Nella festa del Corpus Domini

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Pubblichiamo il testo dell’omelia di san Josemaría “Nella festa del Corpus Domini”, raccolta nel libro di omelie “E’ Gesù che passa” edizioni Ares.

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Oggi, solennità del Corpus Domini, mentre meditiamo
insieme la profondità dell’amore che ha spinto il Signore a restare con
noi sotto le specie sacramentali, ci sembra di udire quasi fisicamente
quel suo insegnamento alla folla: Ecco, il seminatore usci a
seminare. E mentre seminava, una parte del seme cadde sulla strada e
vennero gli uccelli e la divorarono. Un’altra parte cadde in luogo
sassoso, dove non c’era molta terra; subito germogliò, perché il
terreno non era profondo. Ma, spuntato il sole, restò bruciata e non
avendo radici si seccò. Un’altra parte cadde sulle spine e le spine
crebbero e la soffocarono. Un’altra parte cadde sulla terra buona e
diede frutto, dove il cento, dove il sessanta, dove il trenta
.

La scena è di attualità. Anche oggi, come allora, il seminatore divino
sparge la sua semente. L’opera della salvezza continua a compiersi, e
il Signore vuole servirsi di noi: desidera che i cristiani aprano al
Suo amore tutti i sentieri della terra; ci invita a propagare il
messaggio divino — con la dottrina e con l’esempio — fino agli ultimi
confini del mondo. Ci chiede che, come cittadini della società
ecclesiale e di quella civile, svolgendo con fedeltà i nostri doveri,
ciascuno di noi sappia essere un altro Cristo, santificando il lavoro
professionale e i doveri del proprio stato.

Guardando attorno a noi questo mondo che amiamo, perché opera divina,
costatiamo che la parabola si fa realtà: la parola di Gesù è feconda e
suscita in molte anime desideri di dedizione e di fedeltà. La vita e le
opere di coloro che si sono posti al servizio di Dio hanno cambiato il
volto della storia, al punto che molti di coloro che non conoscono il
Signore sono spinti — forse senza saperlo — da ideali suscitati dal
cristianesimo.

Vediamo anche che parte della semente cade in terra sterile o tra le
spine e i cardi: vi sono uomini che si chiudono alla luce della fede.
Gli ideali di pace, di concordia, di fraternità sono accolti e
proclamati, ma spesso sono smentiti dai fatti. Taluni, poi, si
affannano inutilmente a imprigionare la voce di Dio, impedendone la
diffusione con la forza bruta o con un’arma meno rumorosa, ma forse più
crudele, perché rende insensibile lo spirito: l’indifferenza.

Vorrei che, vedendo tutto ciò, prendessimo coscienza della nostra
missione di cristiani e volgessimo lo sguardo alla Sacra Eucaristia, a
Gesù che, presente in mezzo a noi, ci ha costituiti Sue membra: Vos estis corpus Christi et membra de membro,
voi siete il corpo di Cristo e membra unite ad altre membra. Il nostro
Dio ha deciso di rimanere nel tabernacolo per essere nostro alimento,
per darci forza, per divinizzarci, per dare efficacia al nostro lavoro
e al nostro sforzo. Gesù è allo stesso tempo seminatore, seme e frutto
della semina: è il Pane di vita eterna.

Il miracolo costantemente rinnovato della Sacra Eucaristia ha in sé
tutte le caratteristiche proprie dell’agire di Gesù. Perfetto Dio e
perfetto Uomo, Signore del Cielo e della terra, Egli si dona a noi per
essere nostro sostentamento nel modo più naturale e comune. Attende il
nostro amore da quasi duemila anni. È tanto, ma è poco, perché quando
c’è amore il tempo vola.

Mi torna alla memoria uno dei cantici di Alfonso il Saggio in cui si
narra la leggenda di un monaco che, nella sua semplicità, aveva
supplicato la Madonna di poter contemplare il Cielo, anche solo per un
istante. La Vergine ne esaudi il desiderio e il buon monaco venne
portato in Paradiso. Al ritorno, non riconosceva nessuno di quelli che
dimoravano nel monastero. La sua contemplazione, che aveva creduto
brevissima, era durata tre secoli. Tre secoli sono un nonnulla per un
cuore innamorato. Io mi spiego allo stesso modo i duemila anni di
attesa di Gesù nell’Eucaristia. È l’attesa di Dio, che ci ama, ci
cerca, ci accetta come siamo: con i nostri limiti, i nostri egoismi, la
nostra incostanza; e tuttavia capaci di scoprire il suo amore infinito
e di darci a Lui interamente.

