HomeVangelo della Domenicap. Fernando Armellini - Commento al Vangelo del 21 Gennaio 2024

p. Fernando Armellini – Commento al Vangelo del 21 Gennaio 2024

Commento al brano del Vangelo di: Mc 1, 14-20

Padre Fernando Armellini, biblista Dehoniano, commenta il Vangelo di domenica 21 gennaio 2024.
Se sei interessato a tutti i sui commenti al Vangelo, puoi leggerli qui.

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Tempi nuovi

I cristiani sono convinti che il messia sia già venuto, gli ebrei sostengono che deve ancora venire. Chi ha ragione?

Non c’è dubbio, gli ebrei. Anche noi tacitamente lo ammettiamo per il fatto stesso che, ogni anno, dedichiamo quattro settimane per disporci alla sua venuta.

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Attendiamo con ansia il messia, perché ci è stato detto che “nei suoi giorni fiorirà la giustizia e abbonderà la pace, finché non si spenga la luna, egli libererà il povero che grida e il misero che non trova aiuto, abbonderà il frumento nel paese” (Sl 72,7.12.16). Non abbiamo ancora visto realizzate queste profezie, perciò continuiamo nell’attesa.

Deve ancora venire il messia, ma quando giungerà tutti, anche gli ebrei, lo riconosceranno: è Gesù. La sua nascita nel mondo è lenta e progressiva; i tempi nuovi, gli ultimi, sono già iniziati, ma non sono giunti a compimento.

Un giorno riferirono a Gesù che sua madre e i suoi fratelli lo stavano cercando; egli “girando lo sguardo su quelli che gli stavano seduti attorno, esclamò: Ecco mia madre e i miei fratelli!” (Mc 3,34). Sì, la comunità di chi ascolta la sua parola, si fida di lui e lo segue, è sua madre, è colei che nel dolore lo dà alla luce ogni giorno, finché sia realizzato in pienezza il disegno di Dio: “Ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra (Ef 1,10).

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Immediatezza, generosità, decisione nel distacco da ciò che è antico e incompatibile con il mondo futuro, caratterizzano la risposta di chi, rispondendo alla chiamata di Gesù, si lascia coinvolgere nei disegni di Dio.

Per interiorizzare il messaggio, ripeteremo:
“Fammi conoscere, Signore, le tue vie e dammi la forza di seguirle”

Prima Lettura (Gio 3,1-5.10)

Fu rivolta a Giona una seconda volta questa parola del Signore: “Alzati, và a Ninive la grande città e annunzia loro quanto ti dirò”.
Giona si alzò e andò a Ninive secondo la parola del Signore. Ninive era una città molto grande, di tre giornate di cammino. Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: “Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta”. I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo.
10 Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e Dio si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece.

Siamo a Gerusalemme, verso la fine del IV secolo a.C. e Israele ricorda, con rabbia e rancore, le deportazioni operate dagli assiri e la dura esperienza dell’esilio babilonese. Ninive è ancora sinonimo di città sanguinaria e Babilonia rimane il simbolo del nemico oppressore e idolatra.

È il tempo della ricostruzione della società giudaica e alle restaurazioni – lo sappiamo – si accompagnano facilmente l’integralismo, la durezza nei confronti degli altri, l’incapacità di lasciare spazio alla misericordia e al perdono. Israele vuole recuperare la fedeltà al suo Dio, ma è ossessionato dalla purità della razza, si ripiega su se stesso, ritiene la propria elezione un privilegio e non un servizio, diviene fanatico, intollerante ed è convinto che le nazioni pagane siano rifiutate dal Signore.

È in questo ambiente che nasce l’autore del libro di Giona, un rabbino intelligente, una mente aperta, un fine umorista che sorride dell’animosità dei suoi connazionali. Imbevuto del pensiero biblico, ha capito che Dio è “misericordioso e pietoso, lento all’ira e ricco di grazia e di fedeltà, che conserva il suo favore per migliaia di generazioni, che perdona la colpa, la trasgressione e il peccato” (Es 34,6-7), che ama ogni uomo e sceglie Israele per salvare i pagani, non per contrapporlo a loro.

