p. Giovanni Nicoli – Commento al Vangelo del 7 Novembre 2020

“È in arrivo un nuovo digitale, poiché il digitale già in auge, seppure recente, non era abbastanza nuovo. Ci spiegano che si tratta dell’inesausta rincorsa al meglio e al più comodo che l’evo tecnologico ha previsto per ciascuno di noi. Ma di molto scomodo, in questa rincorsa al comodo, c’è il moto perpetuo nel quale ci hanno ficcati: dire “no grazie, per me può bastare così” non è previsto, non è permesso, bisogna continuamente cambiare apparati, impararne l’uso, resettare le abitudini, rimettere mano al portafoglio” (Michele Serra).

Non ne faccio una questione di quattrini (anche se non tutti hanno i quattrini per cambiare il televisore), ma di libertà. La libertà di fermarsi. Dovrebbe esistere un diritto alla requie, e perfino un diritto alla mediocrità e alla obsolescenza. Essere felice davanti a un piatto di fagioli, se uno ne ha voglia, mentre tutti sono in coda davanti al negozio delle aragoste. La corsa forsennata della tecnologia (e dei consumi, e dei desideri, e di tutto) sarebbe morale se fosse facoltativa. È invece obbligatoria, e perciò immorale e dispotica. Essere consumatori è diventato un lavoro che non prevede dimissioni né fuga. Si chiamano: lavori forzati.

In altri termini è ciò che ci dice Gesù nel vangelo di oggi. Sappiamo bene di come la sapienza del vangelo riguardo a Mammona, sia derisa dai farisei del nostro tempo: noi benpensanti e gente schiava della cultura del mercato. Noi, da buoni farisei, anziché accogliere il dono della Parola, irridiamo ciò che la Parola ci dona, soffochiamo nelle spine delle nostre faccende in cui siamo sempre più affaccendati il germe spuntato sul terreno della nostra giornata. Ogni giorno l’uomo muore sempre più. Sempre meno umanità e sempre più violenza. C’è forse maggiore gratificazione, ma è sempre più gratificazione che risponde alla legge del mercato della sveltina, non certo alla legge dell’amore e dell’umanità: cosa da infedeli, da gente qualunque, non da discepoli del Signore Gesù.

I farisei, cioè noi, amanti del denaro hanno fatto della proprietà privata il Moloch a cui tutto immolare. È più importante di ogni relazione e di ogni affetto. Nel suo nome si distrugge e si uccide. Le due cose sono inconciliabili: o si ama il Padre e i suoi figli o si ama mammona. La dinamica della priorità del mercato, è sotto i nostri occhi, ci fa vivere da insensati e da disumani. Siamo costretti a dire “prima i nostri e poi gli altri”: roba tribale e anticaglia della peggior specie.

Per garantire il dominio sul futuro, i mezzi sono diventati così complicati e complessi e sofisticati che risultiamo tutti smarriti, manager e gestori di multinazionali compresi, anzi loro forse più schiavi ancora di noi.

L’astuzia falsa è chiara: credere che il benessere e il progresso materiale sia il fine dell’uomo e del suo vivere sociale. Questa vista miope, non tiene conto della realtà, porta ad operare l’ingiustizia come fonte e mezzo per sostenere le leggi del mercato, porta a sacrificare il vero bene dell’uomo, compreso quello materiale. È la morte dell’incarnazione, altro che essere coi piedi per terra.

Tutto ciò che siamo e abbiamo è dono del Padre ed è mezzo per entrare in comunione con Lui e con i fratelli. Ogni legge, anche la più sacra, che ci porta a contrastare questa verità del senso della vita dell’uomo favorendo Mammona, è demoniaca e ingiusta, non farà che creare morte e distruzione.

Accogliere tutto come dono del Padre, anche le proprietà che purtroppo abbiamo, vivendolo in condivisione ci rende capaci di vivere in rendimento di grazie e in spirito di condivisione.

I beni che noi tanto stimiamo sono cosa minima rispetto al vero valore. Il nostro fallimento di sempre, ma di oggi in particolare, consiste nell’amare ciò che non è l’oggetto del nostro cuore. Nell’uso corretto dei beni e del bene si gioca la nostra vita e si esprime la fedeltà al Padre, che è riconoscersi figli e dunque fratelli.


AUTORE: p. Giovanni Nicoli FONTE SITO WEB CANALE YOUTUBE FACEBOOKINSTAGRAM

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