Padre Giulio Michelini – Commento al Vangelo di domenica 22 Novembre 2020

Con il brano di oggi finisce non solo – per quanto riguarda la liturgia – l’anno liturgico in corso, che lascia il passo all’Avvento, ma anche l’insegnamento di Gesù nel vangelo secondo Matteo. Subito dopo la nostra pericope ecco infatti che l’evangelista dà inizio al racconto della passione, morte e risurrezione di Gesù, in questo modo: «Terminati tutti questi discorsi, Gesù disse ai suoi discepoli» (Mt 26,1). Gesù insegnerà d’ora in poi in un altro modo, soprattutto con i gesti e l’obbedienza al Padre nella prova suprema della croce. Per questa ragione è rivestita di particolare importanza la pericope di oggi, l’ultimo discorso compiuto di Gesù in Matteo (senza contare, cioè, l’invito del Risorto a fare discepoli e a battezzare in 28,18-19, e le poche ma importanti parole dette durante la passione, a partire dall’ultima cena).

La scena del giudizio è esclusivamente matteana, ed è costruita in modo magistrale, con l’uso di vari espedienti quali ad esempio la ripetizione, utili per la memorizzazione. Molti sono i confronti che possiamo fare con il linguaggio e la simbolica di stampo apocalittico correnti al tempo di Gesù, e che appaiono di volta in volta nella letteratura canonica (Daniele e Apocalisse) ma anche in quella apocrifa. Ricordiamo solo che in un libro chiamato Enoc (Libro delle Parabole), menzionato esplicitamente come Scrittura ispirata nella Lettera di Giuda (Gd 14-15), è descritta una scena simile a quella di cui parla Gesù: «Una metà di tutti i re, i potenti, gli eccelsi e quelli che posseggono la terra guarderà l’altra metà, si spaventeranno ed abbasseranno le loro teste e li prenderà pena nel vedere questo Figlio di donna (altri manoscritti hanno “Figlio dell’uomo”) assiso sul trono della Sua gloria». Anche i criteri attraverso i quali avviene il giudizio – cioè l’aver fatto o non fatto qualcosa a qualcuno – non sono estranei al giudaismo del tempo di Gesù, che aveva anzi codificato le opere di misericordia come quelle di cui si parla nel nostro brano.

Il dato originale, rivoluzionario, invece, la novità che apporta il discorso di Gesù, «è che lo stesso giudice (il Re) si considera oggetto di tali azioni (“Ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, oppure non mi avete dato da mangiare”), e questo crea un effetto di sorpresa sia in quelli che gli hanno usato misericordia sia in quelli che gliel’hanno negata» (Alberto Mello). Da qui ne discende che se il giorno del Signore, secondo l’Antico Testamento, è decretato da Dio stesso, ed è quindi Jhwh l’unico che giudica, nella logica del Nuovo Testamento è Gesù, il Messia, che può intervenire in questo giudizio. Di conseguenza, Dio compie il giudizio, ma questo in nuce avviene già nel modo in cui ci siamo rapportati al suo Figlio in questo mondo, al Gesù presente nei poveri che hanno avuto fame e sete e che sono stati assistiti o meno da noi. Ecco perché alla fine dei tempi, sarà Cristo-Agnello a prendere in mano il libro della nostra vita, quello che nemmeno noi siamo capaci di leggere e comprendere fino in fondo, e ad aprirne i sigilli (cf. Ap 5).

Fino al tempo in cui verremo giudicati vale quello che ha insegnato Gesù nel discorso della montagna: «Non giudicate, per non essere giudicati; perché col giudizio con cui giudicate sarete giudicati, e con la misura con la quale misurate sarete misurati» (Mt 7,1-2). E poi sarà finalmente il giorno della risurrezione. Come insegna il Catechismo degli adulti della CEI, «alla risurrezione sarà congiunto il giudizio universale, separazione del buon grano dalla zizzania, delle pecore dai capri. Anzi Gesù dichiara di aver ricevuto dal Padre il potere di risuscitare e di giudicare; perciò verrà l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna (Gv 5,28-29)» (1210). Il concilio Lateranense IV spiega: «Gesù Cristo verrà alla fine dei tempi per giudicare i vivi e i morti e renderà a ciascuno secondo le proprie opere, sia ai reprobi che agli eletti. Tutti risorgeranno con i propri corpi, gli stessi di adesso, per ricevere ciascuno secondo le loro opere, cattive o buone, gli uni la pena eterna con il diavolo, gli altri con Cristo la gloria eterna». La scena qui raffigurata, quasi più che in quella evangelica, è terribile. Inutile ingannarsi: la possibilità di un giudizio di condanna incombe e grava su coloro che compiono opere di male. L’unica salvezza sta nel riporre la nostra speranza e la nostra fede nella misericordia di Dio, e convertirsi per riconoscere, in chi ha bisogno e nel prossimo, la presenza del Cristo Re, su questa terra ancora in cerca del nostro aiuto.