Non ricorre a ragionamenti, che si rivelano sempre inefficaci contro l’acredine e il malanimo, ma compone una storia il cui protagonista è Giona, un profeta ostinato che incarna i pensieri gretti e i sentimenti meschini del suo popolo. Giona significa colomba e, nella Bibbia, la dolce e ingenua colomba rappresenta Israele (Os 7,11).

La storia è ambienta a Ninive, la città che, da almeno trecento anni, è ridotta a un cumulo di macerie, ma l’autore la immagina all’apice della prosperità e la erige a simbolo del male, della tracotanza, della violenza contro i deboli. Gli israeliti la odiano e ritengono che Dio, essendo giusto, condivida e approvi i loro risentimenti e sia deciso a punirla, a farle scontare le iniquità commesse, ad annientarla. Ma è proprio così che la pensa?

Il brano di oggi risponde a questo interrogativo.

Giona‑Israele non ha capito nulla della sua vocazione. “Alzati – gli ingiunge il Signore – va’ a Ninive, la grande città, e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me” (Gio 1,2) e Giona, contrariato, senza pronunciare una parola, scende al porto di Giaffa e, invece di imbarcarsi verso oriente, si dirige a occidente, verso Tarsis (Gio 1,1-3), preferisce morire piuttosto che trasformarsi in strumento di salvezza per i pagani.

Di fronte alla cocciutaggine del suo inviato, Dio non si scoraggia; ama troppo i niniviti, per questo scatena una tempesta e Giona viene gettato in mare. Un grosso pesce lo inghiotte e lo riporta a riva (Gio 1,4-2,11) e, per la seconda volta, il Signore ingiunge al profeta ribelle di andare a Ninive (Gio 3,2).

La città “era molto grande, di tre giornate di cammino” (v. 3).

Giona comincia a predicare, senza entusiasmo, solo “per una giornata di cammino”. Indolente, non arriva neppure a metà di Ninive e il suo messaggio, ridotto a sole cinque parole, il minimo indispensabile, è un annuncio catastrofico, diverso da quello che il Signore gli aveva affidato. Dio non aveva parlato della distruzione della città, ma solo della necessità che i niniviti prendessero coscienza della loro vita malvagia.

Nonostante la neghittosità con cui è stata portata avanti la missione, i cittadini di Ninive credono in Dio e si convertono.

Il fatto è sorprendente. Con sottile ironia, l’autore lascia intuire la contrapposizione: Israele non ha prestato ascolto alla voce dei profeti, i niniviti invece, alle prime parole – mal dette – di Giona, hanno cambiato vita. È quanto il Signore aveva spiegato a Ezechiele: “Se ti avessi inviato a popoli stranieri, a coloro che parlano un linguaggio incomprensibile, essi ti avrebbero ascoltato; ma gli israeliti non ti vogliono ascoltare perché hanno una testa dura ed un cuore ostinato” (Ez 3,4-7).

Giona non è solo Israele, è chiunque immagini ancora Dio come un giustiziere, è chiunque coltivi la segreta speranza di assistere un giorno alla punizione dei malvagi, è chiunque non abbia capito che non esistono nemici da sconfiggere, ma solo fratelli da amare e da aiutare ad allontanarsi dal peccato affinché possano essere felici.

Seconda Lettura (1 Cor 7,29-31)

29 Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; 30 coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; 31 quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena di questo mondo!

Il tempo è breve, chi ha moglie viva come se non l’avesse, chi compra come se non possedesse, chi usa dei beni materiali come se non li usasse. È questo, in sintesi, il messaggio del brano che dà l’impressione di introdurre una certa svalutazione delle realtà di questo mondo in favore di quelle del cielo.

Non è così. Paolo vuole soltanto che i cristiani diano il giusto valore alle realtà terrene, che sono importanti, sì, ma non ultime, non eterne.

