Commento al Vengelo di domenica 9 giugno 2019 – CEI

Pentecoste

Lo Spirito che rinnova il creato

“Manda il tuo Spirito, Signore, a rinnovare la terra”: il ritornello del salmo responsoriale di Pentecoste allarga a dismisura la visuale espressa dalla lettura, di per sé già ampia: nell’esperienza dell’effusione improvvisa dello Spirito sulla primitiva comunità sono coinvolti “Giudei osservanti di ogni nazione sotto il cielo”, e quindi tendenzialmente già tutto il mondo abitato. Ma la risposta nella preghiera va ancora oltre: chiama in causa l’azione dello Spirito su tutta la creazione, su tutta la terra. Siamo invitati a contemplare con animo grato le “opere del Signore”, fatte «tutte con saggezza», in tutta la terra «piena delle creature» di Dio (cf. Sal 104/103). Nell’orizzonte della solennità di Pentecoste non sta solo Gerusalemme, né solo Israele, né soltanto i credenti di Israele di ogni nazione, e neppure soltanto tutti i popoli: celebriamo l’azione dello Spirito che rinnova “la faccia di tutta la terra”.

La creazione come lingua comune

Nei secoli il rapporto dell’uomo con la creazione è stato un potente fattore di unità e comunione per tutta l’umanità: la lingua comune, persa a Babele, si ritrovava almeno nelle grandi percezioni cosmiche. Giorno e notte, sole e luna, mare, vento, cibo, stagioni… tutti i popoli vivevano le stesse esperienze fondamentali, si confrontavano con le stesse realtà e difficoltà.

Oggi uno degli aspetti della perturbazione nei rapporti tra uomo e uomo e uomo e creato è proprio nell’eliminazione di questo sfondo comune. L’umanità si divide tra chi può riscaldarsi d’inverno e rinfrescarsi d’estate, con i mezzi della tecnologia, e chi non può; tra i popoli e i gruppi che hanno ampio accesso alle risorse (acqua potabile, aria, terreni edificabili) e quelli che ne sono privi. Nelle città e nelle nazioni si creano ambienti artificiali ideali, dotati di ogni confort, a cui corrispondono altrove ambienti degradati, inquinati, adatti solo a una vita stentata.

Lo Spirito della Pentecoste invita tutti a riscoprire la “lingua comune” della creazione, con le sue leggi e il suo equilibrio, che non può essere sfruttato dai pochi a scapito dei molti.

La creazione come fattore di diversità

Riascoltare la voce dello Spirito creatore, che annuncia “le grandi opere di Dio” (Atti 2,11) potrà significare anche riscoprire il valore delle differenze. Nei secoli il rapporto dell’umanità con la creazione è stato fonte di una grande varietà e differenziazione dei popoli e delle culture. È di moda il termine “biodiversità”: esso esprime la varietà sorprendente che le creature assumono in relazione al loro ambiente. Leggendo per intero il salmo 103 vediamo come una simile contemplazione possa facilmente diventare preghiera.

Nei nostri tempi l’azione dell’uomo tende ad appiattire e livellare la diversità degli ambienti naturali. dove era una foresta, con migliaia di specie animali e vegetali, si stabilisce una piantagione, una monocultura. Dove era una prateria, sorge la periferia di una città. Dove prima era la differenza, regnano livellamento e appiattimento: anche a livello umano. Sparisce la differenza delle culture, dei popoli, delle loro tradizioni, subentra una sorta di sub-cultura unica, in cui il guadagno e il consumo tendono ad essere i principali fattori di aggregazione e riferimento.

Lo Spirito della Pentecoste invita tutti a riscoprire la fecondità delle differenze, sia tornando a contemplare la varietà del creato, sia tornando a relazionarsi e dialogare con la diversità delle culture, valorizzate soprattutto nei loro aspetti spirituali ed autenticamente umani.

Figli e fratelli

Sembra che il discorso sulla creazione ci abbia fatto deviare dal nucleo proprio della Pentecoste: invece ci riporta esattamente al centro. Chi può guardare al Creato con occhi semplici e riconoscenti, con uno sguardo di fanciullo, che scopre la bontà di Dio, creatore e provvidente, può riconoscere facilmente la paternità di Dio, anch’essa dono dello Spirito. La lettera ai Romani, al capitolo 8, mostra come dallo Spirito proceda la preghiera inesprimibile: “Abbà, Padre!” (Rm 8,15). E se la leggiamo oltre i limiti della pericope liturgica, troviamo il quadro grandioso di “tutta insieme la creazione” che “geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi” (Rm 8,22).

Anche il brano evangelico insiste sulla profonda unione tra il discepolo, il Figlio e il Padre, realizzata nello Spirito: “il Padre mio lo amerà, e noi verremo a lui, e prenderemo dimora presso di lui (Gv 14,23)”. Non si tratta di un misticismo disincarnato: subito dopo si aggiunge “chi non mi ama, non osserva le mie parole” (Gv 14,24). L’amore si incarna in una esistenza profondamente unificata.

Lo Spirito di comunione non permette separazioni e fratture: se ci si riconosce come Figli di Dio, ci si riconosce fratelli, legati da un destino comune, inseriti nella medesima creazione, incamminati verso la stessa partecipazione alla gloria.

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