Siamo stati abituati, fin da piccoli, che le cose importanti vadano meritate. Nel vangelo vige un’altra logica: «Tutto è pronto!; venite alle nozze». Tutto è già dato. È sufficiente goderne. Abbiamo, al v. 8, una frase tremenda: «gli invitati non erano degni». I tali che non accettarono l’invito per le nozze, è perché non sentendosi degni di entrarvi s’industriarono per diventarlo ‘un po’ di più’. Per Dio dunque cos’è che ci rende degni di partecipare alla comunione con lui? La nostra indegnità !
Chi si percepisce degno, adatto, pronto in base ad una propria ‘santità ’, integrità morale, alle nozze non potrà mai accedervi. La comunione con Dio (compresa quella eucaristica) è ad appannaggio degli indegni, dei fragili, dei peccatori, altrimenti diverrebbe premio per chi ce la fa. Ma l’amore è dono, non ricompensa.
Infatti alle nozzeentrano tutti quelli che stanno nei crocicchi delle strade (v. 9), i mendicanti, i disgraziati. Solo il mendicante può essere raggiunto, perché tende la mano per farsela riempire ed essere riportato a casa. Questo è l’atteggiamento veramente cristiano: nella propria situazione – per quanto drammatica possa essere – tendere la mano per ricevere in dono la vita.
Nel vangelo parallelo di Luca, ci si spinge oltre, affermando che il re manda il servo a cercare quelli che una certa mentalità ha sempre ritenuto perduti e lontani: «conduci qui i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi» (Lc 14, 21). Storpi, ciechi e zoppi erano per il santo Israele la triade ‘maledetta’ da Dio e pertanto esclusa dal Tempio e impossibilita alla comunione stessa con Dio.
Ora, con Gesù di Nazaret, son proprio loro, gli esclusi di sempre, i disgraziati, gli ultimi a essere i primi invitati alle nozze con Dio! «Gli ultimi saranno i primi» (Mt 20, 16).
A queste nozze, entrano tutti, indipendentemente che siano buoni o cattivi (v. 10). Per entrare in comunione con Dio non è questione di morale, di essere buoni o cattivi. La questione è accogliere l’invito, accettare di essere abbracciati dal suo amore.
Quando il re scorge il tale che entra nella sala con le proprie credenziali, con le proprie capacità , con un merito personale – simboleggiato qui dall’assenza dell’abito nuziale – viene espulso: «Legatelo mani e piedi e gettatelo nelle tenebre; là sarà pianto e stridore di denti» (v. 13). Infatti, in ultima analisi, l’abito cos’è? È il Figlio stesso. Rivestirsi dell’abito nuziale è rivestirsi di Cristo, che crea in noi l’uomo nuovo: «Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente e rivestire l’uomo nuovo, creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4, 24).
L’unico modo per poterci far rivestire di questo abito, che è il Cristo, è scoprirci semplicemente nudi, e quindi poveri e fragili. In una parola: veri. E insieme accettare di essere raggiunti.
AUTORE: don Paolo Squizzato
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