Come tutte le cose belle, anche il matrimonio, la famiglia, i beni possono sedurre e mutarsi in assoluti. Divenuti idoli, assorbono totalmente il cuore dell’uomo e gli fanno perdere il senso della vita.

Per richiamare la transitorietà della scena di questo mondo (v. 31) e mosso da una fede incrollabile nel Risorto, qualche cristiano rinuncia alla vita coniugale, rifiuta il possesso dei beni, mette la propria vita e la propria persona a completa disposizione dei fratelli.

Questa scelta testimonia l’imminenza del mondo futuro in cui non si prenderà né moglie né marito e nemmeno si potrà morire, perché si diverrà simili agli angeli di Dio (Lc 20,35-36).

Vangelo (Mc 1,14-20)

14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 15 “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo”.
16 Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17 Gesù disse loro: “Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini”. 18 E subito, lasciate le reti, lo seguirono.
19 Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 20 Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

Il brano si apre con una breve introduzione in cui viene messo in scena Gesù che si reca nei villaggi delle montagne della Galilea e predica il vangelo. “Il tempo è compiuto – dichiara – e il regno di Dio è giunto; convertitevi e credete al vangelo” (vv. 14-15).

È la prima frase che pronuncia e costituisce la sintesi di tutto il suo messaggio.

Parla di regno di Dio e i suoi ascoltatori, educati dai profeti, sanno a quale realtà si riferisce. Per cinquecento anni Israele ha fatto l’esperienza della monarchia; la dinastia davidica ha annoverato anche sovrani capaci, tuttavia il bilancio che la Bibbia fa di questo periodo storico è del tutto negativo. Tranne poche, nobili eccezioni, tutti i re si sono allontanati dal Signore, non hanno prestato ascolto ai profeti e hanno condotto il popolo alla rovina. Nel 587 a.C. l’ultimo re fu deportato a Babilonia insieme al suo popolo.

Era la fine di tutto? Qualcuno continuò a sognare la restaurazione della dinastia di Davide; qualche altro ripose le sue speranze in un futuro messia. Tutti giunsero comunque alla conclusione che solo il Signore avrebbe potuto risollevare le sorti d’Israele, prendendo in mano personalmente la guida del suo popolo, proclamandosi re in sostituzione dei precedenti sovrani indegni.

Fu l’inizio dell’attesa del regno di Dio.

Già nei primi libri della Bibbia si trova la promessa: “Il Signore regnerà su di voi” (Gdc 8,23), “Il Signore regnerà in eterno e per sempre” (Es 15,18). Promessa che è un impegno, ribadito da Dio per bocca dei profeti: “Io regnerò su di voi con mano forte” (Ez 20,33), “Il regno sarà del Signore” (Abd 21).

Solo tenendo presente questa attesa, coltivata lungo i secoli dagli israeliti, siamo in grado di comprendere la carica esplosiva delle parole di Gesù. Il tempo dell’attesa – afferma – è finito, è giunto il momento della consolazione e della pace, è giunto il regno di Dio, le promesse del Signore si sono compiute.

Il contenuto del suo messaggio è vangelo.

Con questo termine noi intendiamo un libro, ma al tempo di Gesù vangelo significava soltanto buona notizia. Erano chiamati vangeli tutti gli annunzi lieti: un successo militare, la guarigione da una malattia, la fine di una guerra, la nascita di un imperatore, la sua ascesa al trono o la sua visita a una città.

All’inizio del suo libro Marco presenta Gesù come l’araldo, l’incaricato di proclamare agli uomini una notizia così straordinaria, così sorprendente da suscitare in chi la ascolta una gioia immensa.

Ci sono due condizioni per poterne fare l’esperienza: è necessario convertirsi e credere.

Conver­tirsi non significa fare il proposito fermo di evitare un peccato o l’altro, ma è la decisione di cambiare radicalmente il modo di vedere Dio, l’uomo, il mondo, la storia.

