Commento al Vangelo del 17 Giugno 2018 – p. Raniero Cantalamessa

È venuta la mietitura

Ascoltiamo alcune parole di Gesù nel Vangelo odierno:
“Diceva: Il regno di Dio è come un uomo che getta il seme nella terra; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce; come, egli stesso non lo sa. Poiché la terra produce spontaneamente, prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga. Quando il frutto è pronto, subito si mette mano alla falce, perché è venuta la mietitura”.

Il ciclo del grano comporta tre fasi: la semina, la crescita e la mietitura. Tutte e tre queste fasi vengono evocate nella parabola che abbiamo ascoltato, per parlarci del regno di Dio. In una Domenica di Quaresima abbiamo commentato il Vangelo dove Gesù parla del chicco di grano che cade in terra e muore per portare frutto. In qualche modo ci siamo dunque già occupati una volta della semina e della crescita. Soffermiamoci sulla terza fase, la mietitura. Essa è anche quella che corrisponde alla stagione che stiamo vivendo. “Giugno, la falce in pugno”, dice il proverbio contadino.

Cosa rappresenta la mietitura sul piano spirituale, ce lo dice Gesù stesso, commentando la parabola del grano e della zizzania:
“La mietitura rappresenta la fine del mondo… Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente… Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro” (Matteo 13, 39-43).
La mietitura indica dunque l’atto conclusivo della storia, il giudizio finale. La liturgia di questa Domenica orienta la nostra riflessione proprio in questa direzione.

Nella seconda lettura infatti ci fa ascoltare un brano di san Paolo che dice:
“Tutti dobbiamo comparire davanti al tribunale di Cristo, ciascuno per ricevere la ricompensa delle opere compiute finché era nel corpo, sia in bene che in male”.
L’idea del giudizio finale suscita istintivamente in noi pensieri di timore, di angoscia, di severità. Il canto del Dies irae ha contribuito a creare questa associazione. “Dies irae, dies illa: giorno d’ira, sarà quel giorno… Che tremore ci sarà, quando il giudice apparirà, per vagliarci con rigore!”. Anche Michelangelo, nel suo famoso giudizio universale della Cappella Sistina, vede il giudizio in questa luce severa. Egli ha fissato il momento in cui Cristo dice ai reprobi: “Via da me maledetti!”. Guardandolo, si è impressionati molto più da quello che avviene in basso, nell’inferno, che in alto, tra i beati.

Ma tutto questo è molto parziale. La cosa più importante del giudizio non è il “Via da me, maledetti!”, ma il “Venite, benedetti!”. La verità del giudizio finale è fatta per incoraggiare, non per spaventare. “Allora i giusti risplenderanno come il sole nel regno del Padre loro”, ci ha detto Gesù. L’immagine stessa della mietitura, come quella affine della vendemmia, non suggerisce tristezza e paura, ma al contrario gioia, festa. Noi, in ogni caso, questa volta, seguiamo esclusivamente questa pista positiva. Chissà che non riusciamo a riconciliarci con questa verità della fede e anzi a farla splendere, come fiaccola, dentro di noi.

Un giorno san Francesco d’Assisi si trovava nella rocca di San Leo, tra la Romagna e le Marche. C’era in quel castello grande eccitazione per l’investitura di un nuovo cavaliere e tutto il paese era in festa. San Francesco voleva invitare la gente a pensare a un’altra festa. Allora, dicono i Fioretti, salì su un muricciolo e si mise a cantare con grande trasporto: “Tanto è il bene ch’io m’aspetto ch’ogni pena mi è diletto!”.

La speranza dunque. “Occhio non vide – diceva Pao¬lo ai primi cristiani –, orecchio non udì, né mai è salito al cuore dell’uomo quello che Dio tiene preparato per coloro che lo amano” (cfr. 1 Corinzi 2, 9). Diceva ancora: “Io ritengo che le sofferenze del momento presente non sono paragonabili alla gloria futura che dovrà essere rivelata in noi” (Romani 8, 18). La mietitura di cui parla Gesù è il momento in cui Dio “tergerà ogni lacrima dai loro occhi;
non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate” (Apocalisse 21, 4).
Se avete avuto di recente qualche lutto in famiglia, è così che dovete pensare la persona cara: con Dio Padre che l’attendeva oltre la soglia per asciugarle dagli occhi l’ultima lacrima.

Il pittore che ha saputo esprimere meglio di tutti questo carattere gioioso dell’atto finale della storia umana è stato il Beato Angelico. Anche lui ha dipinto un famoso giudizio universale. Non mette i beati in alto e i dannati in basso, come Michelangelo, ma, seguendo il Vangelo, pone i dannati alla sinistra e gli eletti alla destra del giudice. Anche qui c’è il pericolo di fissarci solo su alcuni particolari impressionanti relativi ai dannati. Dovremmo guardare piuttosto a ciò che c’è alla destra del Giudice, in alto e da tutte le parti: danze, dolci abbracci, come di persone che si ritrovano in luogo sicuro, dopo aver superato un grande cataclisma e si avviano a una quieta dimora.

Quando si parla della felicità dei beati in paradiso, l’obiezione che si ascolta più spesso dalle persone, è questa: “Che faremo in cielo per tutta l’eternità? Contempleremo Dio a faccia a faccia, d’accordo, ma non ci annoieremo a fare questo in eterno?”. È normale che pensiamo così, perché noi viviamo tra le cose materiali e sappiamo per esperienza che nessuna cosa, nessuno spettacolo o avvenimento, nessuna creatura, per quanto bella e perfetta, è capace di ritenere senza fine la nostra attenzione e mantenere inalterato il piacere.

