Lectio Divina di domenica 3 Marzo 2019 – Comunità di Pulsano

Lectio Divina di domenica 3 Marzo 2019 a cura della Comunità monastica di Pulsano.

DEL«TESORO DEL CUORE»

Tutti abbiamo toccato con mano quanto possa essere ambigua la parola umana. Mezzo privilegiato di comunicazione e di comunione, può svelare o coprire, offrire la verità o distillare menzogna. Di rado essa esprime autenticamente quello che abbiamo dentro, perché può andare dalla trasparenza del cristallo all’opacità del vetro smerigliato. «Parole, parole, parole!», esclama Amleto di fronte alla vacuità di certi discorsi. Chiamati a far risplendere la verità dell’evangelo, i discepoli del Cristo devono preoccuparsi prima di tutto della rettitudine del proprio animo, perché «la bocca parla dalla pienezza del cuore». È per mezzo della parola che insieme essi costruiscono la comunità in cui trovano reciproco sostegno. Se vogliono aiutare gli altri a vivere secondo l’evangelo, bisogna che l’abbiano sufficientemente assimilato per camminare sicuri alla sua luce, per purificare il proprio sguardo attraverso una chiara consapevolezza delle proprie carenze, per fare in modo che ai discorsi corrisponda la coerenza della vita. Allora soltanto, perché illuminato e sincero, l’impegno della loro carità produrrà frutti buoni, e farà trovar loro le parole, e soprattutto i gesti, che provocano la conversione personale e costruiscono la comunità dei credenti.

In un momento in cui sentiamo più che mai una diffidenza istintiva nei confronti delle dichiarazioni gratuite o della retorica che si compiace di se stessa è una fortuna per i cristiani che Gesù abbia lasciato molto più che una dottrina da conoscere, sopratutto una vita da imitare! O meglio, una parola da vivere nel cuore, dove il Cristo abita per mezzo della fede e dove si impegnano per lui il proprio amore e la propria libertà. Meglio una vita senza parole che una parola senza vita, un discorso vuoto ed astratto, anche se pronunciato sotto l’egida di qualche oremus.

Dall’eucologia:

Antifona d’Ingresso Sal 17,19-20

Il Signore è mio sostegno,

mi ha liberato e mi ha portato al largo,

è stato lui la mia salvezza perché mi vuole bene.

Questo Salmo della regalità, solenne e drammatico, è il canto della continua cura provvidente per il Re amato, posto come salvezza per il suo popolo.  Il salmista narra le vicende incerte e poi felici del Re messianico sostenuto dal suo Signore, e si apre con una sequela innica di titoli divini:

Io amo Te, Signore, Forza mia,

Signore, Rupe mia, Fortezza mia, Liberatore mio,

Dio mio, Rocca mia, in cui mi rifugio,

Scudo mio, Corno di salvezza mia, Asilo mio,

e degno di lode io proclamo il Signore,

e dai nemici miei sono salvato (vv 2-4).

L’Orante prosegue nel riconoscere che unico Protettore per lui fu il suo Signore (v. 19b); Egli lo trasse al largo dal pericolo (v. 37; 4,2; 30,9; 117,5; Pr 4,12; Giob 3 6,15-16), lo portò alla salvezza, poiché il suo Signore ebbe amore per lui (v. 20). Eccoci preparati ad ascoltare la proclamazione dell’Evangelo, la Parola di Dio.

 

Canto all’Evangelo Cf At 16,14b

Alleluia, alleluia.

Apri, Signore, il nostro cuore

e comprenderemo le parole del Figlio tuo.

 

Oppure: Fil 2,15d-16a

Splendete come astri nel mondo,

tenendo alta la parola della vita.

Alleluia.

