Commento al Vangelo di domenica 9 Settembre 2018 – don Marino Gobbin

L’AUTENTICA E VERA LIBERTÀ

“Perché a tutti i credenti in Cristo sia data la vera libertà e l’eredità eterna”. Sono i doni per cui nella colletta abbiamo pregato il Padre, con l’animo di figli che confidano in lui, dal quale abbiamo ricevuto i doni che trascendono ogni intelligenza: “Il Salvatore e lo Spirito Santo”.

Promessa di liberazione

Nella 1ª lettura il profeta si rivolge ai connazionali “smarriti di cuore”, lontani dalla patria nell’esilio di Babilonia, esortandoli al coraggio e alla fiducia in Dio, che non li ha dimenticati ed è vicino: “Egli viene a salvarci”. La salvezza è espressa con un linguaggio poetico, ricco di immagini tolte dalla vita dell’uomo: guarigione dei ciechi, dei sordi, degli zoppi, dei muti, e dalle vicende della natura, la siccità a cui succede abbondanza d’acqua. Il salmo responsoriale riprende il tema, cantando la felicità di Dio che regna sul suo popolo per proteggere e salvare quanti hanno maggiormente bisogno di aiuto: gli oppressi, gli affamati, i prigionieri, che egli viene a liberare, i ciechi, gli stranieri, gli orfani e le vedove.

Di tali promesse è pieno l’Antico Testamento; nel Nuovo Testamento esse trovano l’adempimento in Gesù, venuto “per annunziare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Lc 4,18-19).

Libertà per ascoltare

La “vera libertà” non può intendersi in senso puramente negativo: scuotere ogni giogo, non dipendere da niente e da nessuno. Gesù guarendo il sordomuto lo “libera” da un condizionamento grave e penoso, che gl’impediva di mettersi in comunicazione con gli altri ascoltando e parlando. Dicendo “si sciolse il nodo della sua lingua”, Marco esprime chiaramente un atto di liberazione. Dono grande in se stessa, questa liberazione, poiché i miracoli operati da Gesù sono “segni”, invitano a pensare a una liberazione di carattere spirituale offerta a quanti credono in Cristo. Una chiave per intendere questo significato spirituale ci è offerta dalla liturgia del battesimo, quando il sacerdote tocca con il pollice le orecchie e le labbra del battezzato dicendo: “Il Signore Gesù, che fece udire i sordi e parlare i muti, ti conceda di ascoltare presto la sua parola, e di professare la tua fede a lode e gloria di Dio Padre”.

Libertà per ascoltare la parola di Dio. Se è vero che l’annunzio del Vangelo è “parola di salvezza” (At 13,26), se gli apostoli, com’è costretta a gridare dietro Paolo e i suoi compagni la giovane schiava di Filippi che faceva l’indovina, “annunziano la via della salvezza” (At 16,16-17), è importante che coloro a cui perviene questo messaggio aprano le orecchie per ascoltarlo. Non c’è peggior sordo di chi non vuole udire. È il rimprovero che Dio rivolge al suo popolo per bocca del profeta: “Sordi, ascoltate; ciechi, volgete lo sguardo per vedere. Chi è cieco, se non il mio servo? Chi è sordo come colui al quale io mandavo araldi? Chi è cieco come il mio privilegiato? Chi è sordo come il servo del Signore? Hai visto molte cose, ma senza farvi attenzione, hai aperto gli orecchi, ma senza sentire” (Is 42,18-20). E ancora: “No, tu non le avevi mai udite né sapute né il tuo orecchio era già aperto da allora poiché io sapevo che sei davvero perfido e che ti si chiama sleale fin dal seno materno” (Is 48,8).