Si è sempre puntato troppo sulla con­versione morale e sempre poco si è capito che il primo cambiamento da operare riguarda l’immagine di Dio che ci siamo fatti e alla quale non vogliamo rinunciare, perché è modellata sui nostri pensieri, sui nostri giudizi, sui nostri sentimenti. Rimaniamo saldamente ancorati alle parole del Battista, riferiteci da Matteo: “Razza di vipere, fate dunque frutti degni di conver­sione” (Mt 3,7) o a quelle che Luca attribuisce al precursore: “La scure è già posta alla ra­dice degli al­beri” (Lc 3,9). Marco lascia uno spazio maggiore all’intuizione della lieta noti­zia: “Il regno di Dio è giunto”. Non è la percezione dell’imminenza di un terribile castigo, ma di una novità che rallegra: c’è speranza per tutti, anche per il peccatore più incallito, anche per chi si sente un rifiuto umano, perché da Dio non è considerato un rifiuto, bensì un figlio.

Dio si era già rivelato così, non solo nelle sacre Scritture, ma attraverso il creato. Per questo, quan­do l’uomo immaginava Dio, qualunque dio, lo doveva immaginare necessariamente buono. Convertirsi, dunque, è tornare a vedere Dio così, infinitamente buono, perché questo fa già parte del nostro DNA.

Cristo rivoluziona il mondo: ripone a suo fondamento l’amore e la compassione, correggendo anzitutto l’idea di Dio che in noi si è deformata.

Conver­tirsi è anche cambiare il modo di considerare l’uomo e il creato, è co­minciare a vedere tutto nella prospettiva di Dio, dalla parte di Dio, del Dio amo­roso, pa­ziente, longanime, pieno di premure e di interesse per le sue creature, del Dio che sa di­stinguere ciò che appare da ciò che è, l’incidente di percorso dalla scelta di fondo, l’effimero da ciò che è durevole.

Per assimilare questo sguardo di Dio è necessario vivere in un perenne stato di conversione. Non si giungerà mai alla perfezione del Padre che sta nei cieli, però bisogna tendervi continuamente; chi si ritiene già convertito si colloca fuori dal regno di Dio. Sentirsi sereni, sì, ma appagati mai.

Poi è necessario anche credere, che non equivale ad accettare un pacchetto di verità, ma significa seguire Cristo, con la certezza di arrivare, tra innumerevoli contrasti e rinunce, alla pienezza di vita. Credere è fidarsi di lui, della sua parola e della sua promessa: “Ecco io fac­cio nuove tutte le cose” (Ap 21,5); credere è accettare con fi­ducia incondizionata le sue risposte ai nostri interrogativi.

La seconda parte del brano (vv. 16-20) introduce la chiamata dei primi quattro discepoli destinati a divenire, dopo la risurrezione di Gesù, gli araldi del vangelo.

L’episodio è diviso in due momenti paralleli che corrispondono alle chiamate delle due coppie di fratelli: Simone e Andrea (vv. 16-17), Giacomo e Giovanni (vv. 19-20).

La versione dei fatti riferitaci da Marco è diversa e, dal punto di vista storico, difficile da conciliare con quella del vangelo di Giovanni (Gv 1,35-51).

L’obiettivo di Marco non è offrire un resoconto dettagliato di quanto è accaduto; egli non intende soddisfare le nostre pur legittime curiosità. Non ci dice, per esempio, se i quattro pescatori avevano già incontrato Gesù, se avevano assistito a qualche suo miracolo; non spiega come abbiano potuto abbandonare tutto senza sollevare alcuna obiezione, senza porre domande. Vuole dare una lezione di catechesi a chiunque, un giorno della sua vita, si senta chiamato da Gesù. Il brano non si riferisce alla vocazione dei preti e delle suore, parla della chiamata di ogni uomo a essere discepolo, tratta della vocazione al battesimo.

