p. Gaetano Piccolo S.I. – Commento al Vangelo di domenica 20 Giugno 2021

Il mare fa paura

La distanza culturale da un’epoca all’altra rende a volte difficile la comprensione di alcuni simboli. Oggi per noi europei il mare significa per esempio soprattutto divertimento, svago, evasione. Al massimo può suscitare in noi domande legate ai seri problemi ecologici. Ma nel mondo antico, l’immagine del mare richiama soprattutto il pericolo del viaggio, la possibilità di morire, la devastazione delle inondazioni.

Il grande viaggio di Ulisse è proprio intrecciato con le avventure e i pericoli che si incontrano durante la navigazione. Quel racconto è già di per sé un’immagine del viaggio della vita: la tentazione di allontanarsi dalla propria terra, di sfidare i pericoli, di affrontare esperienze che rappresentano gli incontri e le tappe della vita.

In molte rappresentazioni dell’antichità, per esempio in un famoso papiro egizio, le onde del mare sono rappresentate attraverso l’immagine del serpente che ostacola il cammino del sole, nel tentativo di impedirgli di sorgere ancora. Nel mare dunque l’uomo antico ha visto le sue paure e per lo più ha preferito rimanere con i piedi per terra.

I confini del mare

Nel testo del libro di Giobbe che viene proposto in questa domenica, dove leggiamo un passaggio del discorso finale di Dio che mette Giobbe davanti alla sua piccolezza affinché riconosca il limite del suo punto di vista, ritroviamo proprio l’immagine del mare come minaccia di morte.

Il mare diventa una rappresentazione del male che, nelle sue diverse manifestazioni, vorrebbe travolgere ogni cosa con il suo orgoglio. Il male è presuntuoso, non accetta di fermarsi. Il male è devastazione che si illude di non avere confini. È proprio così, il male si manifesta attraverso la presunzione e il delirio di onnipotenza di coloro che si lasciano abitare da esso.

Il libro di Giobbe ci ricorda però in modo perentorio che Dio pone un limite all’orgoglio del mare (cf Gb 38,10), perché Dio è il Signore del creato e della storia. È vero, tante volte abbiamo l’impressione che il male stia dilagando, ma il libro di Giobbe ci invita a ricordare quel limite che Dio ha imposto e oltre il quale il mare/male non può andare.

La Bibbia ci ricorda allora che non siamo davanti a due principi antitetici, il bene e il male, ma siamo davanti a un destino di bene perché Dio ha già vinto il male, sebbene questo abbia un misterioso spazio per spaventarci ancora, senza però vincere mai.

Un mare da attraversare

L’immagine antica del mare come luogo del viaggio della vita con i suoi pericoli ritorna invece nel brano del Vangelo di Marco proposto per questa domenica. L’invito di Gesù, rivolto ai discepoli, di «passare all’atra riva» suona come un invito a non fermarsi mai nel viaggio della vita: occorre rischiare, affrontare le paure e i pericoli. Non solo ne vale la pena, ma non si può non passare all’altra riva, perché significherebbe smettere di vivere.

Gesù nella barca

Occorre però ricordarsi di fare spazio a Dio nella barca con la quale decidiamo di partire. In effetti i discepoli hanno preso Gesù con loro e lo accolgono così com’era, dice il testo. Possiamo immaginare che sia un’allusione alla stanchezza di Gesù. Dopo una giornata di predicazione, Gesù è stanco. Per noi moderni, generalmente tendenti all’attivismo e alla preservazione di un’immagine di onnipotenza, ci meraviglia che Gesù non abbia avuto timore di farsi vedere stanco. Gesù non nasconde la sua fatica e si addormenta, in un certo senso si fa vedere debole, ha bisogno di riposarsi e lascia che la barca della vita sia in mano ad altri.

Le tempeste della vita

Come succede nella vita, anche durante questo viaggio sul lago, arriva la tempesta. La barca è travolta dalle onde. Il mare è minaccioso e sembra vincere fino al punto che i discepoli pensano di morire. In quel frangente ti aspetteresti che Dio ti aiuti e invece a volte sembra che dorma, proprio come in questo episodio. Ti viene il dubbio che Dio si sia dimenticato di te o che non gli importi del tuo destino. Ti convinci che devi fare da solo, altrimenti nessuno ti aiuterà. Nella disperazione però ti metti a gridare. Ti rendi conto che da solo non vai da nessuna parte e hai bisogno di Dio.

La fede nella tempesta

Anche i discepoli si sentono abbandonati e sfiduciati. Quando si rivolgono finalmente a Gesù, quando hanno capito che da soli non riescono ad affrontare la tempesta, lo chiamano maestro, e non più Signore, come avviene invece nel testo parallelo di Matteo. Quel termine Signore, che richiama la divinità di Gesù, qui è scomparso. Qui i discepoli lo chiamano invece maestro come se non credessero più di navigare con il Figlio di Dio. Nella paura, Gesù è diventato un maestro qualunque, che al più ci può confortare con la sua sapienza, ma che non può aiutarci ad affrontare la tempesta e l’arroganza del mare.

La paura ci fa dimenticare la fede in Gesù. E, infatti, è proprio a quella professione di fede che i discepoli sono rimandati. Nella tempesta, paradossalmente, emerge prepotentemente una domanda: chi è Gesù? Chi è Gesù per te?

È proprio nel tempo della fatica e del buio che emerge quale tipo di relazione abbiamo con lui. Il viaggio inevitabile sul lago con le sue tempeste ci ha portato a riconoscere e riaffermare che Gesù è colui che calma il vento, quel che a volte soffia impetuoso e devastante sulla nostra vita. 

Leggersi dentro

  • Nelle tempeste della tua vita, come hai vissuto la relazione con Gesù?
  • Alla luce di quello che hai vissuto nella tua vita, chi è Gesù per te?  

P. Gaetano Piccolo S.I.
Fonte


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