La prima proposta è mutuata dalla narrazione di Atti 16 dove è Lidia di Tiatira e la comunità di Filippi ad attirare la nostra attenzione aiutandoci a comprendere la lunga corsa della Parola. Lidia è una donna un po’ speciale: in un mondo fatto solo di uomini, dove essere donna significava essere niente, lei, rompendo ogni schema, si presenta come un potente capofamiglia anche capo di un’impresa che trattava stoffe. Forse è proprio questo suo essere capace di andare oltre gli stereotipi tradizionali che le permette di ascoltare con intelligenza attiva la storia di Gesù. Come ogni gruppo di ebrei in diaspora, lei si incontrava con i suoi correligionari fuori città, vicino ad un fiume. In quei momenti di preghiera e memoriale in una sinagoga all’aperto, lei lascia che la parola di Gesù innervi di speranza i pensieri suoi e di quella comunità nomade. Quando Paolo arriva sono pronti ad accogliere la buona notizia. E non solo. Sono pronti anche ad abbandonare l’idea di sinagoga e iniziare una nuova esperienza ecclesiale. Il Signore ha aperto il cuore per questo Lidia poi mette la sua casa a disposizione. È la prima chiesa in Europa. Una donna che si fa battezzare inizia l’esperienza di fede e di comunità del nostro continente.

La seconda proposta è da Fil 2,15b-16a. Dopo l’«inno cristologico» (2,6-11), l’Apostolo formula una serie di esortazioni a questa sua comunità, diletta tra tutte. Le più dense, alla fine, sono anzitutto: quella di essere figli di Dio senza malizia in mezzo alla paganità perversa (v.l5a), verso la quale occorre risplendere come luci al mondo, come il sole (v. I5b, affinché gli uomini, aggiunge Matteo, vedano le opere buone e diano gloria al Padre, Mt 5,14-16); «luce nel Signore, procedere come figli della luce», dirà lo stesso Apostolo (Ef 5,8; Tit 2,10); «figli della luce» è anche la semantica della divinizzazione. Ma questo è possibile, ed è la seconda esortazione, solo se la Luce, che di Luce divina si tratta, scaturisce dall’interiorità dei fedeli, recettori e contenitori in pienezza della Parola della Vita, la Fonte di ogni Grazia (v. 16a), come l’esperienza della Chiesa primitiva dimostra con abbondanza (At 3,15; 5,20; 7,38; 11,18; 13,45). Il Signore stesso lo aveva insegnato (Gv 6,63.68).

Ancora il Signore battezzato dal Padre con lo Spirito Santo, che passa adempiendo il suo ministero messianico: l’annuncio dell’evangelo (profetico), le opere del Regno (regale), preparare gli uomini all’incontro col Padre (sacerdotale).

Con la sua terza parte si conclude adesso il «discorso della pianura» (Lc 6,17-49; mancherebbero i vv. 45-49!).

Il “comandamento” di 6,36, sintesi di tutto il discorso sulla misericordia, è l’unica strada “maestra” per la salvezza. Contro possibili e facili deviazioni, viene ora confermato con una serie di similitudini. Chi insegna diversamente è una guida cieca (v. 39), un falso maestro (v. 40); chi agisce diversamente, criticando il male altrui e non vedendo il proprio, è un ipocrita (vv. 41-42). Il comandamento dell’amore di misericordia, esposto dettagliatamente nei vv. 27-38, è l’unica via di salvezza perché ci fa diventare ciò che siamo: “figli dell’Altissimo”.

Chi abbassa il tiro, perché la ritiene troppo perfetta è un cieco che guida alla perdizione.  Chi ritiene di conoscerne una “più perfetta”, è un falso maestro che insegna cose tanto elevate quanto inutili.

Altre pretese vie di salvezza, che possono essere, oltre che religiose, psicologiche, economiche o politiche, in realtà non fanno che danneggiare l’uomo. La misericordia è il massimo bene perché è quell’amore che sa realisticamente conoscere e farsi carico del male.

La misericordia impedisce la stoltezza e la presunzione di criticare gli altri. La critica va esercitata solo verso se stessi, per conoscere il proprio male e la misericordia di cui si è indigenti. Così si entra in possesso del “tesoro buono” (v. 45). Il discepolo vive di questo tesoro, che è la cháris di Dio che ha sperimentato, e ne rende partecipi gli altri.  Solo il cuore convertito dalla e alla misericordia può salvare dal male. Se l’amore di Dio ha creato tutto dal nulla, la sua misericordia salva tutto dal male, peggio del nulla.

Nei vv. 43-49 si dice la pianta da cui germinano questi mali: il cuore dell’uomo, la cui bontà o cattiveria si conosce dai suoi frutti. La bontà o meno del frutto è il criterio per discernere della bontà o meno dell’albero. Questo viene detto perché si impari a giudicare e condannare non gli altri dalle loro opere, bensì se stessi, ed essere così disposti ad accettare l’assoluzione e il condono di Dio, in modo da fare ugualmente con gli altri.

