Commento al Vangelo del 16 Settembre 2018 – p. Raniero Cantalamessa

La fede senza le opere è morta

Il Vangelo odierno riferisce la celebre domanda rivolta da Gesù ai discepoli a Cesarea di Filippo. Ma questa volta l’interesse della liturgia non si porta sulla dichiarazione di Pietro (“Tu sei il Cristo…”); si porta piuttosto sulla predizione della passione che segue la risposta degli apostoli:

“E cominciò a insegnar loro che il Figlio dell’uomo doveva molto soffrire, ed essere riprovato dagli anziani, dai sommi sacerdoti e dagli scribi, poi venire ucciso e, dopo tre giorni, risuscitare”.

A queste parole Pietro “si mise a rimproverarlo”, ma difficilmente avrà dimenticato per tutta la vita le parole che ricevette in risposta da Gesù (probabilmente fu lui stesso a riferirle all’evangelista Marco che scrive raccogliendo le sue memorie) : “Lungi da me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini”. A questo punto viene l’insegnamento per il quale tutto l’episodio sembra essere stato riferito:

“Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: Se qualcuno vuol venire dietro di me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del vangelo, la salverà”.

L’intenzione della liturgia di orientare in questo senso la lettura del Vangelo è evidente dalla scelta della prima lettura (il Servo di Dio che presenta il dorso ai flagellatori e la faccia agli sputi), ed è confermata dall’acclamazione al vangelo: “Di null’altro mi glorio, se non della croce di Cristo” (Galati 6,14).
Abbiamo avuto modo di riflettere in altre occasioni sull’uno e sull’altro tema –sull’atto di fede di Pietro e sul tema del prendere la croce- dedichiamo questa volta l’attenzione al tema importantissimo della fede e delle opere di cui ci parla san Giacomo nella seconda lettura:

“Che giova, fratelli miei, se uno dice di avere la fede ma non ha le opere? Forse che quella fede può salvarlo? Se un fratello o una sorella sono senza vestiti e sprovvisti del cibo quotidiano e uno di voi dice loro: Andatevene in pace, riscaldatevi e saziatevi, ma non date loro il necessario per il corpo, che giova? Così anche la fede: se non ha le opere, è morta in se stessa. Al contrario uno potrebbe dire: Tu hai la fede ed io ho le opere; mostrami la tua fede senza le opere, ed io con le mie opere ti mostrerò la mia fede”.

Si è pensato a volte che san Giacomo se la prenda, in questo testo, con san Paolo, per il quale “l’uomo non è giustificato dalle opere della legge ma soltanto per mezzo della fede in Gesù Cristo” (Galati 2, 16). Ma non è esatto. Forse qualche incauto discepolo, forzando la dottrina del maestro, aveva dato adito alla preoccupata reazione di Giacomo, ma l’Apostolo non è in contrasto con quello che dice la Lettera di Giacomo. Basta leggere il seguente testo della Lettera agli Efesini che, se non è scritta da lui, riflette in ogni caso il suo pensiero:

“Per questa grazia infatti siete salvi mediante la fede; e ciò non viene da voi, ma è dono di Dio; né viene dalle opere, perché nessuno possa vantarsene. Siamo infatti opera sua, creati in Cristo Gesù per le opere buone che Dio ha predisposto perché noi le praticassimo” (Efesini 2, 8-10).

Siamo noi l’opera di Dio; questa è la cosa essenziale; l’”opera buona” è quella che ha fatto Dio stesso in Cristo. Dio però non ci ha salvati in Cristo perché restassimo inerti e passivi o peggio nel peccato, ma perché fossimo in grado di compiere, a nostra volta, mediante la grazia e la fede, le opere buone che lui ha predisposto per noi, che sono le virtù cristiane e, in primo luogo (su questo Giacomo insiste), la carità verso il prossimo. Nella prima parte della Lettera ai Romani, Paolo insiste con forza sulla giustificazione mediante la fede (cfr. Romani 3, 21 ss.), ma nella seconda parte di essa elenca tutta una serie di buone opere (“opere delle luce” e “frutti dello Spirito” li chiama lui) che deve praticare colui che ha creduto: carità, servizio, obbedienza, purezza, umiltà (cfr. Romani 12-14).

Questa, della fede e delle buone opere, è un’altra di quelle sintesi che si vanno faticosamente ricostituendo tra i cristiani, dopo le secolari controversie tra cattolici e protestanti. L’accordo, a livello teologico, è ormai quasi completo. Si sa che non ci salviamo per le buone opere, ma non ci salviamo neppure senza le buone opere; che siamo giustificati per la fede, ma che è la fede stessa a spingerci alle opere, se non vogliamo somigliare a quel primo figlio della parabola che a parole dice subito “sì” al padre che gli chiede di andare a lavorare nei campi, ma che poi nei fatti non ci va (cfr. Matteo 21, 28 s.).

