Commento alle letture di domenica 30 Dicembre 2018 – don Jesús GARCÍA Manuel

Il commento alle letture di domenica 30 dicembre 2018 a cura di don Jesús GARCÍA Manuel.

Considerando la lunghezza del testo, consiglio di scaricare il file allegato in formato Word (fonte).

Al finir dell’anno Anna concepì e partorì un figlio e lo chiamò Samuèle, «perché – diceva – al Signore l’ho richiesto». Quando poi Elkanà andò con tutta la famiglia a offrire il sacrificio di ogni anno al Signore e a soddisfare il suo voto, Anna non andò, perché disse al marito: «Non verrò, finché il bambino non sia svezzato e io possa condurlo a vedere il volto del Signore; poi resterà là per sempre». Dopo averlo svezzato, lo portò con sé, con un giovenco di tre anni, un’efa di farina e un otre di vino, e lo introdusse nel tempio del Signore a Silo: era ancora un fanciullo. Immolato il giovenco, presentarono il fanciullo a Eli e lei disse: «Perdona, mio signore. Per la tua vita, mio signore, io sono quella donna che era stata qui presso di te a pregare il Signore. Per questo fanciullo ho pregato e il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda: per tutti i giorni della sua vita egli è richiesto per il Signore». E si prostrarono là davanti al Signore.

L’esperienza di Anna è quella di una maternità sofferta. La donna è sterile e viene nel santuario di Silo a chiedere a Dio la grazia di un figlio (1Sam 1,9-19). Il sacerdote che osserva il fervore della sua preghiera si sente autorizzato a darle una risposta rassicuratrice: «Va in pace e il Dio d’Israele ascolti la domanda che gli hai fatto» (1,17).

Secondo l’attesa nasce il bambino desiderato. Ma c’è ora da adempiere  l’impegno preso al momento della desolazione. «Io lo offrirò al Signore per tutti i giorni della sua vita», aveva detto nel dolore (1,11). Il piccolo Samuele è il figlio della promessa, come il suo stesso nome ricorda «Il Signore ha ascoltato».

Ora che il bambino è in qualche modo autosufficiente, Anna compie il suo pellegrinaggio verso il santuario di Silo per presentarsi alla faccia del Signore. E per ricevere sicura udienza offre prima un sacrificio di propiziazione e quindi presenta il bambino per offrirlo al servizio del luogo sacro…

«Il Signore mi ha concesso la grazia che gli ho richiesto. Anch’io lascio che il Signore lo richieda» (1,27-28). Non è un baratto, ma una coerenza del proprio credo. Se JHWH dona deve anche ricevere.

È la logica che ha guidato a suo tempo i passi di Abramo, il padre dei credenti. Pure lui aveva ricevuto miracolosamente un figlio e cede senza discutere alle richieste di chi glielo aveva accordato, ma la prontezza, quindi la sua fede, è il presupposto per riaverlo nuovamente (Gn 22).

Samuele è consegnato al Signore e rimarrà nel santuario di Silo alla scuola del gran sacerdote Eli; non ritornerà a Ramataim, nelle montagne di Efraim, con i genitori, ma diventerà presto la guida spirituale di tutto Israele. «Da Dan a Bersheba», da un estremo all’altro del paese, tutto il popolo seppe «che era stato costituito profeta del Signore» (1Sam 3,20). Iddio non si era lasciato vincere in generosità.

E la madre che aveva pianto per la sua sterilità, per la carenza, di un figlio, ora che l’ha perso donandolo al Signore non è afflitta ma, piena di esultanza, intona un canto di gioia e di ringraziamento che sarà l’anticipo del Magnificat di Maria (2,1-10; cf. Lc 1,46-55).