La nostra cattiveria verso gli altri è la mancanza di misericordia: è il germoglio marcio del nostro albero cattivo. Il male fondamentale è l’occhio cieco che non vede il proprio male e non sente il bisogno della misericordia. L’occhio cieco esprime un cuore tenebroso, senza bontà. E questo cuore, come vede, così anche agisce male: ha una mano piena di frutti dal sapore di morte. C’è una stretta connessione tra occhio/cuore/mano: il principio dell’azione buona o cattiva è il cuore pieno o meno di misericordia; e il principio della misericordia nel nostro cuore è l’occhio, sua finestra, che ne riconosce il bisogno e ne accoglie la luce. Principio del bene è quindi il nostro occhio/cuore aperto sul nostro male e intenerito dalla misericordia ricevuta. Questa misericordia salva dal male e crea il bene.

Il cuore cattivo, invece, sente solo il male; lo sente male e germina il peggio, vittima parassita del male e suo moltiplicatore. Il problema serio del discepolo è riconoscersi come pianta cattiva dai frutti marci. Questa sincerità gli permette di non essere cieco sulla propria cecità (cf. Gv 9,41). Chi vede con sincerità se stesso, vede il proprio male e il bisogno che ha di misericordia. È l’unica condizione per la guarigione. Gesù, misericordia del Padre, opera il giudizio di far vedere i ciechi e rendere ciechi i vedenti (Gv 9,39). Davanti a lui l’uomo può scoprire il proprio peccato senza paura e senza vergogna, perché si vede perdonato. Il cieco, finalmente guarito, vede la propria miseria colmata dalla sua misericordia. Conosce se stesso come amato infinitamente da Dio e Dio come colui che infinitamente ama; conosce se stesso come peccatore e Dio come suo salvatore.

Questo brano ci richiama a “discernere” e a vivere con verità la nostra menzogna davanti a Dio, esponendo senza paura al suo occhio la nostra timorosa nudità. Dai nostri frutti di morte, possiamo riconoscerci facilmente come legno cattivo. Così siamo disposti ad accogliere il suo perdono e accettiamo l’innesto dell’unico legno buono: l’albero della misericordia del Padre, la croce del suo Figlio donato per noi. La conoscenza del mio peccato in questa luce mi rende finalmente solidale col Padre e con i fratelli.

Esaminiamo il brano

39: «Forse può un cieco, ecc.»: Cieco è colui che non ha la luce degli occhi. Ciò che Gesù ha appena detto sulla misericordia è il centro della parola di Dio e guida dell’uomo (cf. v. 36; Sal 119,105; 18,29; Pr 6,23). Chi è questo cieco che vuol fare da guida agli altri? Ai tempi di Gesù era il fariseo, che sperava la salvezza dalla propria conoscenza e osservanza perfetta della legge. Per Luca è il cristiano che giudica, condanna, non assolve e non dona. È uno che non ha sperimentato la grazia e pretende di guidare gli altri sulle vie della giustizia, in cui si ritiene esperto. Si può trattare di singoli ciechi che vogliono guidare la comunità, o della comunità stessa, che non illumina più il mondo cui è inviata, perché, invece di salvarlo, lo giudica: è luce diventata tenebre (11,35), sale insipido (14,34).

Caratteristica del cieco è non potersi muovere, pur avendo l’apparato locomotorio in ordine. La realtà gli si volge contro e gli fa male. Così chi non ha misericordia ignora il senso della vita e non sa orientarsi: vi si muove dentro alla cieca e vi sbatte contro facendosi male. Come la luce fu il principio della creazione, così la misericordia è il principio della ricreazione, talmente potente da riportare al bene addirittura ciò che è male.

La cecità fondamentale è non ritenersi bisognosi della misericordia del Padre.  Dice Giovanni: “Se foste ciechi non avreste alcun peccato, ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane” (Gv 9,41).  Cieco è il discepolo che non ha sperimentato la misericordia di Dio verso di lui in Gesù, descritta nei vv. 27-38 – Per questo il suo agire è senza misericordia e conduce alla perdizione sé e quanti entrano nel raggio di azione della sua cattiveria. I ciechi sono quindi “i giusti” secondo la legge. Sono come Paolo, “irreprensibile”, che deve convertirsi alla grazia di Gesù (Fil 3,3-14). Caduto a terra e divenuto cieco, avrà un segno visibile della sua cecità interiore e del suo bisogno di guida (At 9,8).

