Commento al Vangelo del 31 Marzo 2019 – d. Giacomo Falco Brini

DIO INCONTENIBILE

Ogni volta che finisco di leggere questa pagina di vangelo, ve lo dico non senza uno strano sentimento di gioia misto a tremore e anche un po’ di vergogna, mi pare di avvertire qualcosa di simile (ma non assolutamente paragonabile) a quanto sentito da S.Elisabetta, quando ricevette il saluto di sua cugina Maria (Lc 1,40-45). Sto semplicemente accostando il mio stato d’animo a questo celebre incontro, nulla di più, mi raccomando! Traducendo, è come se il mio cuore dicesse: “benedetto sei tu Gesù, e benedette sono queste tue parole! A che cosa debbo che il mio Signore venga da me anche oggi a raccontare questa parabola? Ecco, appena ho udito che tutti i pubblicani e i peccatori ti si avvicinavano per ascoltarti, e che ancora oggi accogli i peccatori e mangi con loro (Lc 15,1-2), un fremito è salito dalle profondità sconosciute della mia anima.”

Dopo poco più di 30 anni dall’annuncio ricevuto con questo vangelo, sono ancora qui a parlarvene volentieri, come se avessi udito questa parola per la prima volta. Perché c’è qualcosa di eterno, cioè di perennemente nuovo, che sgorga incessantemente dalla Bibbia. Prendiamo la già citata introduzione alla parabola. Alcuni si avvicinano/ascoltano Gesù, alcuni mormorano su Gesù. Nella vita le cose stanno così, comunque te la giri bisogna che alla fine tu ti riconosca tra questi o tra quelli. Il vangelo non ha la pretesa di confinare le persone in queste 2 categorie. Esistono certamente molti che non mormorano, altri che nemmeno sono incuriositi da Gesù. Ciò non toglie però che prima o poi si dovrà affrontare la questione: o si accolgono le parole di Gesù, o le si rifiutano. Non ci si può esimere dal prendere una posizione. In mezzo naturalmente, finché siamo su questa terra, ci è regalata sempre la grazia del tempo per cambiare, ovvero per convertirci. Come ci spiegava bene la parabola del proprietario e del contadino di domenica scorsa.

Al cuore del vangelo di oggi c’è una rivelazione che mina le fondamenta di ogni pensiero religioso: Dio infatti è un padre che si esprime nella tenerezza di una madre. Il racconto ci dice che un padre con due figli vede giungere il più giovane per rivendicare la sua eredità, ancor prima che la possa chiedere (Lc 15,12). Il che equivale a dire: “la sola cosa che mi interessa di te è quello che mi dai”. Ed è già ragionevole chiedersi come mai per quel figlio il papà non contasse niente. Comunque il ragazzo se ne va di casa e dilapida la sua eredità vivendo in modo dissoluto (Lc 15,13). Coincidenza sfortunata: scoppia una carestia. Le cose si mettono ancora peggio per i suoi bisogni. Trova un lavoro presso un tale che lo manda a pascolare i porci e arriva persino a desiderare il cibo dei porci! (Lc 15,14-16) Ed ecco la nostalgia di casa, non ancora del padre della casa. Là infatti mangiano bene persino i dipendenti. Il ragazzo prende una decisione: mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò…e poi prepara la sua confessione con una proposta: trattami come uno dei tuoi salariati (Lc 15,17-19).

