Commento al Vangelo del 9 Giugno 2019 – p. Roberto Mela scj

Pentecoste: Lingue diverse, Maestro unico

Battesimo di sangue e fuoco

«Sono venuto a gettare fuoco sulla terra, e quanto vorrei che fosse già acceso. Ho un battesimo nel quale sarò battezzato, e come sono angosciato finché non sia compiuto» (Lc 12,50). La risposta di Gesù a Pietro ha trovato compimento. Il battesimo si è compiuto nell’immersione realizzata volontariamente da Gesù nel dolore e nella violenza del mondo.

Il bagno, però, in realtà è nel suo stesso sangue, sparso nella flagellazione e nella morte in croce. Il suo sangue, la sua vita donata, la sua pro-esistenza che era stata la cifra di tutta la sua vita sulla terra, intride il mantello del cavaliere chiamato Fedele e Veritiero (cf. Ap 19,11), il Verbo di Dio (cf. Ap 19,13). «Sul mantello e sul femore egli porta scritto un nome: Re dei re e Signore dei Signori» (Ap 19,16). Colui che cavalca un cavallo bianco (cf. Ap 19,11, appartenente cioè al mondo divino e della risurrezione) è intriso del suo stesso sangue, non di quello dei suoi nemici, le nazioni, che pur sconfigge con piena vittoria.

Il battesimo è compiuto, il fuoco sulla terra “è stato gettato” con l’incarnazione e il mistero pasquale di morte e risurrezione. Ora è il momento del fuoco definitivo, ecclesiale, il sigillo della Pasqua di Gesù: l’effusione dello Spirito.

“Compimento-insieme”

All’inizio della prima scena del libro degli Atti (At 1,15–8,3), incentrata su Gerusalemme e dedicata alla comunità con i dodici apostoli, viene narrata la morte di Giuda e la ricostituzione del gruppo dei Dodici (1,15-26), a cui segue il racconto della Pentecoste, il discorso di Pietro a Gerusalemme e il primo sommario (At 2,1-47). Il racconto dell’evento della Pentecoste – “cinquantesimo/pentecoste”, sottinteso “giorno” – è strutturato letterariamente in due scene: 1) Prima scena (2,1-4): La discesa dello Spirito (v. 1 Le circostanze; vv. 2-3 Come del vento e del fuoco; v. 4 Lo Spirito fa parlare); 2) Seconda scena (2,5-13): La constatazione del miracolo delle lingue (v. 5 Le circostanze; vv. 6-8 Stupore della folla; vv. 9-11 Un mondo riunito; 12-13 Reazioni).

«Mentre stavano compiendosi (symplērousthai) i giorni in cui sarebbe stato elevato in alto (tēs analēmpseōs autou), egli prese la ferma decisione di mettersi in cammino verso Gerusalemme» (Lc 9,51), aveva scandito solennemente Luca, indicando la svolta decisa impressa da Gesù alla sua vita pubblica con la decisione «pietrificante il volto» (kai autos to prosōpon estērisen) di dirigersi verso Gerusalemme, il luogo del dono totale di sé.

Ora i giorni del dono pasquale giungono a compimento (symplērousthai), “si-raccolgono-in-pienezza-insieme”. Un giorno “raccolto”, gravido di compimenti e di doni, un giorno “uno” (cf. Zc 14,7), un giorno che raccoglie in unità i semi sparsi del tempo, i semi delle vite piene e di quelle senza speranza. Un giorno di unità del creato, della storia, del cuore degli uomini.

Si “compie-insieme” il senso pieno primigenio della Festa delle Settimane (Šābu‘ôt). Si compie in continuità trasfigurata (Rossi De Gasperis) la Festa agricola del raccolto delle messi (cf. Lv 23,15-22), già riconfigurata dal giudaismo del tempo di Gesù nel suo significato storico di commemorazione del dono della Torah/Istruzione fatto da YHWH al Sinai (cf. Es 19ss). Niente viene “perso”, niente “sostituito”, tutto viene “inverato”, “compiuto”, “riportato al suo senso primigenio nella mente di YHWH/Il Padre.

