Card. Gianfranco Ravasi – La vocazione sia un fuoco ardente

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Nel I sec. a.C. il poeta latino Cornelio Severo ammoniva che per compiere la propria vocazione nella vita «bisogna aprirsi la strada con difficoltà, a lungo e per pendii scoscesi». La scorsa settimana abbiamo portato in scena la chiamata del profeta Geremia, avvenuta forse in un giorno primaverile del 626 a.C. sotto un albero fiorito di mandorlo nel giardino di casa di suo padre, il sacerdote Chelkia. La storia di quella vocazione era stata simile alla strada che s’inerpica lungo picchi rocciosi, come diceva il poeta latino, in mezzo a vere e proprie bufere.

Infatti, quel giovane impacciato e timido era stato costretto ad annunciare a un popolo illuso e a un potere politico gretto e ostinato un destino tragico, che si sarebbe compiuto nel 586 a.C. con la distruzione di Gerusalemme e la deportazione degli Ebrei da parte dei Babilonesi trionfatori. Geremia era stato considerato, allora, la “Cassandra” della nazione, sbeffeggiato, umiliato, carcerato in una cisterna, emarginato. Sprofondato nell’abisso fisico e spirituale, egli aveva rasentato la disperazione e gridato a Dio la sua ribellione, maledicendo il giorno della sua nascita e della sua vocazione profetica, considerata un atto di “seduzione” da parte di Dio, non in senso amoroso ma come la circonvenzione di un incapace.

Ecco alcune battute di una delle sue varie “confessioni”, la più terribile e desolata: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso. Sono diventato oggetto di derisione ogni giorno; ognuno si beffa di me. Quando parlo, devo gridare, devo urlare: “Violenza! Oppressione!”. Così la parola del Signore è diventata per me causa di vergogna e di scherno tutto il giorno. Mi dicevo: “Non penserò più a lui, non parlerò più nel suo nome!”. Ma nel mio cuore c’era come un fuoco ardente, trattenuto nelle mie ossa; mi sforzavo di contenerlo, ma non potevo» (Geremia 20,7-9).

Forte è la rivolta di Geremia contro Dio e la sua chiamata, fino al punto di voler abbandonare la missione. Ma il paradosso è che egli si sente talmente irretito e conquistato da Dio da non essere più in grado di opporre resistenza. La vocazione a proclamare la parola divina è come un fuoco, una lava ardente che brucia le ossa, inarrestabile e invincibile. In Geremia si ritrova, quasi in filigrana, la vicenda di tante vocazioni, a partire da quella di un altro personaggio biblico tragico, Giobbe.

Eppure anche nel suo Getsemani più cupo, egli sente che è sempre vera, anche se misteriosa, la promessa del giorno della sua prima chiamata quando Dio gli aveva assicurato di “vigilare” su di lui, con quel gioco di parole ebraiche tra il “mandorlo”, shaqed, e il Dio “vegliante”, shoqed. E, così, egli sarà fedele fino alla fine e, quando ormai sarà tutto perduto perché la nazione sarà sconfitta e deportata, la terra di Giuda devastata e la speranza spenta, Geremia diventerà l’alfiere della rinascita.

Acquisterà un terreno dal cugino Canamel per indicare che è possibile una ricostruzione delle case, canterà il ritorno gioioso dall’esilio babilonese e soprattutto sarà l’araldo di una “nuova alleanza” tra Dio e il suo popolo: «Porrò la mia legge dentro di loro – dice il Signore – la scriverò nel loro cuore. Allora sarò il loro Dio ed essi saranno il mio popolo» (31,33). Parole che anche Gesù ricorderà l’ultima sera della sua vita terrena, quando sul calice del vino della cena pasquale dirà: «Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che è versato per voi» (Luca 22,20).

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