In realtà nessuno di noi può fare da guida a un altro: siamo tutti ciechi, sgraziati e cattivi. Alla salvezza ci guida solo il maestro della misericordia: egli è la verità, che è scesa tra noi e si è fatta nostra via per condurci alla vita. Ma a sua volta, come lo specchio riverbera il sole, così ciascuno di noi può essere luce per l’altro quando è colpito dal raggio di misericordia. Il discepolo che accoglie la benevolenza e la cháris di Dio in Gesù, è capace di testimoniarla “fino agli estremi confini della terra” (At 1,8).

40: «Non c’è discepolo sopra il maestro, ecc.»: Gesù ci ha insegnato cosa fare. Invece di seguire la sua parola e il suo esempio, per dimenticanza, stupidità e presunzione, il discepolo è tentato di seguire altre vie che pensa più perfette. Confuso dalle tenebre, crede di essere illuminato. Ma sa che come la luna non può avere più luce del sole, così lui non può saperne più del suo maestro. Per la comunità di Luca questa presunta luce maggiore forse consisteva in pretese rivelazioni personali o in conoscenze esoteriche che potevano offrirsi come alternative o completive e più perfette vie di salvezza. Anche oggi come allora, l’uomo è specialista nell’inventare vie di salvezza spirituali, psicologiche, economiche, politiche e sociali, magari facendo un fritto misto di tutto: il New Age c’è sempre, in ogni epoca!  Ma inutilmente, perché la salvezza altro non è che la misericordia del Padre nella “carne” di Gesù. È un fatto, non un’ideologia o un’illuminazione! Tutto il resto coadiuva alla salvezza o meno, quando porta o meno il sigillo di questa misericordia. La tentazione più forte dell’uomo, che necessariamente cerca salvezza, è quella di non fidarsi di Dio e di inventare vie nuove proprio perché è mosso da quest’antica sfiducia. La tentazione di “salvare se stesso” e di non accettare la salvezza come misericordia del Padre nella miseria reale, è il triplice ritornello ripetuto a Gesù in croce (23,35.37.39).

Discepolo illuminato è colui che sa ciò che l’unico maestro ha fatto e detto, e cerca di fare altrettanto. È colui al quale egli ha lavato i piedi, facendosi suo schiavo di misericordia. Conscio di questo, fa lo stesso ai fratelli (Gv 13,17), donando il dono ricevuto e riflettendo la luce che lo ha illuminato.

Questo versetto è un monito a conoscere bene il maestro, per essere un discepolo ben preparato, simile a lui.  Ascoltando la sua parola, diventa come lui, figlio dell’Altissimo.

Bisogna guardarsi bene dal fare aggiunte o interpretazioni all’evangelo, al di là o al di sopra di quanto Gesù ha rivelato. Pur con tutta la pretesa di intelligenza, è semplice arroganza da discepolo stolto e ingannato.

Il detto di Gesù: “Non c’è discepolo sopra il maestro” assume il suo significato pieno se si tiene presente che ai tempi di Gesù la scienza non era ricerca di cose nuove – in questo caso il discepolo scrive sempre una pagina in più del suo maestro! – ma trasmissione orale di cose antiche, conoscenza della tradizione che contiene la sapienza accumulata dai predecessori. In questo caso, ovviamente, nessuno conosce del passato più di quanto gli è stato trasmesso.  Questo si applica in modo particolare alla conoscenza di Dio, perché Gesù è proprio colui che ci ha rivelato il Padre che nessuno mai ha visto (Gv 1,18).

Quanti disperanti e disperati tentativi fa l’uomo nel cercare altre vie di salvezza! Sembra di vedere un naufrago in mare, che attende inutilmente scialuppe di salvataggio che non arrivano mai, mentre rifiuta gli elicotteri che gli sono stati mandati!