Quanti pretesti per non ascoltare la parola di Dio! Manca il tempo, la predica non m’interessa, è noiosa… O non sarà la nostra poca fede, l’incostanza, “la preoccupazione del mondo e l’inganno delle ricchezze” (Mt 13,22), che impediscono di ascoltare con frutto la parola di Dio? Preghiamo Gesù che ci imponga la mano, che ci porti in disparte dalla folla, dal tumulto delle cose che passano, che ci apra non solo gli orecchi ma il cuore, come a Lidia, la commerciante di porpora della città di Tiàtira, per aderire alle parole di chi ci reca il messaggio di salvezza (cf At 16,14).

Libertà per parlare

Parlare a Dio nella preghiera. Il saggio “di buon mattino rivolge il cuore al Signore, che lo ha creato, prega davanti all’Altissimo, apre la bocca alla preghiera, implora per i suoi peccati. Se questa è la volontà del Signore grande, sarà ricolmato di spirito di intelligenza, come pioggia effonderà parole di sapienza, nella preghiera renderà lode al Signore. Egli dirigerà il suo consiglio e la sua scienza, mediterà sui misteri di Dio” (Sir 39,5-7).

Fra tante parole che rivolgiamo agli uomini, alcune buone e utili, altre vane e peggio, quale spazio trova la parola rivolta a Dio nella preghiera? Non siamo troppo spesso dei “muti” che non sanno conversare con lui? Eppure egli è vicino, ci assicura Isaia, viene a salvarci. La sua presenza, la sua salvezza si farà sentire tanto più quanto più lo invocheremo, col senso di umiltà di chi si riconosce piccolo e peccatore, col senso di fiducia di chi si riconosce figlio di Dio. “Signore, apri le mie labbra e la mia bocca proclami la tua lode” (Sal 50,17). Con questa invocazione ha inizio la preghiera liturgica della giornata: solo se Dio ci apre le labbra siamo in grado di lodarlo e d’invocarlo come creatore e padre.

Gesù scioglie il nodo della nostra lingua perché possiamo parlare ai fratelli, com’egli aprì la bocca di Ezechiele e questi non seppe più tacere (cf Ez 33,22). Parlare per “annunziare il mistero di Cristo”, come Paolo che, in catene, chiedeva ai cristiani di Colosse di pregare “che possa davvero manifestarlo, parlandone come devo” (Col 4,3-4); perché “quando apro la bocca mi sia data una parola franca, per far conoscere il mistero del Vangelo, del quale sono ambasciatore in catene, e io possa annunziarlo con franchezza come è mio dovere” (Ef 6,19-20). Non solo ai vescovi, “araldi della fede… dottori autentici, cioè rivestiti dell’autorità di Cristo” (Lumen Gentium, 25), ai sacerdoti, i quali “hanno anzitutto il dovere di annunziare a tutti il Vangelo di Dio” (Presbyterorum ordinis, 4), ma a tutto “il popolo santo di Dio”, che “partecipa alla missione profetica di Cristo”, incombe l’obbligo di rendere “una viva testimonianza di fede e di carità” (Lumen Gentium, 12), di “professare pubblicamente la fede ricevuta da Dio mediante la Chiesa”, di “diffondere e difendere con la parola e con l’opera la fede come veri testimoni di Cristo” (Lumen Gentium, 11).

Libertà per la giustizia e per l’amore

Poco prima del tratto che si è letto oggi, s. Giacomo ci aveva esortati ad accogliere “con docilità la parola”, a metterla in pratica, fissando “lo sguardo sulla legge perfetta, la legge della libertà”, e restandole fedeli (1,21-25). In qual modo dobbiamo essere fedeli alla “legge della libertà”, è indicato concretamente con un esempio tolto da ciò che poteva accadere in qualche comunità. La tentazione dei “favoritismi personali” è sempre in agguato. Chi è ricco, è potente, ha influenza nei vari settori della vita sociale, è generalmente trattato con particolari attenzioni e riguardi; un po’ per quel senso di rispetto che provoca, in certi ambienti, il denaro il potere il prestigio; più ancora perché da lui si spera qualche aiuto, qualche appoggio che non può venire da un povero diavolo qualsiasi. Che questi sentimenti si esprimano, con i gesti indicati dall’apostolo, in un’adunanza liturgica, è particolarmente grave, è una controtestimonianza palese, è un’aperta contraddizione alla natura della Chiesa, che, “quantunque per compiere la sua missione abbia bisogno di mezzi umani, non è costituita per cercare la gloria della terra, bensì per far conoscere, anche col suo esempio, l’umiltà e l’abnegazione”, che “riconosce nei poveri e nei sofferenti l’immagine del suo fondatore povero e sofferente, si premura di sollevare l’indigenza, e in loro intende di servire a Cristo” (Lumen Gentium, 8).