1Giovanni 3,1-2.21-24

Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente! Per questo il mondo non ci conosce: perché non ha conosciuto lui. Carissimi, noi fin d’ora siamo figli di Dio, ma ciò che saremo non è stato ancora rivelato. Sappiamo però che quando egli si sarà manifestato, noi saremo simili a lui, perché lo vedremo così come egli è. Carissimi, se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio, e qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito. Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri, secondo il precetto che ci ha dato. Chi osserva i suoi comandamenti rimane in Dio e Dio in lui. In questo conosciamo che egli rimane in noi: dallo Spirito che ci ha dato.

Le «Lettere» di Giovanni fanno parte di quelle chiamate «cattoliche» dirette cioè non a una singola chiesa, ma a una cerchia più ampia di credenti, in pratica alle comunità cristiane di Asia che registrano nel loro interno i primi attriti e le prime divisioni.

La condizione del cristiano, secondo l’autore della lettera, è unica, poiché in virtù della sua fede e della rigenerazione battesimale è passato realmente in uno stato di vita nuova che è quello dei figli di Dio.

Il discorso non è propriamente teologico, ma pratico e soprattutto pastorale. Il «figlio» è colui che è generato dal seno del padre (cf. Gv 1,13.18) non tanto un prodotto della sua potenza. Tra le cose, gli esseri e l’uomo c’è per l’autore biblico, davanti a Dio, una grande differenza, poiché solo l’uomo è a sua immagine e somiglianza (cf. Gn 1,26).

Il nuovo Testamento fa un passo avanti e stabilisce tra Dio e l’uomo una relazionalità, quasi una parentela che induce il primo a chiamarsi «padre» e il secondo a dirsi «figlio». È  sempre un linguaggio analogico, mutuato cioè dal mondo degli uomini dove la relazione più intima e più cara che esiste tra persone è quella tra i genitori e i figli.

Il cristiano è colui che ha accettato la testimonianza di Gesù Cristo, vive secondo le sue proposte, soprattutto si prova ad amare i suoi simili, persino i nemici. Egli vive secondo una perfezione che solo Dio possiede. «Se così farete, perdonate cioè anche a quelli che non lo meritano, sarete perfetti come il Padre vostro che è nei cieli» ricordano Matteo e Luca (5,43-48; 6,36:23,34).

La lettera di Giovanni richiama questa dignità del cristiano che può far propri gli atteggiamenti e i sentimenti di Dio. Non si tratta di un titolo accademico, di una onorificenza gratuita, ma di una promozione che nasce sì dalla fede in Cristo, soprattutto però dall’assunzione dei suoi insegnamenti a programma di vita. È l’essere veramente cristiani, cioè il tentativo di imitare il grado di carità di Gesù Cristo che rende un uomo figlio di Dio.

Il passo centrale di tutta la lettera è sempre 1,3-7, soprattutto la frase «Dio è luce in cui non ci sono tenebre; se camminiamo nella luce come egli è nella luce, siamo in comunione gli uni con gli altri».

La filiazione divina si rivela nel grado di capacità di accoglienza degli uomini, cioè nel grado di amore verso i fratelli. La comunione con Dio, la dimora in lui, la paternità e la filiazione, temi della lettera, si identificano alla fine con l’imitazione di Cristo, con l’amore degli uni verso gli altri.

Non sono tanto i sentimenti quanto i comportamenti che rivelano la dignità del cristiano.

Vangelo: Luca 2,41-52

I genitori di Gesù si recavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono secondo la consuetudine della festa. Ma, trascorsi i giorni, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero. Credendo che egli fosse nella comitiva, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme. Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri, mentre li ascoltava e li interrogava. E tutti quelli che l’udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti, e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto questo? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo». Ed egli rispose loro: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Ma essi non compresero ciò che aveva detto loro. Scese dunque con loro e venne a Nàzaret e stava loro sottomesso. Sua madre custodiva tutte queste cose nel suo cuore. E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini

Esegesi

Luca conclude, con il brano 2,41-52, il racconto dell’infanzia di Gesù. Dopo il dittico degli annunzi (1,5-55) e delle nascite (1,57-2,20) in cui la persona e la missione di Gesù ha il suo risalto soprattutto nel confronto con la figura di Giovanni (simbolo dell’antica alleanza), quella di Maria (la comunità dei credenti) e con Elisabetta (la sinagoga) seguono due quadri che si possono chiamare delle «ascensioni di Gesù al tempio di Gerusalemme», che costituiscono o meglio anticipano l’apoteosi del Cristo nel luogo dell’antico culto e davanti ai dottori d’Israele che rimangono confusi e ammirati davanti alla sapienza del nuovo rabbi che ormai ha eclissato la loro autorità.

     La storia non era andata così, ma l’evangelista non racconta ciò che era realmente accaduto, ma che avrebbe dovuto o dovrebbe accadere: Israele si convertirà e riconoscerà il messia che Dio ha inviato al suo popolo e nello stesso tempo alle genti (Lc 2,32).

     Il testo di Lc 2,41-52 (come quello di Lc 2,21-40) sotto le parvenze di una cronaca e una pagina di alta teologia o se si vuole di profonda cristologia. Il figlio del falegname di cui i nazaretani conoscono i familiari, la madre, le sorelle, i fratelli e che per questo rifiutano di ascoltare è il maestro di sapienza, il salvatore di tutti gli uomini

     Il racconto di Lc 2,41-52 ha l’aria di un episodio, ma il messaggio supera la sua portata aneddotica; bisogna seguire la sua trama, ma senza perdere di vista le alte intenzioni dell’autore.

    Il pellegrinaggio della S. Famiglia a Gerusalemme è l’occasione o il pretesto della visita di Gesù al tempio.

    L’evangelista descrive la fase iniziale della manifestazione di Gesù ma sembra che pensi soprattutto all’ultima, quella che compirà pure in occasione della pasqua.

     La separazione di Gesù dai genitori, lo smarrimento può apparire inverosimile, ma è soprattutto misterioso. Segnala la strada di Cristo che è solitaria. Gesù è accompagnato dai genitori nella sua infanzia, ma quando deve dar compimento alla sua missione è solo. Neanche gli apostoli gli sono di grande aiuto, piuttosto di intralcio. Essi l’abbandonano anche nell’ora del Getsemani che si conclude con la condanna capitale.

     Giuseppe e Maria sono persone reali e simboliche; sono i genitori di Gesù, ma anche i prototipi della comunità credente. Essi si preoccupano del figlio; lo ricercano, lo ritrovano e si preoccupano di capire le ragioni del suo comportamento.

     La domanda «Figlio, perché ci hai fatto questo?» riassume secoli di teologia. In altri tempi si dirà: «Cur Deus homo?» (Perché Dio si è fatto uomo?) oppure: «Perché la croce?». La morte di Cristo è il problema che ha fatto perdere l’orientazione agli apostoli, ha atterrito Paolo e rende perplessi quanti si provano a riflettervi sopra. «Tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo», dice Maria coinvolgendo nella sua angoscia lo sposo e l’intera comunità.

     I «tre» giorni della sparizione possono contenere un’allusione ai tre giorni della sepoltura, della scomparsa di Gesù dallo sguardo dei suoi fratelli e quindi possono contenere un richiamo alla sua passione e morte.

     La risposta alla domanda di Maria e di quanti ella rappresenta non è una spiegazione ma un invito ad accettare le disposizioni che vengono dall’alto anche se non si comprendono. Al «Figlio, perché ci hai fatto questo?» segue un «Perché mi cercavate?». Ogni ricerca sulle scelte di Gesù sfocia in un bivio oltre il quale non è possibile indagare. C’è un imperativo, un dovere a cui occorre solo sottostare.

     La strada della salvezza è segnata da colui che l’ha decisa; ne ha stabiliti i percorsi e le modalità di attuazione; l’uomo deve solo seguirli. È quanto Gesù confessa alla madre e a quanti condividono le sue perplessità.

