Commento al Vangelo di domenica 17 Maggio 2020 – Paolo Curtaz

Il commento al Vangelo di domenica 17 maggio 2020 – Anno A, a cura di Paolo Curtaz. Qui di seguito il testo ed il video.

Fase due

Stiamo tornando ad una quasi normalità.

Almeno possiamo lasciare che il sole scaldi il nostro viso e camminare nei parchi o sulle colline che attorniano le nostre residenze. E abbiamo rivisto genitori e nonni dopo due mesi. E, spero, stiamo nuovamente guardando oltre, progettando anche se saranno tempi difficili.

Prove di ripartenza. Fatta con prudenza certo.

Il 4 maggio alle 7 un caro amico mi ha inviato la foto di un cappuccino da asporto che si era portato in ufficio. Piccole gioie per richiamarci a quante cose diamo per scontate, ogni giorno.

Accorgerci di quante cose inutili, preoccupazioni, ansie, abitudini, intasano il nostri cuori e la nostra mente.

Sono poche, invece, le cose essenziali. Forse lo stiamo capendo. Una, fra tutte.

Amare. Sapersi amati. Saper amare.

Giustappunto.

Link al video

Sappiti amato

Se mi amate.

Gesù ora parla di sé nell’ultimo grande discorso che, nel Vangelo di Giovanni, fa ai suoi discepoli.

È una sorta di testamento definitivo, di condivisione delle proprie emozioni. Gli apostoli sono straniti da quei discorsi di addio, ancora non sanno cosa sta per accadere. E in quelle parole, come dicevamo domenica scorsa, Gesù concentra tutta la sua travolgente passione, il suo amore, l’intensità della sua missione.

Se mi amate.

Quante volte usiamo questo termine con i nostri figli, con i nostri famigliari, con il nostro partner.

Se davvero mi vuoi bene dovresti…

Prove, ricatti, sotterfugi per mettere all’angolo chi dice di amarci.

Ha un volto negativo, questa affermazione.

Il volto del giudizio, dell’esame, della messa in discussione continua. Là dove siamo noi i giudici.

E un’ambiguità insormontabile: siamo noi a stabilire le condizioni che l’altro deve osservare per dimostrare il suo amore. Come se sapessimo cos’è l’amore. Sul serio.

Ma dai.

Amori folli

Diffido dell’uso massivo del termine amore.

Non solo perché, da buon montanaro, manifesto un certo pudore nell’esprimere emozioni e affetti. Ma molto di più perché dietro questo termine, ormai, abbiamo nascosto tutto e il contrario di tutto.

Come l’omicida che, disperato, afferma di avere ucciso la propria amata perché la amava troppo.

Amore e follia, sommo amore e sommo egoismo, quasi sempre coincidono.

Cosa intende dire Gesù, allora, quando dice se mi amate?

Il suo non è un ricatto. Non è un manipolatore. Non suscita sensi di colpa.

Se mi amate osservate i miei comandamenti.

Il principale comandamento, anzitutto: amatevi gli uni gli altri dell’amore con cui vi ho amati.

Possiamo amare se accogliamo il suo amore incondizionato.

Diventiamo capaci di amare di quell’amore che riceviamo. Non perché migliori o sensibili o buoni.

Perché amati. Perché impariamo alla scuola di chi ci ama senza condizioni.

Il “comandamento”, allora, perde tutta la sua tetra valenza giuridica, di obbligo, di legge, di comando.

E diventa la forma dell’amore. Il modo concreto che abbiamo di manifestare affetto per un’altra persona.

Se dico che ti amo e non ti vedo mai, chi mi può credere? Se dico che ti amo e ti lascio morire di fame o di solitudine, a che serve? Il comandamento, allora, diventa il modo pratico di declinare l’amore che ho per te.

E il comandamento di cui parla Gesù è quello appena consegnato durante l’ultima cena, che completa e sostituisce ogni altro comandamento.

Amatevi come io vi ho amati. Cioè: accogli il mio amore per essere capace di amare te stesso e gli altri.

Amare gli altri come lui ci ha amati. Come una vasca che si riempie d’acqua e deborda, irrigando tutto ciò che gli sta attorno. Portando vita.

Il paracleto, lo Spirito di verità

A volte, però, non siamo capaci di accogliere l’amore di Dio. ne siamo ostacolati perché ci rimproveriamo qualcosa, perché il mondo, che in Giovanni indica la parte oscura che ci abita, ci accusa, ci fa sentire in colpa, ci condanna, ci giudica.

E il mondo non è in grado di conoscere l’amore. Né Cristo. Né Dio.

Siamo pieni di sensi di colpa, sempre sottoposti a giudizio. E spesso, purtroppo, diciamo che è Dio a volerlo!

Gesù, allora ci invia lo Spirito paracleto.

Nel diritto giudaico non esisteva la figura dell’avvocato difensore. L’accusato poteva, a proprio discolpa, chiamare dei testimoni. Ma se, alla fine, questo non era sufficiente, una persona che godeva di stima pubblica poteva mettersi a fianco dell’accusato senza dire nulla. E la sua integrità suppliva a quella dell’accusato. Veniva chiamato in soccorso, da cui il termine paracleto.

Lo Spirito ci fa uscire dalla terribile logica del giudizio verso noi stessi e verso gli altri.

Ma perché ciò accada lo Spirito ci deve condurre verso la verità.

La verità di noi stessi, consapevoli dei nostri limiti ma, soprattutto, consapevoli del grande dono per gli altri che possiamo diventare. Che già siamo.

La verità che è Cristo, inquietudine del mondo.

Grande gioia

Se è davvero così, allora, la difficoltà, il limite diventano straordinaria opportunità, occasione di annuncio, ragione di conversione.

Ne sa qualcosa Filippo che, a causa della persecuzione che si è scatenata contro la primitiva comunità, è fuggito e si ritrova in Samaria, la terra abbandonata, la terra eretica, la sposa infedele che Gesù stesso ha cercato di sedurre e di riconquistare (Gv 4).

La fuga diventa luogo per l’annuncio e conversione di nuovi discepoli.

Ogni difficoltà diventa opportunità per andare all’essenziale, per purificare le nostre strutture e le nostre stanche abitudini.

Affinché, oggi come allora, ci sia una grande gioia in quella città. Quella che abitiamo.

Rendendo ragione

Dimorare nell’amore, non scoraggiarsi e approfondire la fede, come suggerisce Pietro.

Sempre pronti a rendere conto della speranza che è in noi. Perché amati, perché amanti. Perché (non sempre) amabili.

Superando i sensi colpa e il giudizio, attenti alla verità che per noi è una persona, il Cristo, possiamo con libertà dire Dio, dire di Dio.

 

Se mi amate.

Sì, ti amiamo, Signore.

È iniziata la fase due. Anche per la nostra fede.

Quella in cui, infine, impariamo ad amare.


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