La scena scorre via rapida, tanto che si fa quasi fatica a seguirne i fotogrammi. Gesù, il protagonista, si muove in fretta, è sbrigativo non solo nel camminare, ma nel parlare, nell’invitare a seguirlo. La sua sembra una corsa contro il tempo, in realtà è l’ansia di annunciare che “il tempo è compiuto”, non ne resta altro; bisogna affrettarsi ad entrare a far parte del re­gno di Dio.

È stato notato che, nel vangelo di Marco, Gesù non si ferma mai: passa lungo il mare di Galilea (v. 16), chiama e non si gira per verificare se i discepoli hanno accolto il suo invito, va subito oltre (v. 19), ne chiama altri due e poi continua per la sua strada senza sostare un istante (v. 21). Chi vuole seguirlo non può illudersi: la strada da percorrere non è facile, il Maestro non lascia riposare nemmeno un istante, non concede mesi di ferie, giorni o ore di vacanza, esige che il discepolo mantenga il passo, sempre.

Poi compaiono gli altri personaggi: Simone e Andrea, Giacomo e Giovanni. Non stanno pregando o compiendo qualche azione particolarmente importante, stanno semplicemente svolgendo la loro professione.

Altre vocazioni nella Bibbia sono avvenute in circostanze simili. Il profeta Eliseo ha ricevuto l’invito a seguire Elia mentre si trovava nel campo ad arare con dodici paia di buoi davanti a sé (1 Re 19,19-21), Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero (Es 3,1), Gedeone stava battendo il grano (Gdc 6,11), Matteo era intento a riscuotere le tasse (Mc 2,13-14).

Dio non si rivolge ai perdigiorno, alle persone senza ideali, senza punti di riferimento concreti, ma a chi è pienamente inserito nel suo contesto sociale, economico, familiare. L’adesione a Cristo nella fede non è mai un ripiego, una consolazione per chi ha fallito altri obiettivi, ma una proposta fatta a gente impegnata e realizzata nella vita.

Come tutte le vocazioni di cui parla la Bibbia, anche quella di seguire Gesù è completamente gratuita. Il discepolo conosce e segue il Maestro perché è chiamato, perché gli è stato rivelato e offerto un dono. Chi è cosciente di questo non si inorgoglisce né disprezza chi non ha ancora aderito a Cristo. Ringrazia il Signore di ciò che ha ricevuto e si impegna perché vengano a crearsi, anche negli altri, le condizioni favorevoli per accogliere il medesimo dono.

Fin dall’inizio Gesù si presenta come un maestro diverso da quelli del suo tempo. Questi restavano nella loro scuola in attesa che i discepoli andassero a trovarli per apprendere la lezione e poi tornarsene alle proprie case. Non erano i maestri che sceglievano i discepoli, ma erano questi che si sceglievano il maestro.

Gesù non vuole discepoli che lo cerchino per imparare una lezione, ma persone che camminino con lui, che condividano le sue scelte di vita.

I primi quattro discepoli rispondono immediatamente alla vocazione, hanno fiducia in Gesù e lo seguono, anche se la meta è ancora imprecisata e il destino al quale sono chiamati verrà chiarito solo in seguito.

Ai niniviti erano stati concessi quaranta giorni di tempo per accogliere o rifiutare l’invito alla conversione. A Eliseo fu permesso di “andare a baciare suo padre e sua madre” prima di seguire Elia (1 Re 19,20). Ai suoi Gesù non concede alcun rinvio. A uno dirà: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu va e annuncia il regno di Dio” e a un altro: “Nessuno che ha messo mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,59-62).

La risposta alla sua chiamata deve essere data subito, il distacco deve essere totale e immediato, nulla può impedire di seguirlo. Anche gli affetti più sacri, come quelli che legano ai genitori e alla famiglia, l’attaccamento alla propria professione, la necessità di avere una sicurezza economica e sociale, il desiderio di non perdere gli amici, tutto deve essere sacrificato se è in contrasto con la vita nuova alla quale Gesù chiama.

Per gentile concessione di Settimana News.

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