Gesù è venuto sulla terra ed è rimasto in mezzo a noi nell’Eucaristia per amore, e per insegnarci ad amare. Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine:
sono le parole con cui l’evangelista Giovanni comincia a narrare gli
avvenimenti di quella vigilia di Pasqua nella quale Gesù — come ci
riferisce san Paolo — prese del pane e, dopo aver reso grazie, lo
spezzò e disse: « Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in
memoria di me ». Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il
calice, dicendo: « Questo calice è la Nuova Alleanza nel mio sangue;
fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me »
.

È il momento semplice e solenne dell’istituzione del Nuovo Testamento.
Gesù deroga all’antica economia della Legge e ci rivela che Lui stesso
sarà il contenuto della nostra orazione e della nostra vita.

Guardate la gioia che trabocca dalla liturgia odierna: Sia piena la lode, sia sonora, sia gioconda. È l’esultanza cristiana che canta la venuta di una nuova èra: La
Pasqua nuova della nuova legge mette fine all’antica. Il nuovo rito
sostituisce il vecchio, la verità disperde l’ombra, la luce fuga le
tenebre
.

Miracolo d’amore. Ecco veramente il pane dei figli: Gesù,
il Primogenito dell’Eterno Padre. È Lui che si offre a noi come
alimento. Lui stesso, che quaggiù ci nutre, ci attende in Cielo per
farci suoi commensali, coeredi e soci nella città dei santi, perché chi si nutre di Cristo morirà di morte terrena e temporale, ma vivrà eternamente, perché Cristo è la vita imperitura.

Il cristiano, confortato dalla nuova e definitiva manna
dell’Eucaristia, pregusta già ora la felicità eterna. Le cose vecchie
sono passate: e per noi, abbandonato ciò che è caduco, tutto sia nuovo,
il cuore, le parole, le opere. È questa la Buona Novella. È novità, conoscenza nuova, perché ci parla di una profondità d’amore che prima non sospettavamo neppure. Ed è buona, perché non c’è niente di meglio che unirci intimamente a Dio, Bene di tutti i beni. È Buona Novella, perché in modo ineffabile ci preannuncia l’eternità.

Gesù si nasconde nel Santissimo Sacramento dell’altare per
incoraggiarci a frequentarlo, per essere il nostro nutrimento, per fare
di noi una sola cosa con Lui. Dicendo senza di me non potete far nulla,
non ha condannato il cristiano all’inefficacia, né lo ha obbligato a
una ricerca penosa e ardua della sua Persona. È rimasto in mezzo a noi,
completamente disponibile. Quando ci riuniamo davanti all’altare per il
santo Sacrificio della Messa, quando contempliamo l’Ostia Sacra
nell’ostensorio o l’adoriamo nascosta nel tabernacolo, dobbiamo
ravvivare la nostra fede, pensare all’esistenza nuova che ci viene
donata e commuoverci dinanzi all’amore e alla tenerezza di Dio.

Erano assidui nell’ascoltare l’insegnamento degli Apostoli e nell’unione fraterna, nella frazione del pane e nelle preghiere.
Così ci viene narrata dalla Scrittura la condotta dei primi cristiani.
Sono spinti dalla fede degli Apostoli alla perfetta unità,
all’Eucaristia, all’orazione unanime: Fede, Pane, Parola.

Nell’Eucaristia Gesù ci dà la garanzia fedele della sua presenza nelle
nostre anime, della sua potenza che sostiene il mondo, delle sue
promesse di salvezza, grazie alle quali la famiglia umana, quando verrà
la fine dei tempi, abiterà per sempre nella dimora del Cielo, in seno a
Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito Santo: Trinità Santissima e Dio
Unico. È tutta intera la nostra fede ad essere posta in atto quando
crediamo in Gesù e nella sua presenza reale sotto le specie del pane e
del vino.

Non comprendo come si possa vivere cristianamente senza sentire il
bisogno di un’amicizia costante con Gesù nella Parola e nel Pane, nella
preghiera e nell’Eucaristia. Comprendo bene, invece, i vari modi in
cui, lungo i secoli, le successive generazioni di fedeli hanno
concretato la pietà eucaristica: alcune volte con pratiche collettive
che esprimevano pubblicamente la loro fede, altre con atteggiamenti
nascosti e silenziosi nella pace sacra del tempio o nell’intimità del
cuore.