Il dono del nutrimento per la vita umana e quello della Torah per il sostentamento della vita teologale sono ripresi, riassunti e inverati nel dono dello Spirito di Gesù risorto, lo Spirito del Figlio che rende figli. Non c’è solo una logica di promessa-compimento-superamento a reggere il rapporto fra Antico e Nuovo Testamento. Un dialogo fitto di andirivieni illumina le due fasi del cammino di YHWH/Il Padre con la storia del suo popolo.

“Si raccolgono/compiono in uno i giorni”, ma anche «tutti erano insieme nello stesso luogo (ēsan pantes homou epi to auto)»: i dodici apostoli (con Mattia che “era stato computato-insieme/sygkatepsisthē” agli Undici al posto di Giuda Iscariota), con ogni probabilità Maria la madre di Gesù e altre donne (cf. At 1,14), i “fratelli” di Gesù (At 1,15), le circa centoventi persone di cui si parla in At 1,15 nel racconto che prosegue letterariamente senza soluzione di continuità in 2,1 con la descrizione del giorno della Festa di Pentecoste.

Tutto (mistero pasquale, giorno di Pentecoste, comunità di Gerusalemme) è portato a “compimento-insieme” mentre tutti erano in continuità (ēsan) insieme (homou) nello stesso luogo (epi to auto). Tutto converge in unità, prima di esplodere in missionarietà testimoniale.

Come un violento colpo di vento, lingue come di fuoco

Luca visibilizza alla perfezione spazio-temporalmente, in una scena episodica e drammatica tipica del suo stile narrativo, un fatto e una verità “teologica” fondamentale nel cammino della Chiesa che deve portare la Parola ai confini della terra. Dal mondo di Dio, all’improvviso – senza preparazione meritoria umana, se non la “preghiera perseverante e concorde di tutti” i componenti della comunità (cf. At 1,14: houtoi pantes ēsan proskarterountes homothymadon tēi proseuchēi) – ci fu un rumore, come di un violento colpo di vento che “riempì/eplērōsen” tutta la casa dove “si trovavano seduti /ēsan kathēmenoi”.

«Lingue come di fuoco /glōssai hōsei pyros» apparvero loro, «che si suddividevano e (una) si posò/ekathisen su ciascuno di loro» (tr. Marguerat). Tuoni e lampi avvilupparono il dono della Torah al Sinai: «Il terzo giorno, sul far del mattino, vi furono tuoni e lampi, una nube densa sul monte e un suono fortissimo di corno: tutto il popolo che era nell’accampamento fu scosso da tremore» (Es 19,16). Nella Pentecoste di Gerusalemme, su ciascuno dei membri “seduti” della comunità, personalmente, viene a “sedersi/posarsi” una lingua “come di fuoco” proveniente dal mondo celeste, divino.

Tutti riempiti di Spirito Santo

Il vento è inarrestabile e riempie tutti gli spazi. Il fuoco accende, brucia, purifica, scalda e anch’esso è contenibile solo con difficoltà. Simboli potenti dell’opera dello Spirito, che tutto invade, riempie, purifica e accende di ardore per la missione testimoniale.

Il collegio dei Dodici è stato ricostituito, il popolo di Israele è ora nuovamente rappresentato nella completezza delle sue dodici tribù. Ora esso può ricevere la potenza infuocata del frutto maturo della pasqua di Gesù.

Il fuoco del suo Spirito di Figlio, morto e risorto “per tutti”, per amore indiscriminato, riempie, a partire dal suo costato, il popolo rinnovato di Israele, il popolo messianico. La comunità avverte chiaramente di essere riempita di potenza nuova, non autogenerata ma ricevuta in dono dall’alto, dal YHWH/Il Padre. Gente timorosa e vinta, raccolta insieme spaventata per farsi forza a vicenda, è ora riempita di un soffio potente che rianima, trasforma, infuoca.

Lingue diverse, un mondo unito

Lo Spirito “linguacciuto” purifica e infuoca le “lingue” dei discepoli, i Dodici e tutta la comunità riunita in un cuor solo. Non li infiamma per una glossolalia sgrammaticata, incomprensibile agli altri se non tradotta da un interprete (cf. 1Cor 15,1ss), ma per un annuncio chiaro, potente, convinto e comprensibile a tutti nella propria lingua e cultura.

Lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù venuto a portare il lieto annuncio ai poveri, a proclamare l’anno di grazia del Signore a tutti, specialmente ai poveri e agli oppressi (cf. Lc 4,18-19), rafforza potentemente la capacità linguistica della comunità primitiva, di modo che ogni popolo possa sentire l’annuncio sintetico, il kerygma, nella propria lingua e nella propria cultura.

Tre o quattro lingue sono sufficienti a riunire in una comunità linguistica coesa un mondo disperso ai quattro venti, da est a sud, da nord a ovest e a sud di nuovo. Culture diverse sentono nella propria lingua le grandi opere di Dio operate nella pasqua di Gesù. Il prodigio non è linguistico, ma teologico. Non è miracolo di locuzione, ma di comprensione.

I popoli erano stati dispersi con una prima benedizione da parte di YHWH già al momento della pretenziosa erezione della torre di Babele (Gen 11,1-11). L’imperialismo culturale idolatra, onnivoro e omologante, di Babilonia era stato disperso da YHWH in una provvidenziale diversità linguistica e culturale, rispettosa della diversità della genti. Certo questo avvenne con il risultato negativo di una incomprensione reciproca (cf. Gen 11,7).

Nella Pentecoste di Gerusalemme la benedizione si realizza ora in modo compiuto: diversità rispettosa delle culture e delle lingue e unità nel contenuto della grazia attuata in modo grandioso da Dio in Gesù (“megaleia tou theou”). Il miracolo non consiste nella molteplicità di linguaggi, ma nell’universalità di comprensione dell’unico kerygma. La sinfonia dell’annuncio tocca potentemente i cuori. Solo lo Spirito Santo può far sperimentare la decisività della pasqua di Gesù per la vita personale di ognuno e delle comunità come tali.

La missione testimoniale che ne nascerà non sarà propaganda pubblicitaria, marketing riuscito perché accorto, studiato e ben pianificato, ma trasmissione contagiosa di una vita trasformata dal kerygma fatto carne di vita.

A Pentecoste viene donata una Torah rinnovata, compiuta. I profeti avevano annunciato la Legge nel cuore (cf. Ger 31,31-34), lo Spirito di Dio dentro le persone (cf. Ez 36,27). La Torah viene ora sussunta e resa persona, il Figlio di Dio, Gesù morto e risorto presente nella comunità e nei cuori delle persone. La Torah rinnovata è ora Gesù morto e risorto presente nel suo Spirito di Figlio che rende figli. La Torah è “filtrata” dal cuore di Gesù e si presenta col volto rinnovato della vita filiale. Lo Spirito non soffia infuocato perché i discepoli osservino più scrupolosamente la Torah scritta e orale, ma perché vivano da figli.

La Pentecoste-“cinquantesimo (giorno)” è compiuta-insieme nel “giorno Uno”.

Unità sinfonica di cuori ardenti, dialoganti e testimoniali.

L’Anti-Babele è arrivata. È possibile vivere “da Dio”, insieme, nello stesso luogo.

Diversi, ma uniti.

Il giardino dell’Eden (cf. Gen 2,15).

Le opere più grandi

A metà del suo primo discorso di addio (Gv 13,31–14,31) Gesù getta uno sguardo a come la Chiesa potrà vivere il tempo successivo alla Pasqua che sta per celebrare nella sua persona.

Nella pericope che contiene la prima delle cinque parole di Gesù sul Paraclito (Gv 14,16-17.26; 15,26-27; 16,7-11.13-15) egli promette ai suoi che, in futuro, compiranno opere più grandi delle sue. Assicura che la loro preghiera sarà esaudita e parla dell’amore e del rispetto dei comandamenti. Pronuncia, infine, la prima parola sul Paraclito. Perché le opere più grandi siano compiute, occorrono l’amore e la preghiera. Lo Spirito che il Padre invierà renderà possibili le opere più grandi.

