La lavanda dei piedi in Giovanni 13,1-20

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1IL GENERE LETTERARIO DEL “MIMO”

Per capire i testi neotestamentari di istituzione dell’Eucarestia e della lavanda dei piedi bisogna avere ben presente quel genere letterario, così frequentemente adoperato nei libri profetici, che è il “mimo”. Nel linguaggio dei profeti, infatti, un posto particolarissimo occupano le azioni simboliche: sono più di trenta, e precedono o accompagnano le esposizioni orali. Proprio per significare che la Parola di Dio non è puro “afflatus vocis”, ma fatto che si compie, storia concreta, il profeta, su ordine divino, la incarna in gesti simbolici – rivelativi. Talora sono vere pantomime, piccole “scenette”, brevi “spot pubblicitari” che devono servire a imprimere bene, nella mente degli astanti, un determinato concetto o una particolare rivelazione. 

2I MIMI PROFETICI

Mimi profetici nell’Antico Testamento

Già i profeti più antichi accompagnavano spesso la loro parola con gesti espressivi: Samuele vede nella lacerazione del suo mantello il segno che il Regno di Israele sarà tolto a Saul (1 Sam 15,27-28); Achia di Silo divide il suo mantello in dodici pezzi e ne dà dieci a Geroboamo, per significare la divisione di Israele in due regni (1 Re 11,29-32); così il falso profeta Sedecia si fa delle corna di ferro per simboleggiare la forza con cui, secondo lui, i re di Israele e di Giuda sconfiggeranno gli Aramei (1 Re 22,10-12). 

Geremia è uno dei profeti che più usa il genere del mimo: il mandorlo, che attende la primavera, è segno di Dio che vigila sul suo popolo (ma c’è anche un gioco di parole tra “shaqed”, mandorlo, e “shoqed”, io vigilo: Ger 1,11-12); la caldaia inclinata verso il mezzogiorno descrive plasticamente l’imminente invasione dal nord (Ger 1,13-15); il profeta si compra una preziosa cintura e la pone a marcire nell’Eufrate, per ammonire che anche Israele, prima “attaccato” al suo Dio, ora sarà da lui fatto “marcire” nell’esilio babilonese (Ger 13,1-11); ancora Geremia fracassa boccali pieni di vino (Ger 13,12-14) e spezza davanti agli astanti una pregiatissima brocca di terracotta (Ger 19), per indicare che presto la casa di Israele sarà allo stesso modo distrutta; paragona Dio, che regge la storia di Israele, al vasaio che modella l’argilla (Ger 18,1-12); con i due canestri di fichi, uno per i fichi buoni e uno per quelli cattivi, annuncia che l’Altissimo in mezzo agli esuli si formerà un nuovo popolo, mentre saranno rigettati gli ebrei rimasti in Giuda o in Egitto (Ger 24,1-10); va in giro per Gerusalemme con un pesante giogo sulle spalle, per significare l’imminente cattività babilonese (Ger 27); poi, mentre Nabucodonosor assedia la città santa e Geremia languisce nelle prigioni di Sedecia, il profeta dispone l’acquisto di un campo in Anatot, quale pegno di un avvenire invece felice (Ger 32); scrive gli oracoli contro Babilonia, e poi ne getta il rotolo, legato a una pietra, nell’Eufrate, per annunciare la tragica fine della nazione dominante (Ger 51,60-64); la stessa vita da celibe del profeta diventa segno dell’imminente distruzione di Israele (Ger 16,1-4)…  

Anche altri profeti spesso si esprimono con queste gestualità simboliche: Isaia cammina spoglio e scalzo per tre anni per indicare l’ormai prossima deportazione assira (Is 20). Ezechiele annuncia la distruzione di Gerusalemme attraverso vari mimi: l’assedio alla tavoletta su cui è disegnata la città, l’immobilità del profeta, il cibo misero e razionato, i capelli bruciati e dispersi (Ez 3,24-5,17); prepara il bagaglio dell’emigrante e parte di notte per significare l’imminente deportazione (Ez 12,1-20)… Come già Osea aveva interpretato in senso simbolico il suo dramma personale di marito tradito che però non divorzia, così come Dio mai si separa dal suo popolo infedele (Os 1-3), così Ezechiele legge in senso simbolico le sue prove personali: la sua malattia (Ez 4,4-8) e la morte della moglie (Ez 24,15-24) come segno del castigo di Israele, la guarigione dal suo mutismo come conferma della sua autorità profetica (Ez 3,26-27; 24,27; 33,22). Zaccaria spezza due bastoni per significare l’oppressione straniera e lo scisma interno a Israele (Zac 11,7-17)…

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“I profeti… accompagnavano la loro profezia con gesti simbolici… per esigenze di un realismo religioso: uno stretto legame viene a stabilirsi tra il gesto significante e la realtà di cui esso è segno, di modo che la realtà annunciata diventa ormai irrevocabile alla pari del gesto compiuto” (Bibbia di Gerusalemme).