Ma ora è necessario un approfondimento, che riguarda la vera crux interpretum, l’elemento che più ha dato da pensare ai commentatori e interpreti di questa scena. La domanda di questo testo riguarda infatti che vengono rappresentati come pecore e capre, e sono giudicati. Nel loro commentario a Matteo, Davies e Allison elencano almeno sei diverse possibilità: non ebrei; non cristiani; non ebrei e non cristiani; i cristiani; cristiani vivi al ritorno di Cristo; tutta l’umanità. Nonostante una prassi interpretativa consolidata che prende l’avvio dai Padri della Chiesa, e che porta a definire la scena come il giudizio “universale”, a partire dal XVIII secolo vengono sottolineati i tanti e buoni indizi nel testo (non solo di tipo lessicale) per ritenere che anziché di un giudizio per tutta l’umanità, il testo implichi, al contrario, un giudizio solo per i pagani.

Del giudizio di Israele (e non della Chiesa o dei cristiani), ovvero delle sue dodici tribù, Gesù sembra aver già parlato, attraverso un breve ma significativo accenno in 19,28, rispondendo alla domanda di Pietro (anche se in quell’occasione il “giudizio” implica probabilmente un significato più ampio): “E Gesù disse loro: ‘In verità io vi dico: voi che mi avete seguito, quando il Figlio dell’uomo sarà seduto sul trono della sua gloria, alla rigenerazione del mondo, siederete anche voi su dodici troni a giudicare le dodici tribù d’Israele’”. Ora, invece, coloro che saranno giudicati sono «tutti i pagani», espressione che si ritroverà solo in Mt 28,19 e che sembra implicare, per il significato proprio del lessema éthnos opposto a quello di laós (che per lo più in Matteo e nel NT indica Israele), solo i gentili. La successione di un giudizio prima per i giudei e poi per i gentili non solo si trova nelle fonti rabbiniche (ad es. Talmud babilonese, ‘Avoda Zara 2b: «R. Hanina b. Papa [disse] così: In tempi a venire, il Santo, benedetto Egli sia, prenderà un rotolo della Torà e dirà: “Chi l’ha seguita, venga a prendere il suo premio”. Poi tutte le nazioni si raduneranno, nella confusione, come sta scritto…»), ma ancor prima in un importante apocrifo, forse precedente all’epoca cristiana, il Testamento di Beniamino (10,8-9: «Allora tutti risorgeranno, gli uni per la gloria, gli altri per il disonore, e il Signore giudicherà per primo Israele per la sua ingiustizia… Allora giudicherà tutti i popoli»), e soprattutto nel NT (in Rm 2,9-10 Paolo parla di un giudizio che incombe «su ciascun essere umano che attua il male [o il bene], giudeo in primo luogo e greco»; cfr. anche la visione di Ap 7,4.9, dove prima si presentano quelli provenienti «da ogni tribù dei figli d’Israele», e «dopo ciò» appare «una gran folla, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua»).

La caratteristica principale del giudizio del Figlio dell’uomo in Matteo è data dal criterio con cui le nazioni straniere saranno valutate. In un testo apocrifo, 2 Baruch 72, è scritto che il giudizio avverrà sulla base di come esse si sono comportate verso Israele: «Dopo che saranno venuti i segni che prima ti ho detto, quando saranno turbati i popoli e sarà venuto il tempo del mio Unto, egli chiamerà tutti i popoli e ne farà vivere alcuni e altri ne ucciderà. […] Ogni popolo che non conoscerà Israele e che non avrà calpestato il seme di Giacobbe, esso vivrà. […] Tutti coloro, invece, che avranno dominato su di voi o che vi avranno conosciuto, tutti costoro saranno consegnati alla spada». Tenendo presente che l’apocrifo è databile verso la fine del I secolo d.C., si comprende il tono di condanna verso coloro che hanno distrutto Gerusalemme e il suo tempio; allo stesso modo, nel testo dal Talmud riportato sopra, le nazioni straniere sono radunate e giudicate anzitutto nella persona del loro re, e il primo a essere giudicato è proprio l’imperatore di Edom/Roma. Nel primo vangelo a essere giudicati sono sempre i pagani, ma il loro giudizio non è di condanna: è basato sugli atti di amore che i gentili avranno avuto verso i «piccoli» (25,40.45), ovvero – secondo la nostra interpretazione – gli ebrei credenti in Gesù Messia, quelli che appunto vengono chiamati i suoi «fratelli» (25,40; cfr. anche Mt 12,49-50), e che sono (saranno) i “cristiani”.

Detto questo, la nostra insistenza su un probabile contesto originario delle parole di Gesù sul giudizio non deve distogliere dal principale significato della scena, di cui abbiamo parlato sopra, che è un appello alla vita del credente. Ha infatti ragione J.P. Heil (il quale – diversamente da noi – ritiene si tratti di un vero e proprio giudizio universale) a dire che il contesto più importante in cui va letta la scena del giudizio è quello dei cc. 24–25 di Matteo: il lettore arriva a questo passo subito dopo le parabole che riguardano l’atteggiamento di chi attende il ritorno di Gesù alla fine dei tempi, e dunque la scena serve come vero e proprio climax, ed è, anzi, essa stessa una parabola. L’identificazione che Gesù compie con i bisognosi impone che chi legge si attrezzi per servirli: in essi vi è la presenza misteriosa di colui che in Matteo è l’«Emmanuele»/«Dio-con-noi» (1,23; cfr. anche 28,20) e che ha promesso di essere con i suoi «sino alla fine del tempo» (28,20). Da questo punto di vista, il giudizio del Messia su tutti i popoli è davvero un giudizio che riguarda proprio tutti, e il lettore non può tirarsene fuori.


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