Commento al Vangelo di domenica 4 Ottobre 2020 – d. Giacomo Falco Brini

Terza parabola di Gesù con la vigna ancora protagonista. Terza parabola destinata a tutti ma in primis, ancora una volta, ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo. Finalmente sappiamo che cos’è la vigna in cui si è chiamati a lavorare. Siamo noi stessi, l’umanità di cui si prende cura il Signore. Il racconto porta alle estreme conseguenze il messaggio comunicato già 2 domeniche fa con la parabola dei chiamati dell’ultima ora, offrendoci una teologia della storia umana facilmente comprensibile. Il proprietario della vigna è Dio, la cui bontà ha creato, per amor nostro, un mondo bello da custodire e far fruttificare. Ma, fin dalle origini, noi coltivatori abbiamo storpiato questo mondo, il cui principio è diventato la violenza prevaricatrice che uccide il fratello per il possesso di quanto Dio ci ha dato da condividere come dono. Ammettiamolo, come coltivatori di questa creazione siamo un totale fallimento, ancora oggi!

La parabola è narrata come un crescente conflitto che si manifesta tra il lavorare di Dio e il nostro, tra la sua fedeltà e la nostra infedeltà, tra le sue premure d’amore e i nostri rifiuti, il suo disegno e i nostri disegni, la sua ostinazione e la nostra ostinazione, la sua forza e la nostra violenza. È il mistero della progressiva rivelazione del suo amore, cui corrisponde il crescendo della nostra cattiveria. Il culmine di questo dinamismo lo troviamo riassunto sulla croce di suo Figlio: lì possiamo vedere tutta la nostra cattiveria, ma anche tutta la sua smisurata bontà. È un dinamismo sempre attuale. Prendete quanto accaduto in questi giorni. Un guardacoste che si è buttato nel mare in tempesta cercando di salvare la vita di 2 ragazzi che si erano immersi imprudentemente. Lui perde la vita non riuscendo a rientrare a riva. Uno dei ragazzi, intervistato, dichiara che si è salvato da solo. Quello che è successo, invece di toccarlo e farlo riflettere, invece di farlo rispondere con gratitudine per il gesto avvenuto sotto i suoi occhi, lo fa esprimere in questo modo sconcertante.

Nella vita Dio moltiplica i suoi segnali di amore, ma la nostra risposta è spesso una deludente indifferenza, quando non un esplicito rifiuto. Qui è il mistero della durezza del nostro cuore, molto più impegnato a portare avanti dei “bracci di ferro” con gli altri e con Dio stesso, piuttosto che a scoprire quanto siamo amati e seguiti sin nei minimi particolari. Questo il senso della prima parte della parabola quando si enuncia nei dettagli la cura del proprietario insieme alla fiducia concessa agli uomini con i ripetuti inviti dei suoi servi (Mt 21,33-36). Leggendo questa fiducia mal riposta da Dio negli uomini di Israele, ci si aspetterebbe un finale in stile cinematografico americano, cioè una giustizia ripristinata con punizione severissima. Infatti, le stesse conclusioni che la domanda di Gesù tira dalla bocca dei presenti (Mt 21,40) creano questa aspettativa anche in noi. Quanto essi dicono in risposta all’uccisione del Figlio del proprietario, da un lato esprime la logica, umana reazione di fronte ai ripetuti soprusi e al delitto dei delitti: farà perire malamente quei malvagi (Mt 21,41a); dall’altro, esprime profeticamente quanto sta per avvenire nella loro storia di popolo eletto: affiderà la vigna ad altri coltivatori (Mt 21,41b). Ma le cose sono andate solo in parte così. Perché davvero il regno dei cieli è “passato di mano” a un popolo nuovo di credenti. Però Dio non si è rivelato l’“avenger” che pensavamo.

Non avete mai letto nelle Scritture: “la pietra che i costruttori hanno scartato è diventata testata d’angolo; questo è stato fatto dal Signore, ed è una meraviglia ai nostri occhi? Con queste parole del Salmo 122, Gesù anticipa il suo destino e offre una lettura della stessa drammatica parabola totalmente diversa dalla nostra. Solo aprendoci all’inaudita novità della sua lettura possiamo diventare altri coltivatori che daranno frutto a suo tempo. In questi versetti è infatti concentrata l’opera di Dio: la pietra scartata su cui bisogna inciampare è Lui stesso, il Figlio che abbiamo crocifisso. Quello che è difficile da accettare/credere è che questo è stato fatto dal Signore. Che significa? Che all’interno del male che gli abbiamo fatto nella nostra libertà, c’era anche la libertà di Dio. Che Dio è più testardo di noi: il nostro infame delitto era previsto, ma anche in esso la sua azione è stata impavida. Che nella sua imperscrutabile misericordia, Dio è riuscito a tirar fuori dal nostro massimo male un incredibile bene: dove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la sua grazia (Rm 5,20). Che se noi, del bene che ci fa, ne facciamo il male, Lui invece, del male che gli facciamo, ne fa un bene. Chi può capire qualcosa di questa opera? Nessuno, tranne colui che, inciampato su questa pietra (gr. scandalon), si apre alla visione della propria nudità, cioè della sua verità: allora ciò che si scarta diventa prezioso, ciò che è maledetto diventa benedetto, ciò che era orribile ai propri occhi diventa una meraviglia.


AUTORE: d. Giacomo Falco Brini
FONTE: PREDICATELO SUI TETTI
SITO WEB: https://predicatelosuitetti.com

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