Commento al Vangelo del 28 Marzo 2021 – P. Osorio Citora Afonso

Non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio

Paolo, nell’inno cristologico nella Lettera ai Filippesi, mette al centro, di un duplice movimento, la condizione divina di Gesù: Egli è figlio di Dio ed è uguale a Dio nella divinità perché partecipa della stessa divinità di Suo Padre. Nel movimento discensionale, Cristo Gesù, nonostante la grandezza divina che gli appartiene per natura, sceglie di scendere fino all’umiliazione della ‘morte di croce’. Così Egli partecipa alla realtà di sofferenza e di morte dell’umanità. “Egli non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso; assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini; apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce”. Nel secondo movimento, quello ascensionale, Cristo Gesù viene esaltato in modo sovreminente, cioè, viene intronizzato alla destra di Dio. Dio lo ha esaltato al di sopra di ogni possibilità “al Figlio, che per amore si è umiliato nella morte, il Padre conferisce una dignità incomparabile, il ‘Nome’ più eccelso, quello di ‘Signore’, proprio di Dio stesso”, come aveva detto Papa Benedetto XVI. Anzi Paolo dice che le ginocchia devono essere piegate davanti a Gesù, davanti a quell’uomo che si è abbassato così tanto. Tutti: in cielo, in terra, sottoterra, devono inginocchiarsi davanti Gesù, già il centurione, quasi in ginocchio, aveva detto: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!”.

Davvero quest’uomo era Figlio di Dio

Fin dall’inizio del Vangelo di Marco, Gesù, oltre ad essere Figlio di Maria, viene presentato come “il Figlio di Dio”: “Inizio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio”. Questo termine “Figlio di Dio”, oltre che in Mc 1,1, compare altre 4 volte. Due volte viene pronunciato dal demonio, il grande conoscitore di Gesù, che confessa anticipatamente la sua figliolanza divina per creare negli uomini un’immagine falsa del Figlio di Dio, quella del guaritore dei suoi malanni fisici o psichici e quella di colui che è mandato da Dio a tormentare l’uomo a causa della sua miserabile condizione (Mc 3,11; 5,7). Una volta il termine “Figlio di Dio” è pronunciato dal sommo sacerdote per accusare Gesù di bestemmia perché egli, che è uomo, pretende di essere il Figlio di Dio (Mc 14,61). Un’ultima volta è pronunciato dal centurione romano, un pagano che, stando di fronte al crocifisso, “vistolo spirare in quel modo, disse: Veramente quest’uomo era Figlio di Dio!”.

Nella Passione di Gesù, secondo il Vangelo di Marco, si vuole mostrare come Gesù come il Figlio di Dio accetta di realizzare il progetto del Padre, anche quando questo progetto passa attraverso un destino di croce. Marco vuole che i credenti, a cui si rivolge la catechesi, concludano nello stesso modo del centurione romano che assiste alla passione e morte di Gesù: “Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio” (Mc 15,39). Così si conferma la tesi di Marco, che fin dall’inizio del Vangelo (cfr. Mc 1,1), si propone di presentare: Gesù, il Messia, è il Figlio di Dio. Nei vari momenti e luoghi della Passione viene sottolineato questo suo essere figlio di Dio.

Nel Getsemani, Gesù si rivolge al Padre che non chiama “Padre” ma con una formula affettuosa e intima: “Abba’ (babbo), un modo infantile di chiamare il Padre, ma che anche gli adulti usano. Nei momenti normali, è difficile trovare delle persone che, rivolgendosi a Dio, lo chiamino Papà. Chiamandolo così, Gesù rivela la sua relazione unica con il Padre. San Paolo, invita anche noi a chiamare Dio “Abbà”, con la stessa tenerezza, la stessa confidenza di Gesù. Benché Gesù chieda al Papà di “allontanare il calice, la sofferenza, l’imminente morte, Egli mette un “però”: “Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu”. L’ultima parola non è l’«io» di Gesù, ma il «tu» del Padre: «Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu» (Mc 14,36). È quanto Gesù aveva insegnato a chiedere ai discepoli: «Sia fatta la tua volontà» (Mt 6,10). Quando Gesù poteva avere tante ragioni per annebbiare la sua fiducia nel Padre, dice invece ‘Abba’! Su questo punto Gesù è irremovibile: può capitare qualsiasi cosa, ma davanti al Padre è sempre suo Figlio. Anche sulla croce farà una domanda, ma al proprio Dio, dal quale non si stacca.

Nella lettura della passione di Gesù secondo il Vangelo di Marco, nuovamente appare il suo essere “figlio di Dio” quando si trova nel palazzo del sommo sacerdote, Gesù è condotto davanti al Sinedrio, mentre Pietro resta fuori. Nel processo Gesù viene interrogato ma egli tace fino a che il sommo sacerdote non gli rivolge la domanda esplicita: «Sei tu il Cristo, il Figlio di Dio benedetto?». Gesù non nasconde la sua vera identità, anzi, fa una rivelazione solenne: parlando di sè egli dice: “Io lo sono” E vedrete il Figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza e venire con le nubi del cielo». È una risposta disarmante. Il titolo “Io sono” è l’appellativo che Dio usa rivelandosi a Mosè: “Dio disse a Mosè: “io sono Colui che sono (Es 3,14-15)” e poi dirà “dirai agli israeliti: Io-Sono mi ha mandato a voi”. Gesù, nel momento del processo, non vuole nessun equivoco, anzi parla con parresia, con franchezza: “Io sono”. Adopera il nome di Dio per dire che non solo è figlio di Dio ma è Dio, che viene da Colui che si era rivelato “Io sono”. È impressionante che nel Vangelo di Marco, Gesù molte volte, quando viene svelata la sua missione e la sua identità, comandi il silenzio, il segreto, il non dire agli altri.    

L’ultima volta che viene chiamato Figlio di Dio, è nella professione di fede del centurione, davanti alla croce. Come diceva Carlo Maria Martini, “una strana professione se pensiamo che viene da parte di un uomo incaricato ufficialmente di condurre a morte il Signore! Eppure noi stessi, come quel soldato, siamo implicati nella morte e nel calvario di Gesù; noi stessi siamo protagonisti e non solo spettatori di questo evento. E, come il centurione, sentiamo di non avere le disposizioni adatte a comprendere ciò che sta accadendo”.

Il discepolo missionario, come afferma Papa Francesco, “non si sente orfano di Dio poiché siamo suoi figli. Quindi come figli dello stesso Padre buono e misericordioso possiamo guardarci come fratelli e le nostre differenze non fanno che moltiplicare la gioia. Mediante il Fratello universale, che è Gesù possiamo relazionarci agli altri in modo nuovo, non più come orfani, ma come figli dello stesso Padre buono e misericordioso. Guardarci come fratelli, e le nostre differenze accrescono la meraviglia di appartenere a quest’unica paternità e fraternità”.  


Per gentile concessione del sito consolata.org

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