Dobbiamo, anzitutto, amare la Santa Messa, che deve essere il centro
della nostra giornata. Se si vive bene la Messa, come è possibile poi,
per tutto il resto del giorno, non avere il pensiero in Dio, non aver
la voglia di restare alla sua presenza per lavorare come Egli lavorava
e amare come Egli amava? Impariamo dunque a ringraziare il Signore di
un’altra sua delicatezza d’amore: quella di non aver voluto limitare la
sua presenza al momento del Sacrificio dell’altare, ma di aver deciso
di restare nell’Ostia Santa che si conserva nel tabernacolo.

Vi dirò che per me il tabernacolo è come Betania: il luogo tranquillo
di pace dove c’è Cristo, dove possiamo raccontargli le nostre
preoccupazioni e le nostre pene, le nostre aspirazioni e le nostre
gioie, con la stessa semplicità, la stessa spontaneità con cui gli
parlavano i suoi amici Marta, Maria e Lazzaro. Ecco perché mi rallegro
percorrendo le strade di qualche città o paese, quando scopro, anche
solo in lontananza, il profilo di una chiesa: è un altro tabernacolo,
un’altra occasione perché l’anima fugga, con il desiderio, accanto al
Signore nel Sacramento.

Era di notte quando il Signore, nell’Ultima Cena, istitui la Sacra
Eucaristia: la circostanza — commenta san Giovanni Crisostomo — indicava che i tempi si erano compiuti.
Scendeva la notte sul mondo perché i vecchi riti, gli antichi segni
della misericordia infinita di Dio verso l’umanità stavano per
realizzarsi pienamente, aprendo i! cammino a una vera aurora, la nuova
Pasqua. L’Eucaristia fu istituita nella notte, in preparazione all’alba
della Risurrezione.

Ed è proprio questo albore che dobbiamo preparare anche nella nostra
vita. Dobbiamo rifiutare e allontanare da noi tutto quanto è caduco,
dannoso o inutile: lo scoraggiamento, la sfiducia, la tristezza, la
viltà. La Sacra Eucaristia comunica ai figli di Dio la novità divina; e
a noi tocca corrispondere in novitate sensu,
rinnovando tutto il nostro sentire e il nostro operare. Ci è stato dato
un principio nuovo di energia, una radice potente innestata al Signore.
E noi, che possediamo ormai il Pane di oggi e di sempre, non possiamo
tornare al lievito di una volta.

In questa festa, in tante città della terra, i fedeli in processione
accompagnano il Signore: Egli, nascosto nell’Ostia, percorre vie e
piazze — come già nella sua vita terrena — mostrandosi a quelli che
vogliono vederlo e facendosi incontro a quelli che non lo cercano.
Così, ancora una volta, Gesù viene in mezzo ai suoi. Come rispondiamo
alla chiamata del Maestro? Le manifestazioni esterne dell’amore devono
nascere dal cuore, e continuare in una testimonianza di vita cristiana.
Il rinnovamento che si opera in noi, al ricevere il Corpo del Signore,
deve essere manifestato nelle opere. Rendiamo dunque sinceri i nostri
pensieri: che siano pensieri di pace, di donazione, di servizio.
Rendiamo le nostre parole vere, chiare, opportune: che sappiano
consolare e aiutare, che sappiano soprattutto portare agli altri la
luce di Dio. Rendiamo le nostre azioni coerenti, efficaci, appropriate:
abbiano il bonus odor Christi, il profumo di Cristo, che ce ne richiama il comportamento e la vita.

La processione del Corpus Domini manifesta la presenza di
Dio per città e villaggi. Ma questa presenza, ripeto, non può essere
cosa di un giorno, un vociare confuso, udito e subito dimenticato. Il
passaggio di Gesù ci ricorda che dobbiamo scoprirlo anche nelle nostre
attività quotidiane. Accanto alla processione solenne di questo
giovedì, ci deve essere la processione silenziosa e umile della vita
ordinaria di ogni cristiano, uomo tra gli uomini, ma con il privilegio
di avere ricevuto la fede e la missione divina di comportarsi in modo
tale da rinnovare sulla terra il messaggio del Signore. Non siamo
immuni da errori, da miserie, da peccati. Ma Dio è con gli uomini, e
dobbiamo far sì che si serva di noi perché il suo passaggio tra le
creature sia ininterrotto.