Mimi profetici nel Nuovo Testamento

Anche nel Nuovo Testamento troviamo mimi. E’ un mimo la maledizione del fico che non porta frutto (Mc 11,12-14), per indicare la condanna di Israele che di fronte a Dio è improduttivo (Nm 20,5; Sl 105,33; Is 34,4; Ger 8,13; 24; Mi 7,1; Os 9,16; Ez 17,24), anche se quella di Gesù più che una sanzione è una constatazione (cfr Lc 13,6-9). 

Altro mimo è la cacciata dei venditori dal tempio (Mc 11,15-19), che realizza l’attesa escatologica della purificazione della casa di Dio (Ml 3,1-3; Zc 14,21): Gesù la restaura come luogo di preghiera (Ne 13,4-13) e la apre ai pagani (il luogo di mercato era l’“Atrio dei pagani”; cfr Mc 15,38; Ef 2,14), manifestandosi Signore del Tempio e Sacerdote; nella versione di Giovanni caccia dal luogo santo anche le pecore (Gv 2,15), perché è lui ormai l’Agnello che pone fine ai sacrifici antichi.

Gesù si presenta come Messia, e lo fa attraverso un’altra azione simbolica: egli entra in Gerusalemme cavalcando un asino (Mc 11,1-11) per realizzare la profezia di Zaccaria (Zc 9,9-10): egli è il “salvato” (Zc 9,9: “Egli è giusto e salvato”) che diventa Salvatore come il Servo di IHWH (Is 49,7), umile, perché cavalca un somaro e per di più preso a ore (Dt 17,16; 1 Re 10,26-29; 2 Cr 1,14-17), Santo (monta un asino mai prima usato), Re (il brano descrive una vera intronizzazione: 2 Re 9,13; 2 Mac 10,17); inoltre monta sull’asino messianico che la tradizione rabbinica aveva visto preannunciato nella Genesi (Gen 49,11: “Egli lega alla vite (ndr: Israele) il suo asinello”, l’animale si cui Abramo aveva fatto montare Isacco per il sacrificio (Gen 22). Anche negli Atti degli Apostoli troviamo mimi esplicativi, come quando il profeta Agabo si lega mani e piedi con la cintura di Paolo per indicare l’imminente cattura dell’Apostolo (At 21,10-11).

3L’EUCARESTIA “MIMO” PROFETICO

Farsi mangiare dagli uomini

Quando Gesù istituisce l’Eucarestia, opera anzitutto un mimo profetico. Quanto compie nell’ultima cena è “l’ultima parabola di Gesù” (J. Jeremias, citato in X. Léon-Dufour). Porgendo il pane, dice: “Questo è il mio corpo dato per voi”; offrendo il calice: “Questo è il mio sangue, versato per voi” (Lc 22,19-20): il primo significato di questa azione è che egli si è donato totalmente agli uomini, che la sua vita è stata oblazione piena per la vita dei fratelli, che si è interamente consumato per essi, e che egli è diventato, offrendosi per loro come il pane e il vino, il loro sostegno e la loro sopravvivenza. “Distribuendo il pane, Gesù manifesta con le parole che <<si dà per>>. Facendo circolare il calice, dichiara che <<versa il suo sangue>>. I due gesti di Gesù ne ricevono un valore simbolico: il dono della propria persona a vantaggio dei discepoli, che giunge fino allo spargimento del sangue” (X. Léon-Dufour). “Davanti ai suoi discepoli Gesù fa un mimo della sua morte, rappresentandola davanti a loro; è l’atteggiamento di un profeta e di un martire che porta la missione fino al suo compimento, dando alla sua propria morte un significato di amore e di servizio” (A. Marchadour).