Perché le opere compiute dopo la Pasqua sono più grandi di quelle prima della Pasqua, cioè di quelle compiute da Gesù (vv. 12)? Si sono date varie risposte:

1) La Chiesa si espanderà nello spazio e nel tempo, con successi missionari;

2) La morte di Gesù introduce un salto qualitativo, perché essa consente alla rivelazione di raggiungere il suo significato autentico e definitivo;

3) Solo la venuta dello Spirito dà alla rivelazione cristologica una durata illimitata;

4) L’apporto che la vita e la morte di Gesù dona alla vita della Chiesa e del mondo si dispiega solo con la sua glorificazione. J. Zumstein afferma: «Il genio teologico dell’autore implicito consiste nell’aver colto con impareggiabile acume che solo la chiusura della rivelazione consentiva la manifestazione del suo senso più pieno. Che tale chiusura avvenuta con la croce sia peraltro l’istante della glorificazione e l’invio del Paraclito conferisce alla rivelazione ormai pienamente compiuta un significato escatologico».

Le opere più grandi non saranno una prestazione compiuta dai discepoli, ma il frutto della preghiera innalzata dai credenti ed esaudita dal Cristo Innalzato. Esse si realizzeranno, inoltre, perché verrà il Paraclito, chiesto da Gesù e inviato dal Padre. Oltre al Primo Paraclito, Gesù stesso, esiste “un altro/allos” Paraclito, strettamente collegato alla sua persona e che ne riprenderà le funzioni. La presenza divina manifestata nella persona di Gesù, Verbo incarnato, e legata allo spazio e al tempo, sarà seguita da una presenza divina non più legata a queste dimensioni; «… i limiti di una rivelazione cristologica legata al destino storico del Cristo incarnato vengono a cadere. Con la venuta dell’altro Paraclito, la rivelazione è ormai presente ovunque e per sempre» (J. Zumstein).

Lo Spirito di verità

Il “Paraclito” (paraklētos < parakaleō, “avvocato”, “consolatore”) è qui associato allo Spirito. Per i primi cristiani lo Spirito indicava il modo con il quale Dio incontra l’essere umano, il modo in cui agisce nei confronti delle sue creature e manifesta la sua realtà. Il Paraclito è lo «Spirito di verità». Della “verità” Gesù/Giovanni aveva già parlato al v. 6: essa indica il fatto che la realtà di Dio di cui lo Spirito è portatore è la rivelazione tale e quale è avvenuta ed è stata personificata in Gesù. Gesù si è rivelato agli uomini, lo Spirito Paraclito opera nei discepoli.

“Il mondo” – l’insieme degli uomini e delle forze ribelli nei confronti di Dio – non può ricevere il Paraclito perché chiuso a quel vedere e a quel conoscere che aprirebbero i suoi occhi alla realtà dello Spirito. I discepoli, invece, dal momento che hanno accolto la rivelazione portata da Gesù, sono in grado di riconoscere lo Spirito perché questi abita presso di loro. Lo Spirito è un dono che si fa conoscere a chi è aperto al suo agire. Egli dimora nei discepoli e sarà sempre con loro anche nel futuro.

La partenza di Gesù non deve inquietare i discepoli. Essa porta infatti al compimento della rivelazione, perché la croce permette di capirne il suo pieno significato. I discepoli faranno opere più grandi di quelle del tempo pre-pasquale in quanto testimoni attivi della rivelazione nella totalità del suo significato e portatori in forma compiuta della promessa e del giudizio escatologici.

La vita del discepolo-testimone dopo la Pasqua sarà caratterizzata dalla preghiera e dall’amore. Il tempo successivo alla Pasqua vedrà l’azione del Paraclito che rende presente l’Assente, non più limitata dal tempo e dallo spazio. Grazie allo Spirito, il discepolo non sarà mai solo o abbandonato, ma potrà godere con certezza della piena presenza attiva e solidale del suo Signore, Crocifisso e Innalzato, Glorioso.

Custodia e dimora

Verso la conclusione del suo primo discorso di addio (Gv 13,31–14,31), Gesù pronuncia la seconda frase riguardante il Paraclito (14,26).