Chiediamo allora al Signore che ci conceda di essere anime di
Eucaristia e che il nostro rapporto intimo con Lui si esprima in gioia,
serenità, in desiderio di giustizia. È così che agevoleremo agli altri
il compito di riconoscere Cristo e che daremo il nostro contributo per
collocarlo al vertice di tutte le attività umane. Avrà compimento la
promessa di Gesù: Io, quando sarò innalzato da terra, attirerò a me tutte le cose.

Gesù, vi dicevo, è il seminatore e per mezzo dei cristiani continua la
sua semina divina. Cristo stringe il frumento nelle sue mani piagate,
lo imbeve del suo sangue, lo pulisce, lo purifica e lo getta nel solco
del mondo. Getta i chicchi a uno a uno, perché ogni cristiano dia
testimonianza nel proprio ambiente della fecondità della Morte e
Risurrezione del Signore.

Posti dunque nelle mani di Cristo, dobbiamo lasciarci impregnare dal
suo Sangue redentore, lasciarci spargere nel solco, accettare la nostra
vita come Dio vuole che sia. E convincerci che il seme, per dar frutto,
deve sotterrarsi e morire. Si innalza allora lo stelo e nasce la spiga.
Dalla spiga il pane, che Dio trasformerà nel Corpo di Cristo. In tal
modo, torniamo a riunirci con Gesù, che è stato il nostro seminatore. Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane.

Cerchiamo di non dimenticare che non c’è frutto se prima non c’è la
semina: è necessario, pertanto, diffondere generosamente la Parola di
Dio e aiutare gli uomini a conoscere Cristo, perché sentano fame di
Lui. La festa del Corpus Domini — Corpo di Cristo, Pane di vita — è una buona occasione per considerare
quanta fame si avverte oggi fra gli uomini: fame di verità e di
giustizia, di unità e di pace. Dinanzi alla fame di pace, noi ripetiamo
con san Paolo: Cristo è pax nostra, la nostra pace. Dinanzi
all’anelito di verità, dobbiamo ricordare che Cristo è la via, la
verità e la vita. Chi aspira all’unità, deve porsi di fronte a Cristo
che prega affinché siamo consummati in unum, perfetti
nell’unità. La sete di giustizia deve guidarci alla sorgente da cui
scaturisce la concordia fra gli uomini: l’essere e il sapersi figli del
Padre, e quindi fratelli. Pace, verità, unità, giustizia. Come sembra
difficile, a volte, la missione di superare le barriere che impediscono
la convivenza umana; eppure noi cristiani siamo chiamati a operare il
grande miracolo della fraternità; a ottenere, con l’aiuto della grazia
divina, che gli uomini si comportino cristianamente, portando gli uni i pesi degli altri, vivendo il comandamento dell’amore, che è vincolo di perfezione e riassume tutta la legge.

Sappiamo bene che c’è tanto da fare. Un giorno, forse contemplando
l’ondeggiare delle spighe ormai mature, Gesù disse ai suoi discepoli: La messe è molta, ma gli operai sono pochi! Pregate dunque il padrone della messe che mandi operai nella sua messe!. Anche oggi, come ieri, mancano i braccianti disposti a sopportare il peso della giornata e il caldo. Se poi noi, che già lavoriamo, non siamo fedeli, accadrà quanto ha scritto il profeta Gioele: Devastata
è la campagna, piange la terra, perché il grano è devastato, è venuto a
mancare il vino nuovo, è esaurito il succo dell’olivo. Affliggetevi,
contadini, alzate lamenti, vignaiuoli, per il grano e per l’orzo,
perché il raccolto dei campi è perduto
.

La messe si perde quando non si vuole accettare generosamente un lavoro
intenso, a volte anche lungo e faticoso: preparare la terra, gettare la
semente, avere cura dei campi, provvedere alla mietitura e alla
trebbiatura… Il Regno di Dio si edifica nella storia, nel tempo. Il
Signore ne ha affidato il compito a noi tutti, e nessuno può sentirsene
esentato. Oggi, mentre adoriamo e contempliamo Cristo nell’Eucaristia,
ricordiamoci che non è ancora giunta l’ora del riposo: la giornata
continua.