La volontarietà del dono

Due sono le sottolineature che Gesù vuole dare al suo gesto. La prima è l’assoluta volontarietà del suo donarsi: il suo farsi uomo fino alla morte non è dato dall’ineluttabilità del caso, ma è sua libera scelta d’amore: “La mia vita, nessuno me la toglie, ma  la offro da me stesso, perché ho il potere di offrirla” (Gv 10,18); “Ora l’anima mia è turbata; e che devo dire? Padre, salvami da quest’ora? Ma per questo sono giunto a quest’ora!” (Gv 12,27). Gli evangelisti sapevano che “il Padre gli aveva dato tutto nelle mani” (Gv 13,3), e apposta rimarcano che Gesù prevede il tradimento di Giuda. Tutti i racconti di istituzione eucaristica sono sotto il segno di questa consapevolezza di Gesù: “In verità vi dico, uno di voi, colui che mangia con me, mi tradirà” (Mc 14,18); “La mano di chi mi tradisce è con me, sulla tavola” (Lc 22,21); “Colui che ha intinto con me la mano nel piatto, quello mi tradirà” (Mt 26,23; cfr Gv 13,26). Gesù accetta quindi volontariamente fino in fondo la sua condivisione con l’uomo: non si tira indietro, non fugge. Deliberatamente si offre. “Per questo nell’Ultima Cena <<se dat suis manibus>>: la sua Passione sarà il Corpo dato e il Sangue versato da lui” (A. Bozzolo). 

La totalità del dono

Il secondo aspetto del mimo profetico è l’assoluta totalità del suo donarsi: Cristo, “avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine” (Gv 13,1), fino al supremo compimento dell’amore, che è dare la vita per coloro che si amano (cfr Gv 15,13): il pane mangiato e il vino bevuto sono il segno di questo “consumarsi” per i suoi, farsi tutto per essi. 

“Farsi mangiare” come Gesù

Nella lettura biblica del mimo il primo significato è quindi l’invito al dono totale agli altri, sull’esempio del Maestro. Gli altri significati (la presenza reale di Cristo, il sacrificio della Nuova Alleanza, un segno escatologico…), ci sono certamente, ma sono a questo secondari e da questo traggono luce e comprensione. 

Quando Gesù comanda ai suoi: “Fate questo in memoria di me” (Lc 22,19; 1 Cor 11,24-25), vuole innanzitutto dire che anche i suoi dovranno farsi dono totale agli altri, sacrificarsi “fino alla fine” (Gv 13,1), svuotarsi totalmente per gli altri, diventare come lui solo amore, agape, carità, comunione, condivisione, servizio. “<<Fate questo in memoria di me>>…: questo è il cuore dell’Eucarestia. Ma, fare qualcosa in memoria di Gesù significa sentire, agire, pensare e amare in modo che Gesù sia riconoscibile in noi. La commemorazione ha luogo grazie alla testimonianza offerta dall’assemblea, per se stessa e per il mondo” (P. Bernier). “Gesù non ha dato un pezzo di pane agli uomini ma tutto se stesso, la sua vita (corpo e sangue), e chiede ai discepoli di fare altrettanto. Il pane (spezzato), e il vino (versato) simboleggiano quanto egli ha compiuto; ma per essere in linea con lui, per rispettare il suo volere non basta rinnovare i simboli senza ripetere sul piano storico ciò che essi significano” (O. da Spinetoli). 

Questo è “l’aspetto fondamentale e proprio della logica cristiana: io devo essere pane… E’ forse la conseguenza più armonica con la pratica eucaristica, certamente la più difficile… Amore sino alla fine: non dare del pane, ma essere io pane che nutre, questa è l’estrema e semplice istanza del mistero del pane. Non aver soltanto del frumento, ma essere pane che si spezza per la manducazione, questa è l’estrema conseguenza del <<fare questo in memoria di me>>“ (S. Maggioni). “Pertanto non si può separare la celebrazione del sacramento dall’atteggiamento verso i fratelli, dall’edificazione della comunità” (H.D. Wendland). 

Celebrare l’Eucarestia allora non deve essere una pia abitudine, ma un gesto che mi coinvolge a fondo, che cambia la mia vita sul modello di quella del Cristo: è l’atto del mio proposito di diventare, come Gesù, dono totale, servizio disinteressato, comunione vivente con i fratelli. “E’ troppo comodo ridurre il proprio impegno allo spezzamento del pane (invece che del proprio corpo) e al versamento del vino, o assistere a tale rito senza fare nulla di quello che Cristo ha fatto prima di ritualizzare il suo operato. Appellarsi alla sua <<presenza>> e alla sua azione (magica) attraverso i simboli è dimenticare volutamente le sue precise intenzioni. Gesù ha parlato di donazione, di spargimento, di spezzamento, non di presenza… La partecipazione eucaristica non è un atto devozionale, ma una prova di coraggio, una decisione presa davanti a tutti di <<darsi>> e <<spargersi>> per la moltitudine, come Cristo” (O. da Spinetoli).

