Commento al Vangelo di domenica 9 Giugno 2019 – Comunità Kairos

La Pentecoste è una delle celebrazioni più importanti per noi cristiani, invitati a professare la nostra fede nella presenza e nell’azione dello Spirito Santo e a invocarne l’effusione sul mondo intero.

La parola Pentecoste viene dal greco antico πεντηκοστή [ἡμέρα], pentecosté [hēméra], che significa “cinquantesimo [giorno]”. Presso gli Ebrei la festa della Pentecoste era inizialmente una festa agricola chiamata “festa della mietitura” (Es 23,16) o “festa dei primi frutti” (Nm 28,26). Si celebrava il cinquantesimo giorno dopo la Pasqua e indicava l’inizio della mietitura del grano.

In altri passi era detta anche “festa dello Shavuot, delle Settimane” (Es 34, 22; Dt 16,10; 2Cr 8,13), poiché cadeva sette settimane dopo la Pasqua. Più tardi su questa celebrazione originaria si innestò la memoria del dono delle Tavole della Legge fatto da Dio a Mosè sul monte Sinai. Nel rituale ebraico, a Pentecoste ci si asteneva da qualsiasi lavoro ed era previsto il pellegrinaggio degli uomini a Gerusalemme. Come per la Pasqua, un gran numero di Ebrei provenienti da tutte le parti del mondo raggiungevano Gerusalemme per partecipare alla festa.

Ed è in questo contesto che si colloca la prima Pentecoste cristiana in cui si celebra la discesa dello Spirito Santo che raduna nella Chiesa tutti i popoli secondo il celebre racconto lucano (At 2, 1-11) che apre la liturgia della Parola di questa domenica. Ma anche la seconda lettura tratta dalla Lettera ai Romani di Paolo (Rm 8, 8-17), esalta l’azione dello Spirito Santo, fonte di resurrezione in Cristo e di radicale trasformazione dell’uomo che, grazie a questo dono, può risorgere dalla schiavitù del male e divenire figlio di Dio.

La terza voce di questa domenica di Pentecoste è quella dell’evangelista Giovanni. La promessa del Signore “Non vi lascerò orfani: verrò da voi…perché io vivo e voi vivrete” (Gv14,18. 19b), è molto articolata nei discorsi di addio (cap. 13-17), in cui Gesù rassicura e conforta i discepoli sulle modalità della sua presenza, promettendo il dono dello Spirito Santo che porterà a destinazione l’opera salvifica da Lui iniziata. Questo dono sarà effuso nella prima apparizione del Risorto ai discepoli “Detto questo, soffiò e disse loro: Ricevete lo Spirito Santo” (Gv 20, 22), nella stessa modalità creatrice che si trova in Gn 2,7, per indicare l’animazione dell’uomo quando Dio gli infonde un alito vitale. Così come con quel soffio l’uomo si trasformò in un essere vivente, Gesù infonderà ai suoi discepoli il suo alito vitale, lo Spirito che completa la creazione dell’uomo secondo il disegno di salvezza di Dio inaugurando la nuova ed eterna alleanza preannunziata dal profeta Ezechiele: “ Vi darò un cuore nuovo, metterò dentro di voi uno spirito nuovo, toglierò da voi il cuore di pietra e vi darò un cuore di carne. Porrò il mio Spirito dentro di voi” (Ez 36, 26-27).

In più, il dono dello Spirito non si esaurisce, ma rimane “per sempre” nell’uomo. L’azione creatrice di Dio non è quindi limitata all’istante iniziale; egli è sempre in atto di creare. Applicato allo Spirito Santo, questo significa che egli è sempre colui che fa passare dal caos al cosmo, dal disordine all’ordine, dalla confusione all’armonia. Questo a tutti i livelli: nell’universo intero come in ogni singolo uomo.

Il testo mette quindi in luce l’agire interiore dello Spirito, a cui noi siamo chiamati a rispondere con l’apertura della nostra libertà. Infatti, lo Spirito, soggetto agente per eccellenza, non può nulla se l’uomo si chiude volutamente alla sua azione trasformante. Il Signore attende paziente una risposta alla sua domanda: “Mi ami tu?” , proponendo all’uomo di ogni tempo una relazione intensa e unica. Una prima condizione per l’azione dello Spirito è quindi rimanere nell’amore di Gesù, aderendo al suo invito accorato ”Rimanete nel mio amore” (Gv 15,9), consapevoli che l’amore che ci chiede non è un semplice sentimento vago ed emotivo, ma è pienezza di vita secondo la nuova legge da Lui promulgata.

Il banco di prova dell’amore per il Figlio di Dio è l’osservanza dei comandamenti o meglio nell’originale ebraico “le 10 parole”, che nella concezione biblica non vanno intesi come pratica esteriore di norme e precetti morali, ma indicazioni per un cammino, quello della salvezza, quello che porta al senso e alla pienezza della vita; ecco perché, “se” si ama il Signore, ci si troverà incamminati nella vita autentica. Lo Spirito quindi ci mette al riparo dalla frammentarietà delle nostre vite vissute nel frenetico avvicendarsi dei giorni e ci lega invece alla bellezza di un amore che si muove dall’io al tu per coprire spazi sempre più ampi.