Nel Libro dei Proverbi leggiamo: Chi coltiva la sua terra si sazia di pane.
Cerchiamo di applicare spiritualmente a noi stessi questo passo: chi
non lavora il terreno di Dio e non è fedele alla missione divina di
servizio agli altri, aiutandoli a conoscere Cristo, difficilmente
riuscirà a capire che cos’è il Pane eucaristico. Non si apprezza ciò
che non costa sforzo. Per stimare e amare la Sacra Eucaristia, è
necessario percorrere lo stesso cammino di Gesù: essere grano di
frumento, morire a noi stessi, risorgere pieni di vigore e dare frutto
abbondante: il cento per uno!.

Questo cammino si riassume in una sola parola: amare. Amare vuoi avere
il cuore grande, sentire le preoccupazioni di quelli che ci circondano,
saper perdonare e comprendere, sacrificarsi in unione a Gesù Cristo per
tutte le anime. Se impariamo ad amare con lo stesso cuore di Cristo,
impareremo a servire, a difendere con generosità e chiarezza la verità.
Per amare in questo modo, è necessario estirpare dalla propria vita
tutto quanto è di ostacolo alla vita di Cristo in noi: l’attaccamento
alla comodità, le suggestioni dell’egoismo, la tendenza alla
vanagloria… Potremo trasmettere agli altri la vita di Cristo, solo a
condizione di riprodurla in noi stessi; potremo lavorare nelle viscere
del mondo, trasformandolo dal di dentro, renderlo fecondo, solo a
condizione di sperimentare in noi stessi la morte del chicco di
frumento.

Forse qualche volta ci viene la tentazione di pensare che tutto ciò è
bello, ma è un sogno irrealizzabile. Vi ho già detto di rinnovare la
fede e la speranza: siate, dunque, perseveranti, e abbiate la sicurezza
che le vostre aspirazioni saranno colmate dalle meraviglie di Dio. Ma è
indispensabile che ci ancoriamo solidamente alla virtù cristiana della
speranza. Cerchiamo di non abituarci ai miracoli che si compiono
dinanzi ai nostri occhi: a questo mirabile prodigio del Signore che
scende ogni giorno nelle mani del sacerdote. Gesù ci vuole ben desti
davanti alla grandezza del suo potere, davanti alle parole della sua
promessa: Venite post me, et faciam vos fieri piscatores hominum,
seguitemi, e vi farò pescatori d’uomini, sarete efficaci e porterete le
anime a Dio. Dobbiamo dunque aver fiducia nelle parole del Signore;
dobbiamo salire sulla barca, mettere mano ai remi, issare le vele e
lanciarci nel mare del mondo che Cristo ci affida come sua eredità. Duc in altum et lavate retia vestra in capturam, spingetevi al largo e gettate le reti per la pesca!

Lo zelo apostolico che Cristo ha posto nel nostro cuore non deve
estinguersi per falsa umiltà. Se è pur vero che trasciniamo le nostre
miserie, è altrettanto vero che il Signore fa leva anche sui nostri
errori. Al suo sguardo misericordioso non sfugge che gli uomini sono
creature limitate, deboli, imperfette, inclini al peccato. E tuttavia
ci comanda di lottare, di riconoscere i nostri difetti non per
disperare, ma per pentirci e maturare l’impegno di migliorare.

Dobbiamo inoltre ricordare sempre che siamo soltanto strumenti: Ma
che cosa è mai Apollo? Cosa è Paolo? Ministri attraverso i quali siete
venuti alla fede e ciascuno secondo che il Signore gli ha concesso. Io
ho piantato, Apollo ha irrigato, ma è Dio che ha fatto crescere
. La
dottrina che portiamo, il messaggio che dobbiamo diffondere, hanno una
fecondità propria e infinita, che non ci appartiene, perché è di
Cristo. È Dio stesso che si è assunto l’impegno di compiere l’opera
salvifica, di redimere il mondo.

È dunque necessaria una fede grande, che vinca sia lo scoraggiamento,
sia la tentazione di calcoli puramente umani. Per superare gli
ostacoli, è necessario mettere mano al lavoro, impadronirci del compito
che ci tocca, affinché lo stesso sforzo ci apra nuovi sentieri. La
panacea per ogni difficoltà è una sola: santità personale, dedizione al
Signore.