Tale sintesi deve ora passare dalla teologia alla vita concreta dei credenti. Dovendo cominciare da una parte, un grande filosofo, lui stesso luterano, S. Kierkegaard, consiglia di cominciare dalle opere e spiega il perché. “Il principio delle opere –scrive- è più semplice del principio della fede”. Raggiungere una posizione di autentica fede suppone un’interiorità e una purezza di spirito che è cosa assai ardua, tanto che in ogni generazione solo pochi sono capaci di essa, mentre è più facile cominciare con il fare qualcosa, anche se in modo non perfetto. È più facile credere se, rinnegando se stessi, si comincia a fare qualcosa. Facciamo il caso –dice quel filosofo- di un fannullone. Costui si fa avanti assicurando che nella “interiorità segreta” è pronto a sacrificare tutto, che sente nostalgia di cantare inni e digiunare nel silenzio di un chiostro, mentre nella vita quotidiana va a caccia solo del profitto e cerca il posto d’onore nelle assemblee. Bisogna apostrofarlo senza mezzi termini e dirgli: “No, caro amico, tu devi scusarci, ma noi vogliamo vedere gli atti”.

Oggi faremo altri esempi. Uno dice si sentire infinita compassione per i poveri bambini africani consumati dalla fame e dalle malattie, al punto che quando compaiono immagini di essi in televisione, è “costretto” a cambiare canale, non reggendo allo spettacolo di tanta sofferenza; però non fa altro e anzi vorrebbe che tutti quelli tra loro che sono arrivati da noi in Italia se ne tornino a casa. Non è esattamente quello che abbiamo sentito stigmatizzare da san Giacomo?

Ma che bisogno abbiamo di ricorrere all’autorità dell’apostolo quando abbiamo così chiara quella del Maestro? Gesù ci ha avvertito che nel giudizio finale non dirà: “Avevo fame e mi avete compatito, avevo freddo e mi avete compianto, ero in carcere e ve la siete presa contro il sistema carcerario…Dirà: Avevo fame e mi avete dato da mangiare, sete e mi avete dato da bere, ero carcerato e mi avete visitato, forestiero e mi avete ospitato.
Tuttavia non dobbiamo rompere di nuovo la sintesi, dimenticando Paolo per seguire Giacomo. I due vanno tenuti insieme. Concretamente, questo significa che dobbiamo, sì, fare le buone opere, ma dobbiamo farle nella fede. Come risposta a quello che Dio ha fatto per noi, in spirito di gratitudine, non per altri motivi, compreso quello di “guadagnarci” così il paradiso. Il paradiso non ce lo guadagniamo noi con le nostre opere, ma ce lo ha meritato Cristo con la sua morte.

Fare le buone opere nella fede significa non sentirsi bravi e superiori per avere fatto qualcosa di buono, ma tutto attribuire alla grazia di Dio. Sentirci noi debitori dei fratelli che aiutiamo; non pretendere la loro riconoscenza e non desistere dal fare il bene appena questa viene a mancare. Significa non lasciarci guidare, nella scelta di chi beneficare, da criteri umani di simpatia o antipatia, ma piuttosto dal bisogno.
San Giacomo non è un pelagiano ante litteram; non crede che noi possiamo fare il bene con le nostre forze. Per questo ci esorta a chiedere a Dio di renderci capaci di fare il bene:

“Se qualcuno di voi manca di sapienza, la domandi a Dio, che dona a tutti generosamente e senza rinfacciare, e gli sarà data. La domandi però con fede, senza esitare, perché chi esita somiglia all’onda del mare mossa e agitata dal vento” (Giacomo 1, 5-7).

LEGGI IL BRANO DEL VANGELO

XXIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B

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Tu sei il Cristo… Il Figlio dell’uomo deve molto soffrire.

Dal Vangelo secondo Marco
Mc 8, 27-35
 
27Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo, e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: «La gente, chi dice che io sia?». 28Ed essi gli risposero: «Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti». 29Ed egli domandava loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Pietro gli rispose: «Tu sei il Cristo». 30E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno.
31E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell’uomo doveva soffrire molto ed essere rifiutato dagli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, venire ucciso e, dopo tre giorni, risorgere. 32Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo. 33Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: «Va’ dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini».
34Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. 35Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà.

C: Parola del Signore.
A: Lode a Te o Cristo.

  • 16 – 22 Settembre 2018
  • Tempo Ordinario XXIV
  • Colore Verde
  • Lezionario: Ciclo B
  • Anno: II
  • Salterio: sett. 4

Fonte: LaSacraBibbia.net

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