Commento al Vangelo di domenica 22 Aprile 2018 – Comunità Monastica Ss. Trinità

Tra le similitudini presenti nel quarto vangelo e attraverso le quali ci viene rivelato il mistero di Cristo, certamente quella del pastore buono (alla lettera o kalòs, «quello bello») comunica una ricchezza di sfumature sorprendenti. È una immagine che si radica su di una lunga tradizione biblica e, nello stesso tempo, si muove all’interno di una contesto familiare, quotidiano, almeno per una società nomade come era quella ebraica. Collocata nel periodo pasquale (la quarta domenica è detta appunto del Buon Pastore), la pericope di Gv 10,1-18 ci offre una sintesi illuminante del mistero di morte e resurrezione di Cristo: Gesù è il pastore buono perché «dà la propria vita per le pecore» (10,11); lui «ha il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo» (10,18). Concludendo il suo scritto, l’autore della lettera agli Ebrei riprende questa immagine in prospettiva pasquale: «il Dio della pace, che ha ricondotto dai morti il Pastore grande delle pecore, in virtù del sangue di una alleanza eterna, il Signore nostro Gesù, vi renda perfetti in ogni bene» (Eb 13,20).

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Anzitutto, ciò che desta stupore nella modalità con cui Gesù si autopresenta attraverso l’immagine del pastore, è l’esclusività di questo ruolo: io sono (espressione che introduce altre immagini giovannee). Gesù è l’unico pastore veramente buono, anzi è il pastore, colui che annunciavano i profeti. Infatti nei testi di Is 40,11, Ez 34,1-18, Ger 23,1-4, il Pastore è il Dio provvidente che guida la storia umana, che è attento alle sorti dell’uomo per trarlo fuori da un regno di tenebre e condurlo in un luogo di luce e di pace (cfr. anche il Sal 23); è il Dio che guida il suo popolo, che non sopporta pastori che pascono se stessi, non si curano del gregge e lo disperdono; è il Dio che raduna con il suo braccio il gregge e che «porta gli agnellini sul petto e conduce dolcemente le pecore madri» (Is 40,11). Queste stupende immagini usate dai profeti per esprimere la grandezza e la tenerezza dell’amore di Dio, la conoscenza reciproca e la comunione di vita tra Dio e il suo popolo, trovano il loro compimento in colui che si definisce il pastore bello. Parlando davanti al sinedrio, Pietro, definendo Gesù la pietra d’angolo, potrà dire: «in nessun altro c’è salvezza; non vi è infatti, sotto il cielo, altro nome dato agli uomini nel quale è stabilito che noi siamo salvati» (At 4,12). Notiamo inoltre che l’aggettivo kalòs, «bello», esprime proprio la qualità di questo pastore, qualità che risponde pienamente alla sua funzione. E dove sta la bellezza di questo pastore? Dove sta la sua bontà? Potremmo dire, semplicemente, nel dono di sé. Giovanni sviluppa questa caratteristica del pastore attraverso varie sfumature e tutte mettono il pastore in relazione con le pecore: la comunione di vita e la conoscenza reciproca, il dono della vita, l’unità del gregge.

Anzitutto Gesù è il pastore che «dona la vita per le pecore» (10,11; alla lettera: pone la vita, la mette a repentaglio per qualcun altro). È questo l’impegno radicale del pastore buono, il gesto della sua dedizione incondizionata, potremmo quasi dire il livello dell’agape di Dio. «Gesù – come nota X. Léon-Dufour – non si aggrappa alla sua propria vita, egli non la riduce a una cosa posseduta, ma se ne espropria incessantemente. La morte non è soltanto di fronte a lui, essa è dentro, è familiare». Ed è un dono che è insieme libertà e obbedienza: «io la do da me stesso… questo comando l’ho ricevuto dal Padre mio» (10,18). Apparentemente paradossale, questo rapporto tra libertà e obbedienza esprime in profondità la perfetta unità di azione tra il Padre e il Figlio, la piena comunione (è la stessa prospettiva che domina l’intero racconto della passione, sino al «tutto è compiuto» pronunciato sulla croce).

Ma Gesù è il pastore che «conosce le sue pecore e le sue pecore conoscono lui» (10,14). Il dono di sé del pastore bello esprime e attua quella profonda relazione di conoscenza che esiste tra lui e le sue pecore. È una conoscenza di amore, personale, irrepetibile; essa permette di penetrare il mistero di ognuno (cfr. 10,3), di riconoscersi reciprocamente attraverso il timbro della voce (cfr. 10,4). Ma questa conoscenza ha un modello e una fonte: è la comunione di vita, quel rapporto di totale appartenenza tra Gesù e il Padre (cfr. 10,19).

E infine Gesù è il pastore buono perché il suo amore non è selettivo e discriminante. Anzi è senza confini: «ho altre pecore che non provengono da questo recinto; anche quelle io devo guidare» (10,16). Il gregge che il pastore buono guida non ha un numero chiuso: è aperto, in esso non ci sono distinzioni. Nel cuore di questo pastore buono abita un’unica preoccupazione: salvare ogni pecora, ricondurla all’unità dal luogo della dispersione. Il dono della vita di Gesù ha dunque come obbiettivo e risultato effettivo la raccolta nell’unità dei dispersi (cfr. Gv 11,52): «diventeranno un solo gregge e un solo pastore» (10,16).

Contemplando questa icona giovannea, viene quasi spontaneo reagire con le parole di 1Gv 3,1: «vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per esser chiamati figli di Dio e lo siamo realmente». Questa intima relazione tra il pastore bello – Gesù, il Figlio – e le pecore – noi, i discepoli – è la via che ci conduce nel cuore stesso di Dio: ci rende figli nel Figlio. Ora sta a noi seguire questo pastore buono, accorgersi, nei momenti di smarrimento, del suo sguardo pieno di compassione che ci raccoglie nell’unità; sta a noi imparare a riconoscere la sua voce, ascoltando ogni giorno la sua parola che chiama alla vita; sta a noi lasciarci docilmente condurre per il giusto cammino (cfr. Sal 23) lì dove è preparata una mensa, lì dove c’è il pane e il vino della condivisione. La sua voce chiama alla vita, cioè ci chiama a uscire da ogni luogo di morte. Colui che «ci guida per il giusto cammino» ci conduce fuori, cioè ci fa crescere, ci educa, ci apre orizzonti sempre nuovi; ci strappa a ogni situazione che rischia di chiuderci in noi stessi, in un luogo infecondo e sterile; ci porta al luogo della vita e di una vita data in abbondanza.

Fonte: Monastero Dumenza

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IV Domenica del Tempo di Pasqua

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Gv 10, 11-18
Dal Vangelo secondo Giovanni

11Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. 12Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; 13perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. 14Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, 15così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore. 16E ho altre pecore che non provengono da questo recinto: anche quelle io devo guidare. Ascolteranno la mia voce e diventeranno un solo gregge, un solo pastore. 17Per questo il Padre mi ama: perché io do la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. 18Nessuno me la toglie: io la do da me stesso. Ho il potere di darla e il potere di riprenderla di nuovo. Questo è il comando che ho ricevuto dal Padre mio».

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 22 – 28 Aprile 2018
  • Tempo di Pasqua IV
  • Colore Bianco
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 4

Fonte: LaSacraBibbia.net

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