41.42a: «Pagliuzza / trave»: Anche senza pretendere di conoscere nulla di meno o nulla di più di quanto Gesù ha detto, c’è ancora un modo sottile di essere “falso maestro”: proprio ripetendo esattamente quanto lui ha detto, ma applicando il discorso agli altri invece che a se stessi! Invece che per giudicare se stessi (v. 42a), si usa la verità di misericordia per giudicare gli altri che ne mancano (v. 41). È un errore istintivo e comune a tutti. Il risultato immediato è quello di premere l’interruttore e spegnere la luce della misericordia. La salvezza subito si tramuta in condanna altrui da parte mia e quindi in condanna di me, che, proprio perché condanno, risulto senza misericordia! In questo modo la Parola che dovrebbe salvare, opera solo danni, perché, invece di lasciarmi convertire, l’ho usata come rappresaglia contro l’altro. La Bibbia è un libro che mi serve per battermi il petto, non per picchiarla in testa all’altro.

Le domande di Gesù, retoriche e perentorie, rivelano il ridicolo della pretesa.   Se io, “giustamente”, avendo ragione, giudico il fratello, il male di cui lo condanno, per quanto grave, è una “pagliuzza” rispetto al male che io faccio criticandolo e giudicandolo. Se critico e condanno, il mio cuore è senza misericordia: sono un albero cattivo e spinoso dai frutti velenosi e marci.

Il mio occhio deve sempre essere rivolto ai 10.000 talenti condonati a me, non ai 100 denari che l’altro mi deve (Mt 18,23ss). Se guardo il mio debito, non sono più cieco: vedo la misericordia usata verso di me. Questa luce è in grado di illuminare la piccola tenebra dell’altro. Ma se guardo il male dell’altro, giudico e condanno con lui anche me, perché “con la misura con la quale misurate sarà rimisurato a voi” (v. 38b; cf. Mt 7,2).  Così cadiamo, per colpa mia, tutti e due nella fossa. Io in quella del condannare e l’altro in quella dell’essere condannato. Quando giudico, sono responsabile, oltre che della mia, anche della perdita del fratello che non trova misericordia! Avviene come ai due debitori di Mt 18,23ss: ambedue finiscono in prigione per la mancanza di misericordia del fratello creditore. Il vero peccato non è tanto il male che si compie, quanto la mancanza di misericordia che ne impedisce il riscatto. Il mio giudizio senza misericordia di una colpa grave è sempre più grave della colpa stessa. Chi vede la pagliuzza altrui, ha una trave. E chi ha una trave nell’occhio è morto!

42b: «Ipocrita, ecc.»: Alla critica, in cui si usa la verità per trionfare sull’altro, si deve sostituire l’autocritica. Così ci si scopre, al pari degli altri, bisognosi di misericordia. Questa ci toglie la cecità e ci mette in grado di togliere la pagliuzza dall’occhio del fratello allo stesso modo in cui è stata tolta la nostra trave: infatti la misericordia guarisce il male altrui e salva dal proprio! Se agisco diversamente, non ho conosciuto Dio. Ho nell’occhio una “trave”, che mi impedisce di vedere; sono cieco, chiuso nelle tenebre di una presunta giustizia senza grazia. Sono “ipocrita”!  Con questa parola Gesù stigmatizza il grande peccato: quello di Adamo, che volle mettersi al posto di Dio, lo stesso del fariseo, che gli fa cercare la propria gloria e l’autosalvezza. “Ipocrisia” non significa “finzione”, bensì “protagonismo”. È il tentativo di cercare il primo posto in tutto e farsi centro di tutto: è mettere l’io al posto di Dio. L’ipocrita nel teatro greco era il protagonista che rispondeva al coro. Luca ci dà un’illustrazione “pura” di questo peccato nel fariseo che si ritiene giusto – e lo è! – e ringrazia Dio… disprezzando il peccatore (18,9ss). È un richiamo al discepolo perché, identificandosi col fariseo, si riconosca peccatore col pubblicano e, come lui, esca giustificato dalla misericordia di Dio.