Ma nella vita eterna non sarà così. A chi si poneva, al suo tempo, la stessa domanda, sant’Agostino rispondeva: “Nessuno abbia timore di annoiarsi, nessuno creda che anche lì ci sarà noia. Forse ora ti annoi a stare bene? Ogni cosa in questa vita alla fine stanca; la salute però non stanca mai. Se la salute non ti stanca, ti stancherà l’immoralità?”.

Ci sono due desideri umani che, per natura, non si esauriscono mai: la conoscenza e l’amore. Noi ci possiamo stancare di una cosa che conosciamo, ma non di conoscere; ci possiamo stancare della persona che amiamo, ma non di amare. Quaggiù, quando ci stanchiamo di una cosa, ci rivolgiamo a un’altra, e poi a un’altra ancora. (Ci sono persone che di questo passo, collezionano nella vita un matrimonio dopo l’altro, ritrovandosi ogni volta più insoddisfatti e vuoti di prima). Ma supponiamo che ci sia un essere che racchiude in sé tutta la verità che c’è da conoscere e tutto l’amore che si può desiderare: non sarà, in questo caso, una felicità eterna, senza stanchezza alcuna? Questo “essere” esiste: è Dio. Nel momento della gioia più intensa e della vita più piena, chi non metterebbe la firma se gli venisse proposto di rendere eterno quell’istante? Avrebbe forse paura di annoiarsi? Il pensiero non lo sfiora nemmeno. La vita eterna è appunto questo. Un istante eterno!

C’è un canto spiritual negro che parla dell’ingresso dei santi in cielo. Il suo ritornello dice: “Quando in ciel, dei santi tuoi, la grande schiera arriverà, o Signor come vorrei che ci fosse un posto per me!”. L’essenziale è proprio tutto qui: far parte di quella schiera in festa che, nel dipinto del Beato Angelico, entra danzando in paradiso.

Qui si innesta l’appello che scaturisce dalla nostra riflessione, il proposito concreto da fare. “Finché abbiamo tempo, facciamo del bene a tutti” (cfr. Galati 6, 10). Si sa che le ultime settimane prima della mietitura o della vendemmia sono le più preziose per il grano e per l’uva. Ogni giornata di sole incide fortemente sulla qualità del grano e la gradazione del vino. Un giorno vale settimane. Lo stesso avviene nella vita umana, sul piano spirituale. Gli anni della maturità e della vecchiaia sono preziosi. Sono anni tutt’altro che “improduttivi”.

Quando ero piccolo ho udito una volta un apologo, cioè una specie di favola morale, che mi è rimasta sempre impressa. Ve la racconto perché può servire per incoraggiarvi a portare con più serenità i pesi della vita, sapendo che essi, non solo finiranno presto, ma ci preparano una eterna corona di gloria.

Due muli tornano dal mercato con il loro padrone. Uno è carico di due pesanti bisacce di sale e l’altro di due grossi sacchi di spugne. Quello carico di sale avanza penosamente, pieno di sudore, mentre l’altro, carico di leggere spugne, se ne va trotterellando allegramente e facendosi gioco del compagno affaticato. Arrivano a un fiume che bisogna passare a guado. I due muli entrano nell’acqua. Quello carico di spugne comincia a sentirsi sempre più gravato dalla sua soma. Le spugne si vanno riempiendo d’acqua, finché il malcapitato, sfinito, crolla sotto il suo peso. Quello carico di sale, a mano a mano che avanza nell’acqua, si sente più leggero, perché il sale si va sciogliendo, finché, con un ultimo balzo, si ritrova sull’altra sponda, libero e sollevato da ogni peso.

Il guado del fiume indica la stessa cosa che la mietitura nella parabola di Gesù: il momento della verità. Si capisce che cosa rappresenta il mulo carico di spugne (l’uomo che vive di vanità, che nella sua vita cerca solo il piacere e le comodità e scarica volentieri sugli altri tutti i pesi).

Ma, per una volta, lasciamo da parte, dicevo, l’esito negativo. Pensiamo invece al mulo carico di sale. Esso rappresenta quelli che prendono la vita seriamente, che non solo non scaricano sugli altri i loro pesi, ma cercano di aiutare anche gli altri a portare i propri. Verrà un giorno in cui tutti i loro pesi si scioglieranno, se ne ricorderanno come di acqua passata. Resterà invece il merito di averli sopportati.

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XI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

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Mc 4, 26-34
Dal Vangelo secondo Marco

26Diceva: «Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; 27dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa. 28Il terreno produce spontaneamente prima lo stelo, poi la spiga, poi il chicco pieno nella spiga; 29e quando il frutto è maturo, subito egli manda la falce, perché è arrivata la mietitura».
30Diceva: «A che cosa possiamo paragonare il regno di Dio o con quale parabola possiamo descriverlo? 31È come un granello di senape che, quando viene seminato sul terreno, è il più piccolo di tutti i semi che sono sul terreno; 32ma, quando viene seminato, cresce e diventa più grande di tutte le piante dell’orto e fa rami così grandi che gli uccelli del cielo possono fare il nido alla sua ombra».
33Con molte parabole dello stesso genere annunciava loro la Parola, come potevano intendere. 34Senza parabole non parlava loro ma, in privato, ai suoi discepoli spiegava ogni cosa.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 17 – 23 Giugno 2018
  • Tempo Ordinario XI
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 3

Fonte: LaSacraBibbia.net

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