ossa: “Ossa inaridite, udite la parola del  Signore. Così dice: Ecco io faccio entrare in voi lo spirito e rivivrete…Queste ossa sono tutta la casa d’Israele…Loro vanno  dicendo: la nostra speranza è svanita, noi siamo perduti…Tu profetizza…”Ecco io apro i vostri sepolcri…Farò entrare il  mio spirito e rivivrete…” (cap 37). 

v. 7: “Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto”: il Padre ha dato  il suo Figlio Gesù, ha già dimostrato cosa è capace di fare per quanti si affidano a Lui. Ora spetta alla libera  responsabilità di ciascuno entrare in una relazione d’amore: “Se vuoi, seguimi”(Mt 19,21).  v. 8: “Come il Padre ha amato me, anch’io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei  comandamenti, rimarrete nel mio amore…”: il Padre viene glorificato non a parole, ma se osserviamo i  comandamenti, se entriamo nella “grammatica” del suo amore: con Lui, con gli altri, con la natura stessa. Non basta  amare “con la lingua”, ricorda san Giovanni nella II lettura, ma “con i fatti e nella verità”. È importante questa  sottolineatura: non bastano i fatti, se questi non sono guidati dalla verità, e la verità è Gesù stesso: “Io sono la Verità”  (Gv 14,6). La misura e il modello dell’amore è Gesù non noi: a Lui, risponde il salmo, va data gloria e lode: “Loderanno  il Signore quanti lo cercano… …A lui solo si prostreranno”. “Rimanere in lui” è una opzione fondamentale, dalla quale  scaturisce il “fare” come Gesù: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amati” (Gv 15,12). Un “come” che è invito a  riconoscere ciò che già si possiede con la grazia del Battesimo: se il Signore chiede di fare “come Lui” è perché prima  ci ha attrezzati a farlo dandoci lo Spirito santo. In secondo luogo il testo fa capire che si ama con i fatti e con il cuore: l’amore è tale se diviene concreto, come a dire che “sia ama con la vita”.  

Il testo del vangelo, illuminato anche dagli altri testi che la liturgia propone in questa V domenica, ci aiuta a  comprendere che con il battesimo siamo rinati in Lui, ma ora siamo chiamati a crescere in Lui, proprio per superare le  nostre resistenze. In fondo noi restiamo “vasi di creta” (2Cor 4,7), sempre bisognosi del rinforzo della misericordia di  Dio. Stare con Lui significa fidarsi di Lui e affidarsi a Lui, convinti che “Senza di me non potete fare nulla”. Come a dire  che non posso/possiamo produrre frutti all’altezza delle attese dell’agricoltore, di Dio, se non abbiamo in noi la sua  linfa, la vita eterna: ed è quanto Gesù ci ha donato con la sua venuta e ci ha lasciato nei suoi sacramenti. Rifiutare di  “dimorare/diventare come Lui” equivale a privilegiare una vita autoreferenziale, che si accontenta di se stessa, che  rinuncia a essere feconda nell’abbondanza: una vita chiusa in se stessa non è vita, è prigioniera del recinto del proprio  “io” (cfr meditazione di ieri sul buon pastore e il recinto/fortino). Chi rimane in Lui, invece, vive in modo pieno la vita  stessa di Dio: si lascia animare dagli stessi sentimenti di Gesù, dal suo modo di sentire e pensare, dallo stesso sguardo  attento e compassionevole.  

Ecco perché il Padre o “taglia” o “pota”, perché Lui non resta indifferente di fronte alle scelte della nostra vita: arriva  comunque il momento in cui il grano viene distinto dalla zizzania (cfr Mt 13,24ss). Col “tagliare” elimina ciò che tende  a soffocare la vite ma anche il vigneto, ossia la Comunità, perché le mie/nostre azioni o omissioni hanno sempre un  riflesso sugli altri (cfr 1Cor 12,26: la Chiesa, corpo di Cristo) .

Col “potare”, invece, alleggerisce la pianta da ciò che ha di superfluo. Azione che suggerisce quanto l’azione del Padre  miri ad alleggerire la vita, a semplificarla, a renderla sempre più secondo il progetto originario.

E non fermiamoci di fronte alle nostre debolezze e fragilità: fanno parte della vita! Come ricorda san Giovanni nella II  lettura, se il cuore condanna, Dio è più grande del mio cuore e delle mie debolezze! Non sta qui il punto. L’attenzione va  data all’Amore di Dio non alle debolezze! La prima linfa che nutre la vita è la fraternità! Ricordate la prima meditazione  (II domenica): Tommaso non crede perché non era presente in Comunità!  

Per gentile concessione di don Andrea Vena. Canale YouTube.

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