Commento al Vangelo del 13 Maggio 2018 – Alessandra Colonna Romano della Comunità Kairos

Questi versetti, che concludono il vangelo di Marco, sono stati inseriti successivamente. Non presenti nei manoscritti antichi, ma ispirati alle parti conclusive degli altri vangeli, sono stati accettati dalla Chiesa perché riconosciuti quali versi contenenti la parola di Dio.

Il vangelo di Marco si concludeva al versetto 8 di questo capitolo con la scena del sepolcro ormai vuoto e l’apparizione di un uomo dalle bianche vesti che annuncia la resurrezione di Cristo e invita le donne a farsene portavoce. Le donne, prime destinatarie e proclamatrici, al tempo stesso, dell’annuncio, fuggono, prese da paura. L’evento è talmente sconvolgente che non può che destare un profondo timore. Lo stesso timore che coglie i discepoli alla presenza del Risorto e che viene registrato dai versetti postumi 9-14: [14] [Gesù] … apparve agli undici… e li rimproverò per la loro incredulità (apistía) e durezza di cuore” (sklerokardía).

Su questo quadro fatto di paura e di incredulità, la comunità cristiana elabora una riflessione sul senso profondo del messaggio di salvezza portato da Cristo e sul senso della sua missione. Un messaggio che chiama l’uomo a farsi egli stesso annunciatore della parola ricevuta. Al gruppo dei discepoli, riuniti a mensa, ma ancora incapaci di credere, malgrado la testimonianza di coloro che lo avevano visto risorto, Gesù ordina di andare per il mondo, di mettersi in cammino ad annunciare il vangelo (v.15).

È una comunità incerta, fragile, timorosa, a cui, tuttavia, Gesù affida la sua Parola. È giunto ora il momento in cui, non più presente fisicamente, Gesù necessita dell’opera del discepolo per raggiungere ogni uomo affinché, in questo respiro universale di salvezza, chiunque creda alla Parola, possa essere liberato e restituito alla Vita.

L’uomo diventa, così, opera di Dio sulla terra: la sua bocca, le sue mani, i suoi passi. Dio collaboratore attivo dell’uomo. La sua Parola salverà chi, in libertà, crederà; chi non crederà si autoescluderà dalla salvezza proposta da Dio. E chi crederà vedrà un cambiamento radicale nella propria vita. I prodigi elencati, quali segni che accompagnano la fede, sono da intendersi come effetto salvifico della Parola: una vita nella fede, alla sequela del Risorto, abbatterà il male che si annida nel cuore dell’uomo, eliminerà quelle separazioni interiori che impediscono un cuore unito, un cuore integro; renderà il fedele capace di parlare lingue nuove, consentendo, nella diversità, una comunicazione universale basata sul linguaggio di quell’amore che Cristo ha insegnato, che altro non è che amore incondizionato per l’uomo; chi crederà non si lascerà annientare dal male del mondo, ma lo affronterà non permettendo che questo lo avveleni; chi si porrà alla sequela di Cristo risanerà le sue ferite e sarà in grado di essere fonte di guarigione per il fratello, restituendolo alla sua integrità fisica e psichica.

Il male non sarà eliminato, ma colui che pone la sua fede in Cristo, potrà affrontarlo alla luce della speranza di salvezza.

Ma ciò avverrà solo se l’opera del discepolo sarà nel nome di Cristo. Dunque, nessuna autoreferenzialità della Chiesa, dei discepoli, ma una chiesa che si mette in cammino per il mondo e il cui scopo è quello di agire solo ed esclusivamente nel nome del Signore, mai al di fuori di questo nome. E il nome di Dio è «…. misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà (ES, 34,6). Gesù è “il mite e umile di cuore” (Mt, 11,29), che non è venuto a giudicare il mondo ma a salvare (“Se qualcuno ascolta le mie parole e non le osserva, io non lo condanno; perché non sono venuto per condannare il mondo, ma per salvare il mondo. (Gv, 12, 47); che non è venuto a imporre, ma ad abbracciare l’uomo.

Il discepolo è il viandante che proclama la buona novella, e una buona notizia non può coniugarsi con l’imposizione né, tanto meno, con la violenza, ma con la pace e la gioia.

Le lingue del mondo sono espressione delle culture che rendono il mondo ricco nella sua poliedrica diversità. Evangelizzare, allora, significa testimoniare Cristo con la vita; non fare proselitismo, non omologare, ma entrare in questa diversità, in questa ricchezza, per fare risplendere la lingua universale dell’amore, in continuo esodo verso l’altro. Consapevoli che ad accompagnare questo cammino possono esserci il dubbio e la fragilità ma che, nonostante ciò, il Signore ci vuole come suoi cooperanti.

Siamo allora chiamati ad essere veri discepoli, a percorrere la nostra vita facendo memoria di Cristo, ormai assunto in cielo alla destra del Padre, attraverso i nostri gesti concreti e le nostre parole. Pur dubbiosi o incerti, potremo gestire l’assenza, nella fede alla Parola del Signore, che continua ad operare e a cooperare con l’uomo, attraverso di noi.

L’Ascensione non è dunque abbandono di Dio, ma apre la nostra vita a quella dimensione di salvezza che va oltre ogni tempo e ogni luogo, laddove Gesù ci precede.

Alessandra Colonna Romano

Fonte: Comunità Kairos (Palermo)

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