     «Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?». Egli è, come tutti, «nato da donna», ma è anche «figlio» cioè un prediletto di Dio, un suo particolare inviato, incaricato di una speciale missione in mezzo agli uomini che è quella di richiamarli alla loro vera origine, al rapporto familiare o filiale che hanno con Dio.

     L’appellativo «padre» rivolto a Dio è quello che tutti debbono far proprio al posto di altri più solenni (Signore, altissimo, onnipotente) ma meno opportuni. Gesù tenterà innanzitutto di rinnovare i rapporti dell’uomo con Dio, sottraendolo alla subordinazione e introducendolo nel cuore della sua famiglia. Una «profanazione» che gli costerà la vita, ma egli non può deflettere da quel «dovere» che segna tutta la sua esistenza: sempre incompreso, sempre frainteso, persino dai propri intimi che vengono a prenderlo perché lo credono fuori di sé (Mc 3,21).

     La strada di Dio non è la strada degli uomini, per accettarla bisogna rinunciare a capire; occorre solo credere. È quanto Maria sembra suggerire. L’evangelista nota che «essi non compresero» (2,50) ma non aggiunge che per questo non credettero, come invece asserisce Giovanni a proposito dei «fratelli» (Gv 7,5) o fa capire parlando dei suoi avversari.

     Maria e Giuseppe non compresero, ma anche questa volta riflettono sulle cose udite, le confrontano con altre nel tentativo di riuscire se non a capirle a poterle far proprie, cioè ad accettarle, a credere (cf. Lc 2 19).

     La prima parte del quadro è offuscato dall’ombra della separazione ma la seconda e mondata dalla luce del ritrovamento e del trionfo (2 46-47). Sono messe a confronto tra di loro le due fasi della vita di Gesù: quella terrestre che si chiude sulla croce e nella tomba e quella gloriosa che si apre con la vittoria sui nemici e sulla morte (risurrezione).

     La scena di Gesù in mezzo ai dottori è nuova, più che storica è soprattutto simbolica, profetica. Di fatto Gesù aveva finito la sua esistenza ignominiosamente, con una disfatta, ma è stata una sconfitta che si e trasformata in vittoria. «Presto vedrete il figlio dell’uomo seduto alla destra della Potenza», aveva detto Gesù ai sinedriti che stavano con-dannandolo (Mc 14,62).

     Il profeta che pochi avevano ascoltato e che pochissimi avevano accettato può parlare ora dal luogo più sacro della terra, accanto alla sede dell’unico e vero Dio e dove le più venerande autorità d’Israele avevano le loro cattedre. Esse sembrano scomparse e quelli che erano i maestri indiscussi della parola di Dio sono se non ai piedi al fianco del nuovo rabbi. È lui che fa loro le domande e in qualche modo orienta le loro risposte. Anche se sembra un ascoltatore, nella mente dell’evangelista è il dottore che ha preso il posto di Mosè ed Elia e dà prova della sua indiscussa autorità (cf. Lc 9,36).

     Quelli che erano stati i più agguerriti avversari di Gesù, appunto gli scribi, i farisei e i dottori della legge, pendono ora dalle sue labbra e quello che è più sorprendente, invece che dall’ira sono pervasi dallo stupore e dalla gioia.

     La situazione si è rovesciata. L’umile profeta galileo è diventato il maestro che Parla dai cortili del tempio, il luogo ufficiale degli interpreti della Legge, e ad ascoltarlo sono le classi dirigenti, i maestri d’Israele proprio quelli che l’avevano rifiutato e fatto condannare a morte.

     È una proiezione profetica e un auspicio che Luca ha davanti ai suoi occhi e propone ai suoi lettori. Mentre racconta la prima esistenza di Gesù guarda con ottimismo al futuro della salvezza cristiana e soprattutto al suo rapporto con l’antico Israele.

Segue la “meditazione”…

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