Comunità Kairos – Commento al Vangelo di domenica 11 Maggio2025

Domenica 11 Maggio 2025 - IV DOMENICA DI PASQUA - ANNO C
Commento al brano del Vangelo di: Gv 10,27-30

Data:

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Inseriti all’interno della pericope del “buon pastore”, questi versetti condensano gli elementi rivelativi dell’identità di Gesù e dell’identità dei credenti.

Nei versetti immediatamente precedenti i Giudei, facendosi intorno a Gesù, lo interrogano sulla sua reale identità: Fino a quando terrai l’animo nostro sospeso? Se tu sei il Cristo, dillo a noi apertamente (v. 24). Tale richiesta di rassicurazione, in realtà, cela una profonda diffidenza che si esprimerà poi in aperto conflitto fino a un vero e proprio attacco (I Giudei portarono di nuovo delle pietre per lapidarlo (v. 31) Cercavano allora di prenderlo di nuovo ma egli sfuggì dalle loro mani (v. 39)).

Lo scontro si gioca sull’identità di Gesù che non viene riconosciuto come il Cristo, malgrado siano i Giudei stessi testimoni delle sue opere e delle sue parole. Infatti, la relazione di intima conoscenza e condivisione con il Padre (Io e il Padre siamo una cosa sola – v. 30) viene letta come sacrilega; d’altronde, il suo rapporto di profonda conoscenza e custodia delle pecore del gregge si distanzia fortemente dall’interpretazione autoreferenziale agita invece dai “cattivi pastori”.

Gesù è il buon pastore, perché custodisce le sue pecore nel tempo della vita, in perfetta sintonia con il Padre, fino alla promessa escatologica. D’altro canto, le pecore del gregge si identificano in quanto tali perché capaci di riconoscere-ascoltare la voce del pastore e di mettersi alla sua sequela. Ascolto, conoscenza, sequela, sono dunque i termini che definiscono il rapporto profondo tra le pecore e il pastore; un rapporto sostenuto dall’amore e dalla custodia del pastore, ben sottolineato dal ripetersi degli aggettivi possessivi che indicano questo legame profondo che nasce dalla conoscenza profonda e intima che il pastore ha delle pecore e a cui esse rispondono affidandosi. La permeabilità all’ascolto della voce penetra, infatti, nel più profondo dell’essere e muove all’obbedienza, all’azione, al cammino-sequela.

Credere, allora, significa ascoltare la voce che chiama per nome; fare dunque riferimento non a se stessi, ma al Padre, la cui “voce” sostanzia, in parole e opere, la vita del credente che da questa trae energia liberante.

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Tale rapporto di fiducia-affidamento salda pertanto una relazione che, nel divenire del qui e ora, si apre alla vita eterna, promessa di dimora tra le mani del Figlio e del Padre: promessa solenne di custodia anche nelle inevitabili situazioni di attacco, di pericolo e di male. E qui l’evangelista ci offre una splendida immagine in cui assistiamo al gioco d’intreccio delle mani: la mano del Padre che si apre verso il Figlio si incontra con la mano aperta del Figlio che accoglie ciò che il Padre gli dona e che questi offre all’umanità intera, attraverso il dono della sua stessa vita: Il Padre ama il Figlio e gli ha dato in mano ogni cosa (Gv 3,35). Intreccio di mani fino al punto in cui le une si fondono nelle altre identificandosi completamente, diventando una mano sola.

È un rapporto di amore che si sostanzia nel dono del Padre e nell’offerta di sé attraverso il Figlio, per effondersi sull’umanità intera, riempita dell’esperienza del sentirsi amati. Attraverso l’immagine del pastore ci viene così rivelata l’identità di Gesù e l’essenza della sua missione che consiste nel ricondurre ciascun uomo alla relazione con il Padre.

Ecco allora la differenza con i cattivi pastori che non credono alle opere e ai gesti di Gesù, né alle sue parole, perché incapaci di scorgervi la forza liberante del messaggio del Padre misericordioso che fa festa per il figlio ritrovato, di colui che non vuole che nessuno si perda, ma va lì dove sono pubblicani e peccatori; di colui che rialza l’adultera e la rimette in cammino verso la vita, che non giudica l’uomo ma discerne tra ciò che è secondo Dio e ciò che non lo è.

Una funzione che si dica “pastorale”, allora, lungi dall’essere autoreferenziale, deve necessariamente rimandare alla relazione con Dio e alla relazione con l’uomo: è l’uomo, infatti, colui al quale Dio, nel Figlio, dona la sua vita, ed è l’uomo che Dio custodisce affinché nessuno lo possa rapire dalle sue mani. Cartina di tornasole della vera azione pastorale è dunque la capacità di ricondurre l’uomo ad una vita in pienezza, senza né guerre, né violenza, né sofferenza di alcun tipo, né, tanto meno, imposizioni o prevaricazioni.

Chiunque creda, o dica di credere, chiunque si erga a guida, si ponga sempre davanti all’immagine di vita e di misericordia con cui Gesù ci ha narrato il Padre, fino a dare la sua vita per noi.

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Alessandra

Per gentile confessione della Comunità Kairos.

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