Questo versetto proibisce la critica e la esclude come via alla correzione fraterna. È piuttosto lo zelo di donna Prassede nel romanzo del Manzoni “I promessi sposi”. Correggerò me stesso, invece dell’altro! L’unica correzione possibile dell’altro, in modo che non si indurisca nel male, è il mio occhio buono di perdono e di misericordia. Ma tutto questo viene dalla conoscenza del mio male e dall’accettazione che Dio mi offre. Se l’altro si sente assolto o graziato, può camminare. Diversamente si chiude nel male e io ne sono responsabile. Anche Matteo, prima di ogni correzione fraterna (Mt 18,15ss), pone l’accettazione incondizionata (parabola della pecora smarrita: Mt 18,12ss). Agire diversamente è essere guide cieche di altri ciechi che filtrano il moscerino e ingoiano il cammello (Mt 23,24).  Giudicare gli altri e giustificare se stessi è il grave peccato di cecità che impedisce di conoscere il proprio male e di conoscere Dio. Questa duplice conoscenza è data nella misericordia. Al discepolo è chiesto di estromettere la propria trave che lo rende cieco: non deve credersi giusto e non bisognoso di misericordia! Così è guarita in radice la pianta cattiva.  Allora è in grado di togliere il bruscolo dall’occhio del fratello.  Non con un’operazione oculistica complicata, bensì semplicemente con il suo occhio buono: vede buono e fa buono, comunicando un’esperienza di bontà.  L’altro è da me graziato come io sono stato graziato!  Il mio occhio verso l’altro è lo stesso di Dio verso di me!

43: «Infatti non c’è albero bello, ecc.»: Ciò che faccio scaturisce da ciò che sono, il frutto è della qualità dell’albero. Come il fico non si sforza di fare fichi non può fare altro! – così è inutile che mi sforzi di fare frutti buoni, se sono cattivo. Il problema è di che legno sono. Esiste infatti pianta e pianta: albero che fa morire e albero che fa vivere.

La menzogna del serpente fece mangiare dell’albero della potenza di Dio (Gen 3,6ss), che divenne per noi legno di morte. La Parola di verità, innalzata sulla croce, divenne per noi albero di vita, che guarisce da ogni male e dà sempre frutti buoni (Ap 22,1s). All’albero di morte si contrappone quello di vita. Ma, paradossalmente, unico è il legno, perché la croce è insieme il nostro peccato e la sua misericordia!

44: «Poiché ogni albero dal proprio frutto è conosciuto, ecc.»: Dalle mie azioni conosco di essere del legno della pianta antica, che dà frutti di morte. Chiaramente non faccio il frutto del “fico” (cf. 13,6-9). Per me la Parola è caduta tra le “spine” – preoccupazioni, ricchezza e piaceri (8,14) – che mi impediscono di vivere del suo dono. Non abito nella sua promessa e vivo piuttosto nella mia terra di alienazione, che produce spine e triboli (Gen 3,18!).  Sono ancora nel mondo della disobbedienza, nei suoi criteri e affanni. Dalle mie spine non crescerà il fico.

Ma neanche l’“uva”. L’uva e il vino rappresentano la pienezza del dono della terra promessa, l’atto consumato dell’abitare in essa con pace, laboriosità, abbondanza, amore e gioia. L’uva non può infatti venire dal “rovo”. Questa parola in Luca è sempre in riferimento a Mosè (20,37; At 7,30.35). Il roveto ardente (Es 3,2) fu il luogo della rivelazione di JHWH che culmina nella legge.  La salvezza definitiva non si può cogliere neanche dalla legge. Questa rivela le opere della carne e, invece di dare salvezza, dichiara la perdizione.

L’uva, la vita nella sua pienezza, si raccoglie solo e in abbondanza dal sangue di Cristo: esso è il dono totale della misericordia di Dio, “la nuova alleanza” (22,20), dove tutti possono riconoscere chi è il Signore (Ger 31,31-34).  Lui infatti è “la vite vera” (Gv 15,1ss): solo chi è unito a lui può portare frutto di vita e di gioia, perché “senza di me non potete fare nulla” (Gv 15,5).

I fichi e l’uva – i frutti di chi abita nella terra di Dio – sono i doni dello Spirito: non scaturiscono dalla nostra giustizia, ma dalla sua grazia per noi sgraziati e maturano sull’albero della sua misericordia, la croce di Gesù.

Vivere il comando del Signore dei vv. 27-38, cioè dare frutti buoni, sarà il risultato naturale di questo innesto.