Un’altra funzione dello Spirito è quella di vincere la solitudine del discepolo nel mondo secondo la promessa di Gesù: Il cristiano vive, infatti, nel mondo, ma non può essere del mondo (Gv 17,15s), deve perseverare in una linea alternativa rispetto alla logica mondana. E’ naturale che si senta solo; è comprensibile che senta il bisogno di una presenza che lo conforti. La solitudine, infatti, il sentirsi “diversi” rispetto alla maggioranza, è sorgente di paura. Lo Spirito è quindi sempre al nostro fianco come un avvocato difensore (Paraclito), competente e incaricato di suggerire cosa e come dire, di incoraggiare e stimolare nei momenti più difficili e, se necessario, di prendere egli stesso la parola per far valere meglio la giustizia. Lo Spirito sarà il difensore della Chiesa e dei fedeli contestati dal mondo, perseguitati dal male.

Ma ancora, procedendo nella lettura del brano, nell’interpretazione dell’evangelista Giovanni l’osservanza dei comandamenti è ridotta all’osservanza della Parola, cioè ad una proposta concreta e globale di vita da mettere in pratica. Giovanni non esita ad affermare che l’amore per Gesù si rivela nell’osservare la sua Parola, che abbraccia l’unità della rivelazione: “In principio era il Verbo (la Parola), e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Il Padre e il Figlio, poi, assicurano una presenza di assistenza e protezione attraverso il “dimorare” nel cuore dell’uomo in unione intima d’amore insieme allo Spirito. Così si realizza l’inabitazione della Trinità nella comunità cristiana e nei singoli membri del popolo di Dio.

In pratica vi è un amore continuo, circolare, che include anche noi come soggetti attivi. Non rispondere all’amore di Cristo vuol dire spezzare questa circolarità, fermare il flusso di acqua viva che sgorga continuamente dall’amore trinitario, ritornare ad avere sete di indefiniti orizzonti di senso: “Chiunque  beve di quest’acqua avrà di nuovo sete; ma chi berrà dell’acqua che io gli darò, non avrà più sete in eterno. Anzi, l’acqua che io gli darò diventerà in lui una sorgente d’acqua che zampilla per la vita eterna” (Gv 4, 13-14). Nella comunione con Dio occorre perseverare e progredire, senza correre il rischio – parole di Paolo – di “spegnere lo Spirito” (1Ts 5, 19), soprattutto quando le peripezie della vita comune possano minacciarci in tal senso. In una lettera pastorale il cardinale Martini commentava così l’azione dello Spirito Santo nella Chiesa: “Sotto l’azione dello Spirito la Chiesa vive di un’unità profondissima, frutto della partecipazione alla vita eterna di Dio, senza però che l’unità significhi massificazione, esprimendosi anzi in una varietà di volti, di carismi e di servizi che ha qualcosa di analogo alla varietà esistente fra le stesse Persone divine. Lo Spirito dunque unifica il diverso e diversifica l’unito, riconcilia il distinto e distingue nella comunione dei riconciliati. Vivere secondo lo Spirito richiede perciò la pi ena accoglienza della sua duplice azione: rifiuta lo Spirito tanto chi opera divisione, quanto chi volesse massificare e appiattire le diversità. Accoglie invece lo Spirito chi promuove e rispetta valorizzandola la diversità da lui suscitata, ma si adopera perché tutto concorra all’utilità comune e serva per l’edificazione dell’unico Corpo del Signore Gesù, che è la Chiesa della Trinità” (Carlo Maria Martini – Tre racconti dello Spirito – Lettera pastorale per verificarci sui doni del Consolatore. Anno Pastorale 1997-1998).

Infine lo Spirito Santo ha la funzione di illuminare l’esistenza del discepolo attraverso un insegnamento perfetto. Lo Spirito svolge un’azione didattica orientata verso la parola di Gesù; non porta una rivelazione personale diversa da quella del Cristo, perché svolge la missione di richiamare alla memoria dei discepoli la verità di Gesù, attraverso la sua azione interiore nel loro cuore e nella loro mente. Egli “insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che vi ho detto” (v. 26b). Infatti lo Spirito Santo è stato chiamato anche il Maestro interiore, colui che ci aiuta a comprendere e a ricordare. I discepoli ancora non capiscono, non è ancora giunto l’evento della resurrezione che cambierà le loro vite per sempre «Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?» (Lc 24, 32). Perché la parola di Dio va ruminata, rimeditata, riletta alla luce della resurrezione. Ricordare non è allora una nostalgica rievocazione degli avvenimenti del passato. Ricordare è rendere sempre vivo Gesù Cristo, perché la sua parola sia continuamente feconda e si trasformi in seme che germoglia. Ed è lo Spirito, testimone per eccellenza di Cristo (Gv 15,26), che rende udibile e amabile ai suoi l’insegnamento di Gesù verità (Gv 14,6).

L’accoglienza dello Spirito Santo è quindi imprescindibile dall’amore per Gesù e dall’ascolto- osservanza-custodia della sua Parola. Deciderci per il dono dello Spirito significa allora aprirci a una corrente d’amore che attraversa la vita, una vera risorsa di umanità. Il cuore del dono dello Spirito è questo: che noi possiamo scorgere vita e pienezza anche nel silenzio e nel vuoto, grazie al suo stare accanto alla nostra fragile libertà umana che in ogni momento potrà aprirsi o non aprirsi alla sua presenza fedele.

Annalisa Greco

Fonte: Comunità Kairos (Palermo)

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