Non è tollerabile che, dopo anni dalla fine del Concilio, certi matrimoni siano celebrati con un apparato fastoso, in chiese trasformate in saloni di dubbio gusto da “parvenus”, con sedie dorate, tappeti e fiori costosi, così che chi vi entra per caso è portato a pensare a un ricevimento mondano e resta allibito quando vede uscire il prete per la celebrazione del sacrificio eucaristico e del sacramento del matrimonio. Che cosa se n’è fatto di quel provvidenziale articolo 32 della Costituzione conciliare sulla sacra liturgia: “Nella liturgia, tranne la distinzione che deriva dall’ufficio liturgico e dall’ordine sacro, e tranne gli onori dovuti alle autorità civili a norma delle leggi liturgiche, non si faccia alcuna preferenza di persone private o di condizioni, sia nelle cerimonie sia nelle solennità esteriori”? I “favoritismi personali” che vengono da “giudizi perversi” debbono essere evitati sempre. Se ci sono preferenze da fare, queste debbono essere a favore dei poveri, di quelli che non contano.

Ai sacerdoti il Concilio ricorda: “Anche se sono tenuti a servire tutti, ai presbiteri sono affidati in modo speciale i poveri e i più deboli, ai quali lo stesso Signore volle dimostrarsi particolarmente unito, e la cui evangelizzazione è mostrata come segno dell’opera messianica” (Presbyterorum ordinis, 6). È legge che vale per tutti i cristiani, perché fondata sull’insegnamento e sull’esempio di Gesù. Siamo raccolti nell’“adunanza” eucaristica, nella quale si perpetua il sacrificio della croce, si celebra il memoriale della morte e risurrezione di Cristo, “sacramento di pietà, segno di unità, vincolo di carità” (Sacrosanctum Concilium, 47). Viviamo il nostro incontro, in questa assemblea eucaristica, in spirito di comunione fraterna, di sincera e generosa apertura verso tutti, in primo luogo verso i poveri, che il Signore ha scelto “nel mondo per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a quelli che lo amano”.

Fonte

Tratto da “Omelie per un anno 1 e 2 – Anno A” – a cura di M. Gobbin – LDC

ACQUISTA IL LIBRO SU

Acquista su Libreria del Santo Acquista su Amazon Acquista su Ibs

LEGGI IL BRANO DEL VANGELO

XXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

Puoi leggere (o vedere) altri commenti al Vangelo di domenica 9 Settembre 2018 anche qui.

Fa udire i sordi e fa parlare i muti.

Mc 7, 31-37
Dal Vangelo secondo Marco

31Di nuovo, uscito dalla regione di Tiro, passando per Sidone, venne verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli. 32Gli portarono un sordomuto e lo pregarono di imporgli la mano. 33Lo prese in disparte, lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua; 34guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e gli disse: «Effatà», cioè: «Apriti!». 35E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente. 36E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo proibiva, più essi lo proclamavano 37e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa: fa udire i sordi e fa parlare i muti!».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 09 – 15 Settembre 2018
  • Tempo Ordinario XXIII
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 3

Fonte: LaSacraBibbia.net

LEGGI ALTRI COMMENTI AL VANGELO

Read more

Local News