4LA LAVANDA DEI PIEDI  (Gv 13,1-20)

Forse proprio già in risposta a stravolgimenti della comprensione eucaristica nella prima Chiesa, Giovanni, l’apostolo che Gesù amava (Gv 21,20) e che nell’ultima Cena aveva posato il capo sul petto del Maestro (Gv 13,25), non menziona nel suo Vangelo, a differenza dei sinottici, l’istituzione dell’Eucarestia “prima della festa di Pasqua” (Gv 13,1), ma, al suo posto, pone la descrizione della lavanda dei piedi. Un’interessante spiegazione la riporta Carlo Maria Martini, in “La pratica del testo biblico”: egli si rifà a un libretto del grande biblista americano Raymond Brown, che spiega la scelta dell’autore nel modo seguente. Al tempo di Giovanni c’erano delle divisioni nelle comunità cristiane attorno alla celebrazione, proprio come già Paolo aveva denunciato in 1 Cor 11,17-18: “Mentre vi do queste istruzioni, non posso lodarvi, perché vi riunite insieme non per il meglio, ma per il peggio. Innanzi tutto sento dire che, quando vi radunate in assemblea, vi sono divisioni tra voi, e in parte lo credo”. Forse, stanco appunto di queste divisioni, l’evangelista ha ritenuto fosse meglio sottolineare il significato profondo dell’Eucarestia; questo significato profondo è l’amore; infatti l’Eucarestia, istituzione per la vita terrena, passerà, mentre l’amore è eterno.

Come ci ricorda Giovanni Paolo II: “Significativamente, il Vangelo di Giovanni, laddove i Sinottici narrano l’istituzione dell’Eucaristia, propone, illustrandone così il significato profondo, il racconto della <<lavanda dei piedi>>, in cui Gesù si fa maestro di comunione e di servizio (cfr Gv 13,1-20)” (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 2003, n. 20). Tale sostituzione non è casuale: Giovanni non trascura certamente l’importanza dell’Eucarestia, cui ampio spazio dedica in altra parte del suo Vangelo: egli vuole insegnare che la migliore comprensione dell’Eucarestia è il racconto di Gesù che si mette a lavare i piedi ai discepoli! Bisogna quindi avere il coraggio di leggere il gesto della lavanda dei piedi in sinossi con i racconti dell’Eucaristia, perché proprio volutamente Giovanni lo pone al posto dell’istituzione eucaristica. “L’Eucarestia è il sacramento della carità e del servizio, è il sacramento di Cristo-servo” (J. Dupont).

Con la lavanda dei piedi Gesù compie un altro mimo profetico, per prefigurare la sua Passione (Gv 13,1-11) e dare esempio di umile abnegazione (Gv 13,12-20). 

5Esegesi 

v. 1: Prima della festa di Pasqua Gesù, sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine.

Siamo di fronte a un’introduzione solennissima, quasi un secondo Prologo del 4° vangelo, perché richiama le grandi coordinate della salvezza: il Figlio che viene dal Padre, ritorna al Padre, vive la sua Ora nella Pasqua con assoluta consapevolezza, lotta contro Satana. E’ questa la terza Pasqua della vita pubblica di Gesù (la 1° è citata al cap.2, dopo il miracolo di Cana e la 2° al cap.6, prima della moltiplicazione dei pani). La Pasqua nel mondo ebraico è una festa di grande significato: ricorda la liberazione dall’Egitto, la nascita della comunità e riassume tutta la storia del popolo di Israele. L’evangelista pone in questo momento fondamentale la conclusione della vita terrena di Gesù ed inserisce in questa storia l’evento centrale della redenzione. “Prima della festa di Pasqua” non è semplicemente un’indicazione cronologica, ma è un’indicazione teologica: quanto Gesù sta per fare è la vera Pasqua. Del resto è significativo che, a partire da Gv 12,1, la Pasqua non viene più denominata “Pasqua dei Giudei”, ma “Pasqua di Gesù”. E’ Lui, d’ora innanzi, l’agnello di Dio che libererà l’uomo dal suo peccato. (cfr. il parallelo tra feste giudaiche e loro superamento in Gesù).