Chi ama Gesù “custodirà/tērēsei” gelosamente la sua parola pronunciata nel tempo della sua presenza fra gli uomini come Verbo incarnato. È il tempo della rivelazione originaria e insuperabile che Gesù, l’Inviato, dona di se stesso, del volto e del cuore del Padre, insieme a quella della sua parola e della sua volontà.

La parola custodita con amore “attira” l’amore del Padre e del Figlio, apre un canale preferenziale di comunicazione fra il divino e l’umano. Il Padre e il Figlio verranno insieme e porranno la loro “dimora/monē” nel discepolo credente e amante, come se fosse un “tempio mobile, personalizzato”. L’insieme dei discepoli diventerà in tal modo un tempio di Dio dalle molte dimore (cf. Gv 14,2)…

Insegnerà e ricorderà

Gesù ha rivelato se stesso e il Padre con una parola di rivelazione espressa nel passato e che rimane presente per sempre nei suoi effetti (lelalēka, tempo perfetto greco). Ora Gesù parla della terza persona della ss. Trinità (per dirla nel nostro linguaggio teologico), di modo che tutte le Persone divine sono di fatto coinvolte nella rivelazione e nella permanenza continua della parola di Dio nel tempo e nello spazio.

Il Paraclito, lo Spirito che appartiene al campo della “santità” del Padre – un campo di esistenza e di qualità “totalmente altro” cioè da quello umano – sarà inviato (pempsei) dal Padre, come lo è stato Gesù, il Verbo incarnato (Gv 4,34; 5,23.24.30.37; 6,38.39.44; 7,16 ecc.). Sarà inviato “passando attraverso” la persona del Figlio («nel mio nome»), assumendone i contenuti della rivelazione da far ricordare e interpretare.

Il Maestro interiore

Nella seconda parola sul Paraclito, Gesù afferma infatti che il suo compito sarà quello di insegnare (didaskō) e di ricordare (hypomimnēiskō) tutte le cose dette da Gesù. Lo Spirito è visto come una persona viva e non come un entità astratta, neutra: ekeinos è pronome personale maschile; ci si sarebbe aspettati ekeino, il pronome personale neutro, corrispondente al sostantivo neutro “pneuma/Spirito”.

Il Paraclito, lo Spirito Santo, lo Spirito del Padre e del Figlio Inviato, opererà una memoria attualizzante delle parole di Gesù. Non rivelerà nulla di nuovo rispetto alla rivelazione compiuta da Gesù, ma farà rinvenire (hypo, “da sotto in su”) alla memoria (mimnēiskō) le sue parole rapportandole alla situazione concreta vissuta dai discepoli. Un’opera che è, insieme, un’azione didattico-ermeneutica e una commemorativa.

Tutto questo, secondo l’evangelista, non avverrà in un ambito individualistico, in un rapporto del discepolo con Gesù e la sua parola pensato esclusivamente in termini di rapporto ristretto a due. Esso si realizzerà tramite la predicazione della Chiesa giovannea, incentrata sul Quarto Vangelo. Sarà la comunità a far ricordare le parole di Gesù più necessarie e adatte a interpretare e a vivere al meglio le varie situazioni che i credenti si troveranno ad affrontare.

Lo Spirito non offrirà ricette preconfezionate, né ricorderà parole precise da vivere in modo letterale con una interpretazione fondamentalista dei testi. Egli suggerirà alla Chiesa e ai discepoli le linee direttrici fondamentali da seguire per rimanere in sintonia con l’insieme della rivelazione attuata da Gesù, senza snaturare il messaggio riguardante il Padre, il Figlio, lo Spirito, la bellezza della vita proposta al discepolo, il giudizio apportato da Gesù sulle realtà del “mondo”, l’autogiudizio che l’uomo opera già nel momento in cui accoglie o rigetta la rivelazione di Gesù.

Lo Spirito insegna e ricorda.

Lo Spirito anima la diversità delle voci.

Sorgente di unità nella diversità.

Anima della Chiesa, segreto della vita.

Commento a cura di padre Roberto Mela scj
Fonte del commento: Settimana News

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