Commento al Vangelo del 26 marzo 2017 – dal Sussidio Quaresima 2017 CEI

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1Sam 16,1b.4.6-7.10-13 Davide è consacrato con l’unzione re d’Israele.
Sal 22 Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla.
Ef 5,8-14 Risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà.
Canto al Vangelo (Gv 8,12) Io sono la luce del mondo, dice il Signore; chi segue me, avrà la luce della vita.
Gv 9,1-41 Andò, si lavò e tornò che ci vedeva.[/box]

Gv 9, 1-41, Angelo Casciello, Lezionario domenicale e festivo Anno A, Fondazione di religione Santi Francesco di Assisi e Caterina da Siena, Roma, 2007

Le logiche di Dio
L’origine del nome assegnato a questa domenica di Quaresima – Laetare – deriva dalle parole del profeta Isaia che la liturgia ha scelto come antifona d’ingresso: «Rallegrati, Gerusalemme, e voi tutti che l’amate riunitevi». Infatti, i testi biblici offerti per la meditazione sono luce che invita a uscire dalle tenebre della tristezza e della rassegnazione: «Svégliati, tu che dormi, risorgi dai morti e Cristo ti illuminerà» (Ef 5,14). Tuttavia, per accedere alla gioia di cui parlano i testi biblici scelti dalla liturgia, è necessario essere disposti a perdere i parametri umani per assumere quelli di Dio. La predilezione per Davide e la guarigione di un anonimo personaggio, cieco fin dalla nascita, sono eventi solo in apparenza eterogenei. In entrambi i casi, ci troviamo di fronte all’agire libero e sovrano di Dio, le cui scelte non possono mai essere vincolate da logiche apparentemente ragionevoli, se sono incompatibili con la logica dell’amore più grande.

Oltre l’apparenza
La prima lettura narra l’unzione di Davide come re d’Israele, dopo la fallimentare esperienza di Saul. Mentre il profeta Samuele è ancora turbato dalla vicenda del primo monarca di Israele, Dio interviene con un’improvvisa chiamata ad andare dai figli di Iesse, dai quali sorgerà il nuovo re capace di pascere il popolo. Nonostante la sua grande e provata esperienza, il profeta posa il suo sguardo sui figli che sembrano manifestare le migliori attitudini di forza e prestanza per poter assolvere al compito regale. Il Signore, con pazienza, conduce il suo profeta a rovesciare i parametri di valutazione: «Non guardare al suo aspetto né alla sua alta statura. Io l’ho scartato, perché non conta quel che vede l’uomo: infatti l’uomo vede l’apparenza, ma il Signore vede il cuore» (1Sam 16,7). Nel racconto gioca un ruolo importante il verbo «vedere» e il senso della vista. Dio fa compiere a Samuele un passaggio necessario dallo sguardo naturale sulle cose alla sapienza del cuore, che dischiude la prospettiva della storia di salvezza e della vita eterna.

Nel cuore
Davide, il re scelto da Dio, non corrisponde a canoni di forza o di bellezza secondo la logica umana, ma a un’attitudine più nascosta che secondo il cuore di Dio è ben più importante di qualsiasi altro attributo. Davide è scelto perché è «il più piccolo», eppure è l’unico che viene colto, anche dalla penna del narratore, nell’atteggiamento più necessario a esprimere una responsabile regalità verso il popolo. Davide, infatti, mentre Samuele si trova a casa di Iesse a selezionare i suoi figli, è nei campi «a pascolare il gregge» (1Sam 16,11). Non con la forza del guerriero, ma con la mitezza del pastore, Dio sceglie di riscattare la monarchia avviata – e subito infranta – in Israele. Samuele si trova a vivere quell’esortazione che, molto tempo più tardi, San Paolo rivolgerà ai Romani, invitandoli a comportarsi come figli della luce: «Cercate di capire ciò che è gradito al Signore» (Ef 5,10).

Chi?
«Un uomo cieco dalla nascita» (Gv 9,1) è la figura evangelica che assume il tema della luce, rilanciandolo come cifra antropologica con cui misurare la nostra reale conversione ai parametri di Dio. Passando accanto a questo personaggio, che se ne stava silenziosamente «seduto a chiedere l’elemosina» (9,8), i discepoli interrogano il Maestro circa la sua triste condizione: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco?» (9,2). La domanda rivela un modo di leggere la realtà sempre guidato dal principio di causa-effetto. Si tratta di una griglia di lettura legittima e ragionevole in molti ambiti dello scibile umano, ma incapace di farci cogliere il significato profondo di alcune porzioni di realtà, dolorose da riconoscere e dure da accettare. Potremmo ancora definirlo un certo modo di fissare la realtà delle cose badando più «al suo aspetto» e «alla sua alta statura» che al suo «cuore» (1Sam 16,7).

Perché!
Il Signore Gesù offre ai discepoli una risposta che li obbliga a modificare l’orientamento del loro modo di stare davanti alla realtà, passando dal «chi?» al «perché?»: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifestate le opere di Dio» (9,3). Questa è sempre la conversione più difficile da compiere, per poter accedere a un altro sguardo sulle cose secondo il cuore e la sapienza di Dio: smettere di inseguire il colpevole e osservare le cose a partire dalla possibilità di amore che – sempre – dischiudono. Gesù svela che i limiti dell’esperienza umana possono essere colti come vere e proprie occasioni affinché le «opere di Dio» si realizzino. Questa parola era una rivoluzione copernicana duemila anni fa, in una società che era abituata a giudicare la vita in base al criterio della giustizia retributiva: il giusto è benedetto e ricompensato da Dio per la sua condotta, mentre l’empio è maledetto e castigato. Ma lo è anche per la nostra società liquida e postmoderna, solo apparentemente affrancata da un simile modo di leggere le cose.

Inviato
Dopo aver indicato un rovesciamento di sguardo, Gesù rivela qual è il fine ultimo di ogni limite che può segnare il cammino dell’esistenza umana: «Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco e gli disse: “Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe”, che significa “Inviato”. Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva» (Gv 9,6-7). Attraverso la sua parola e il dono dello Spirito — ciò di cui vive continuamente la comunità cristiana — anche il «più piccolo» elemento di sofferenza può trasformarsi nella grande occasione di non restare confinati nel dolore e nella tristezza, ma diventare annunciatori della salvezza di Dio. Questa è la spiegazione migliore, più profonda e convincente del perché tante cose inspiegabili continuano a segnare la vita del mondo e la storia delle persone: affinché, nel loro incontro con la grazia di Cristo, diventino efficace testimonianza che Dio è amore.

Interrogarsi, credere, testimoniare
Agli occhi di Dio non esiste nessuno che, con la sua vita o con la sua morte, non sia chiamato a diventare annunciatore del suo regno. Tuttavia, nel racconto evangelico ci sono due gruppi di persone che mostrano come la nostra esperienza di fede possa chiudersi in se stessa e non portare il «frutto della luce» (Ef 5,9) che merita: i farisei, che si interrogano ma non credono, e i genitori del cieco, che credono ma non testimoniano. L’uomo cieco dalla nascita, al contrario, si interroga, crede e testimonia, sperimentando una meravigliosa trasformazione che lo rende, in tempi brevissimi, simile a Cristo: contestato e cacciato a causa della verità che la sua vita finalmente proclama: «L’uomo che si chiama Gesù» (9,11) è il «Signore» (9,38).

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