v. 1b: Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre

Giovanni usa due verbi greci diversi per parlare della conoscenza di Gesù: uno indica in genere il conoscere comune (“ginoskein”), per esperienza umana; l’altro (“eidènai”) designa una conoscenza particolare che deriva al Cristo dall’intimità unica che vive con il Padre: è il conoscere per intimità filiale, un conoscere superiore cui Egli accede come Figlio, un “conoscere” che si radica nella relazione senza pari che unisce Gesù al Padre. Gesù sa (“eidòs”); dunque quanto sta succedendo non coglie Gesù impreparato. Il Gesù giovanneo è sommamente padrone degli eventi. Egli sa “che è giunta la sua ora di passare da questo mondo al Padre”, cioè il momento del dono della sua vita. Egli è pienamente consapevole della imminenza della Passione e del fatto che la Croce è il “passaggio” al Padre: non morte ma ascensione. Passare: allusione al significato di “Pasqua”.  

v. 1 c: “Dopo aver amato i suoi che erano nel mondo…

Questo versetto ha una funzione retrospettiva: ci fornisce la chiave in base alla quale capire che quanto Gesù ha operato in precedenza è stato una manifestazione di amore nei confronti dei suoi, mai prima menzionato, se non in riferimento a Marta, Maria e Lazzaro. Esso ricorda e ricapitola tutti gli infiniti atti d’amore che hanno costellato la vita di Gesù, perché Egli non è venuto e non ha agito che per amore, verso il Padre e verso tutti gli uomini. 

Se l’amore per “i suoi”, coloro che formano la nuova comunità, è stato evidente mentre era con loro, esso splenderà in modo eminente nella sua morte. Infatti la conclusione della vita di Gesù è ancora un amore senza confini, il più alto che si possa immaginare.

Il verbo che Giovanni predilige per indicare l’amore è “agapàn”, e non “filéin” (l’amore umano), e con questo Giovanni sottolinea gli aspetti religiosi dell’amore. “Agapàn” infatti vuole significare un amore religioso, nel senso di un amore che viene da Dio e si modella su quello di Dio, amore gratuito, totale, immutabile e definitivo. “Agàpe” indica l’amore di Dio per gli uomini, quale si realizza in Cristo, e l’amore degli uomini per Dio e per il prossimo, come frutto della presenza dello Spirito in essi. Il luogo per comprendere il significato dell’agape non è perciò l’esperienza umana, ma l’alleanza di Dio, in concreto l’intera esistenza del Cristo con particolare riferimento alla Croce.

v. 1 c: “i suoi che erano nel mondo”.

“I suoi” è espressione intenzionalmente generica, perché indica i discepoli, anzitutto, ma anche i credenti di ogni tempo (quindi ciascuno di noi!), e anche semplici uomini in ricerca, perché non c’è spirito umano nel quale Gesù non crei uno spiraglio di desiderio di accoglienza e di luce. A tutti coloro che sperimentano la sofferenza e la fatica di un mondo ostile alla verità, Gesù esprime predilezione, amicizia e amore.

v. 1 d: “…li amò sino alla fine”,

“Sino alla fine”, cioè fino a dare tutto di sé, fino all’autoannientamento, alla morte, alla “kenosis”, parola greca che significa “svuotamento”; nel linguaggio biblico-teologico indica la rinuncia di Cristo alla sua originaria uguaglianza con Dio, per presentarsi nella forma di “servo”, fino alla morte (Fil 2, 5-8). Gesù amò non solo fino all’ultimo respiro, fino all’ultimo istante di vita, ma fino alla perfezione, al massimo di profondità, definitivamente, nel più alto grado, oltre ogni misura. Come osserva S. Giovanni Crisostomo, “eis telos” (= sino alla fine) significa contemporaneamente nozione di tempo e nozione di misura nel più alto grado. In questa frase (13,1) Giovanni ha riassunto tutta la vita di Gesù: l’amore per i discepoli fino a quel momento e poi, da lì in avanti, per il tratto di strada che rimane fino alla croce. In questo sta la massima rivelazione: Gesù è la trasparenza del Padre; Gesù dimostra in concreto quello che è il Padre, di cui Egli è la trasparenza: DIO E’ AMORE. E qui siamo davvero al vertice non solo della teologia giovannea e del Nuovo Testamento, ma direi di tutte le religioni. Può essere interessante ricordare che nel Corano ci sono i 99 bei nomi di Dio (ad es. il Fedele, il Custode, l’Immenso, il Perdonatore, etc.), che in pratica corrispondono, almeno in parte, a denominazioni del Primo Testamento. I mussulmani sostengono che il 100° nome non è reso pubblico, ma è noto solo agli “eletti”. Potrebbe essere quello che manca anche nel Primo Testamento, ma è presente nel Nuovo, qui in Giovanni: Dio è amore (in allegato vedi l’elenco dei 99 bei nomi di Dio). Dio è amore. Osserva Frère Roger di Taizé: “Se solo cogliessimo queste tre parole, andremmo lontano, molto lontano. Che cosa ci attrae in queste parole? In esse troviamo questa certezza: Dio non ha mandato Cristo sulla terra per condannare, ma perché ogni essere umano sappia di essere amato e possa trovare un cammino di comunione con Dio”.