In sé, per quello che ha combinato, al lettore la proposta può sembrare equa. Ma il problema di quel giovane (e forse anche del lettore) è che non conosceva ancora chi era suo padre. E’ il problema attualissimo di tanti figli di madre chiesa: battezzati e allontanatisi dal mondo della fede senza sapere perché, magari solo perché sentono Dio come una presenza invadente e ingombrante. Ma Dio è proprio così o è stato presentato così? Come ce lo presenta invece Gesù? Chi è questo padre davanti ai timidi passi di un figlio che sta cominciando a capire che forse si è sbagliato su di lui? Osservate bene: il padre della parabola sembra stesse solo aspettando ansiosamente questo momento. Né una parola di richiamo, né un segno di indignazione. Al solo rivedere il proprio figlio si scatena in lui un irresistibile slancio di affetto (Lc 15,20). Il ragazzo comincia a parlargli secondo il suo proposito, ma il padre lo interrompe. E’ troppo grande la gioia di riaverlo tra le sue braccia, è una gioia letteralmente incontenibile: Presto!… Quel giovane che non sapeva chi fosse suo padre ora, confuso da tanto amore, vede i servitori fargli indossare il vestito più bello, mettergli l’anello al dito e i calzari ai piedi (Lc 15,21-22), nonché preparare una grande festa per il suo ritorno (Lc 15,23-24). Scoprendo chi è suo padre, scopre anche la sua identità e qual è la sua vera eredità. Torniamo indietro un istante e chiediamoci: che cosa ha messo in moto il suo clamoroso ritorno? Aver preso tra le mani il proprio peccato e averlo messo davanti al padre. Dunque è il mio peccato il luogo dove inizio a conoscere chi è Dio.

E quelli che invece non si allontanano mai dalla chiesa e dal mondo della fede? Costoro conoscono meglio Dio? Il prosieguo della parabola, lungi dal generalizzare, sembra suggerire che il problema sia presente anche in essi. Anzi, il problema della conoscenza del padre rimbalza proprio a causa della festa che si sta celebrando in casa. Il figlio maggiore sta rientrando dai campi, sente la musica e le danze e chiede notizie a un servitore che gli spiega il motivo (Lc 15,25-27): è tornato a casa suo fratello! Ma invece di gioire con il padre e tutto il casato, il primogenito si indigna fino a rifiutarsi di entrare a casa (Lc 15,28). Anche costui non sa chi è suo padre. Ha vissuto sempre con Lui, non si è mai allontanato da casa sua, eppure non lo ha conosciuto. Le stesse parole che gli rivolge lo tradiscono (Lc 15,29-30). Come è possibile? Sta di fatto che il vangelo si conclude con un padre che supplica questo figlio di rientrare in casa, ma non si dice se questi rientra. Piuttosto, sembra che nel fondo delle sue parole ci sia un pesante giudizio negativo sul padre e sul fratello appena tornato. Lo stesso giudizio partito dalla mormorazione di scribi e farisei (Lc 15,2).

Alla luce di questo vangelo, che cos’è il cristianesimo? E’ la inaudita fede in un Dio illogico, inguaribilmente contento e festaiolo, imprevedibile, imperscrutabile nei suoi disegni e giudizi, inafferrabile nel suo lavoro all’interno del cuore umano, uno che abita fuori dai nostri schemi e dai nostri tentativi di “catturarlo” dentro una perfetta dottrina che soddisfi il nostro pensiero religioso. Essere a casa e “di casa” con Dio, non è questione di bandiera cristiana e di promulgazione minuziosa degli articoli di fede. E’ questione di amore e di conoscenza. Gesù lo dice altrove in un paio di modi simili: chi non è con me è contro di me (Mt 12,30), oppure chi non è contro di noi, è per noi (Mc 9,40). Cartina di tornasole della propria fede è guardarsi dentro davanti a questo vangelo e chiedersi: mi piace o non mi piace il padre della parabola? Sono uno che si rallegra di avere un Dio così, o sono uno che sta sempre a discutere/giudicare quello che fa? Gioisco quando un fratello “torna” nella casa di Dio? E se non ci fossero questi sentimenti, se non c’è gioia per questa sorprendente immagine di Dio, allora chi è il Dio in cui credo?

Caro fratello/sorella che mi stai leggendo, io sono solo uno di quei peccatori che si avvicinano a Gesù per ascoltarlo, ma qualora ti stessi identificando con il figlio maggiore della parabola, non posso contenermi, devo dirtelo con Paolo e tutti coloro con cui condivido la gioia del ministero: ti supplico in nome di Cristo, lasciati riconciliare con Dio. Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in tuo favore…(2Cor 5,20-21). In gioco c’è la tua fede, la gioia di vivere, di sentirsi amato, di amare e conoscere Dio. Torna anche tu a casa. Vedrai e gusterai come è buono il Signore (Sal 33,9), perché la vita vera sta tutta qui.

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