45: «L’uomo buono dal buon tesoro del cuore, ecc.»: Il principio della bontà o meno non sta nelle cose, ma nel “cuore”. Se esso è stato “bonificato”, farà frutti di misericordia, e saprà volgere in bene il male. È infatti pieno della cháris di Dio in Cristo e vive di questo tesoro, che è il “buon tesoro del cuore”. Diversamente rimane un capitale di nequizia, accresciuto dalle azioni subite e moltiplicato da quelle fatte.

Il problema, anche qui, non è quello di fare frutti buoni invece che cattivi: il mio cuore non può che produrre rovi e spine. Il problema è quello di ricevere, in cambio di quello di pietra, un cuore di carne (Ez 36,26) in cui è scritta la sua legge di misericordia (Ger 31,33s).

“Poiché dall’abbondanza del cuore parla la sua bocca”.  Il primo frutto del cuore non sono le opere, ma le parole.  La bocca precede la mano e la parola l’opera, rendendola disumana, umana o divina.

La parola di misericordia deve entrarmi dall’orecchio nel cuore e sanarlo.  Allora avrò occhio buono e parola buona, e farò frutti di misericordia. La lingua è come il timone dell’uomo e ne guida tutti i rapporti; può far vivere o morire e ne uccide più della spada; con essa l’uomo comunica con l’altro e lo accoglie o erige un muro e si nega (Gc 3,1-4,12).

46-49 – In questa parabola si mostra come la salvezza dipenda dall’obbedienza alla parola di misericordia che Gesù ha dato nei vv. 27-38. È la rivelazione definitiva e completa di Dio: l’ascolto “fattivo” della sua parola è salvezza e vita, la disobbedienza ad essa è rovina (cf. Dt 30,15-20).

Quanto Gesù ha detto non è un consiglio. Chi lo ascolta e fa quanto ha ascoltato, si costruisce una casa dove può abitare stabilmente, senza pericoli; chi non gli obbedisce, si costruisce una casa che gli crolla addosso e lo seppellisce nella sua rovina. Nell’obbedienza alla parola di misericordia si gioca il senso definitivo della vita!

La salvezza non è solo il riconoscere Gesù come “il Signore”. È anche fare ciò che lui, il Signore, ha fatto e comandato: essere come lui, del quale siamo immagine e somiglianza.

Si sottolinea l’aspetto pratico della rivelazione: se la parola ci fa conoscere Dio, l’obbedienza ci trasforma in lui (cf. v. 36). L’uomo diventa la parola cui obbedisce.  Il volto di Dio in Gesù è indicativo del nostro vero volto; è quindi un imperativo per raggiungere la salvezza, che è il nostro volto vero di figli. Il discorso ai piedi del monte non solo propone qualcosa di giusto, ma difficile o impossibile per noi; non solo denuncia il nostro peccato e la necessità di essere salvati; non solo annuncia la mentalità nuova da avere; indica anche e soprattutto l’esigenza che scaturisce dal dono della vita nuova, radicata in Gesù: aderire a lui è essere uomini nuovi, che portano il “sapore” di lui in tutte le dimensioni della loro vita.

Luca richiama al lettore “Teofilo” ciò che già ha appreso nel battesimo: gliene mostra la solidità, perché in esso fondi, in modo sempre più cosciente, la costruzione della sua casa. Così non gli crollerà addosso! Il materiale della catechesi battesimale sulla misericordia, svolto nei vv. 27-38, viene dalla tradizione della chiesa primitiva. Se ne trovano tracce nella seconda parte di tutte le lettere di Paolo. È la rivelazione piena della volontà di Dio che Gesù ha annunciato e vissuto.

Il discorso di Gesù si apriva con la parola: “Beati” (v. 20) e termina ora con la parola: “Rovina”. Queste due parole fanno quasi un’inclusione di tutto il discorso di Gesù, che richiama l’inizio e la fine del salmo 1, riassuntivo di tutto l’insegnamento biblico sulla sapienza. Ora la vera sapienza è apparsa sulla terra e ha aperto la bocca: ascoltare e fare o meno la sua parola è questione di sapienza e salvezza (“beati”) o di empietà e perdizione (“rovina”).

 

II Colletta

La parola che risuona nella tua Chiesa, o Padre,

come fonte di saggezza e norma di vita,

ci aiuti a comprendere e ad amare i nostri fratelli,

perché non diventiamo giudici presuntuosi e cattivi,

ma operatori instancabili di bontà e di pace.

Per il nostro Signore Gesù Cristo…

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