Essere santi vuol dire, né più né meno, vivere come ha stabilito il
Padre nostro che è nei Cieli. Mi direte che è difficile. E lo è;
l’ideale è ben alto. Ma al tempo stesso è facile, perché è a portata di
mano. Quando qualcuno cade ammalato, gli può capitare di non trovare la
medicina adatta. Sul piano soprannaturale questo non avviene. La
medicina è sempre vicina: è Cristo Gesù, presente nella Sacra
Eucaristia, che ci dà la sua grazia anche attraverso gli altri
sacramenti che ha voluto istituire.

Ripetiamo, dunque, con le parole e con le opere: Signore, confido in
te; mi basta la tua provvidenza ordinaria, il tuo aiuto d’ogni giorno.
Non dobbiamo chiedere al Signore grandi miracoli. Dobbiamo piuttosto
supplicarlo di aumentare la nostra fede, di illuminare la nostra
intelligenza, di fortificare la nostra volontà. Gesù resta sempre
vicino a noi e si comporta sempre per quello che è.

Fin dall’inizio della mia predicazione vi ho messo in guardia contro una falsa deificazione.
Non turbarti quindi nel riconoscerti come sei: una creatura di fango.
Non preoccuparti. Perché tu e io siamo figli di Dio — ecco la vera deificazione — scelti per chiamata divina fin dall’eternità: Ci ha scelti, il Padre, in Gesù Cristo, prima della fondazione del mondo, per essere santi e immacolati al suo cospetto.
Noi, che apparteniamo a Dio in modo peculiare e che, nonostante la
nostra miseria, siamo strumenti suoi, saremo efficaci nella misura in
cui non perderemo la cognizione della nostra debolezza. Le tentazioni
ci segnalano le dimensioni della nostra miseria.

Se provate tristezza costatando con evidenza la meschinità della vostra
condizione, vuoi dire che è giunto il momento dell’abbandono completo e
docile nelle mani di Dio. Narrano di un mendicante che un giorno si
fece incontro ad Alessandro Magno chiedendo l’elemosina. Alessandro si
fermò e diede ordine che lo facessero signore di cinque città. Il
poveretto, sconcertato, esclamò: « Io non chiedevo tanto! ». E
Alessandro, di rimando: « Tu hai chiesto da quel che sei; io ti ho dato
da quel che sono ». E noi, dunque, anche nei momenti in cui più
brutalmente costatiamo i nostri limiti, possiamo e dobbiamo rivolgerci
a Dio Padre, a Dio Figlio e a Dio Spirito Santo, consapevoli di
partecipare alla vita divina. Non esistono ragioni sufficienti a farci
volgere indietro lo sguardo; il Signore è con noi. Dobbiamo affrontare
i nostri doveri fedelmente e lealmente, cercando in Gesù l’amore e lo
stimolo per comprendere gli errori altrui e superare i nostri. E così
la nostra miseria, la tua, la mia e quella di tutti gli uomini, servirà
di sostegno al regno di Cristo.

Riconosciamo le nostre infermità, ma confessiamo la potenza di Dio. La
vita cristiana deve essere informata dall’ottimismo, dalla gioia, dalla
certezza che il Signore vuole servirsi di noi. Consapevoli di essere
parte della Chiesa santa, di essere saldamente ancorati alla roccia di
Pietro e sostenuti dall’azione dello Spirito Santo, ci decideremo a
compiere il piccolo dovere di ogni istante: seminare ogni giorno un
po’. Il raccolto traboccherà dai granai.

Concludiamo questa meditazione. Assaporando nel vostro intimo
l’infinita bontà di Dio, pensate che Cristo, alle parole della
Consacrazione, si fa realmente presente nell’Ostia, in Corpo, Sangue,
Anima e Divinità. Adoratelo con riverenza e devozione; rinnovate in sua
presenza l’offerta sincera del vostro amore; ditegli senza timore che
lo amate, rendetegli grazie per questa prova quotidiana della sua
amabile misericordia, e crescete nel desiderio di avvicinarvi con
fiducia alla Comunione. Io mi commuovo dinanzi a questo mistero
d’Amore: il Signore cerca il mio povero cuore per farne il suo trono,
per non abbandonarmi, a condizione che io non mi allontani da Lui.

Ricreàti dalla presenza di Cristo, rifocillati dal suo Corpo, sapremo
essere fedeli in questa vita terrena per chiamarci poi vincitori nel
Cielo, accanto a Gesù e a Maria sua Madre. Dov’è,
o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione? Siano
rese grazie a Dio che ci dà la vittoria per mezzo del Signore nostro
Gesù Cristo
.

Fonte:
Opus Dei