vv. 4-17: la lavanda dei piedi

Al tempo di Gesù la lavanda dei piedi era un gesto che esprimeva ospitalità e accoglienza nei confronti degli ospiti. Poiché i piedi, calzati solo di sandali, tendevano a impolverarsi sulle strade non lastricate, era usanza degli Ebrei fornire acqua a un ospite perché si lavasse i piedi. Ma:

– come ci dice il midrash Mekilta su Es 21,2, non si poteva esigere da uno schiavo ebreo che lavasse i piedi al padrone. In via ordinaria questo gesto era svolto da uno schiavo pagano (cfr 1 Sam 25,41), – tale gesto poteva essere fatto dalla moglie nei confronti del marito o anche dalle figlie verso il loro padre. In un’opera giudaica alessandrina si racconta che quando Asenath, promessa sposa di Giuseppe, si offre di lavargli i piedi, Giuseppe protesta che potrebbe farlo una serva; ma Asenath esclama devotamente: “I tuoi piedi sono i miei piedi…nessun altro laverà i tuoi piedi”

– in segno di devozione, tuttavia, i discepoli occasionalmente rendevano questo servizio al loro maestro o rabbi; e Gesù sembra alludere a questa usanza quando parla coi suoi discepoli. Così, nella lavanda dei piedi Gesù umilia se stesso e assume la forma del servo. È quasi come se egli mettesse in atto le parole di Lc 12,37: “Beati quei servi che il padrone al suo ritorno troverà ancora svegli… egli si cingerà le vesti, li farà mettere a tavola e passerà a servirli”. È possibile che oltre ad essere considerata un atto di umile devozione, la lavanda dei piedi fosse intesa come un tradizionale atto di amore.

Nel rituale del pranzo di Pasqua non c’era niente che si possa paragonare alla lavanda dei piedi. La lavanda dei piedi avveniva quando uno entrava in casa, non durante il corso di un pasto. Il rituale di Pasqua prescriveva una lavanda delle mani dopo la seconda coppa, ma non ci sono prove che l’azione di Gesù fosse una variante di quella usanza.

Gesù però non compie il gesto prima della cena, ma durante e così esso diventa “fuori luogo” e inconsueto. Perché? Che significato ha?

Gesù compie un gesto assolutamente inaspettato e incompreso, un gesto di grande umiltà, di abbassamento da parte di Gesù, visto che neppure gli schiavi ebrei erano tenuti a farlo! Quello di Gesù non è solo un gesto di umiltà, ma di rivelazione, cioè fa scorgere il volto del Dio che Gesù manifesta, del Dio cristiano. Anzitutto è la visibilizzazione di quello che Paolo dice nell’inno di Filippesi 2, già ricordato: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso (letteralmente dovremmo dire: una preda) la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso….”: è il famoso “eskenosen” (cfr. kenosis prima spiegato) che dice lo spogliamento totale. Quello che Paolo dichiara in quell’inno, dal punto di vista teologico, Gesù lo mostra attraverso un gesto sommamente strano. E’ quello che anche Luca dice con le parole: “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Lc 22,27), ma espresso con questa forza che Giovanni ha in modo unico. Per questo è molto più che un gesto di umiltà. Guardando Gesù che lava i piedi, non hai semplicemente l’icona del servizio, ma un’icona che Maggioni chiama “del Dio capovolto”. Con il suo gesto Gesù rende visibile la logica – di amore, di servizio, di dono – che ha guidato tutta la sua esistenza, che esprime la sua dignità e la sua filiazione: è servendo e donandosi che il Cristo si rende disponibile nelle mani del Padre, divenendone l’immagine e la trasparenza. 

v. 4:  si alzò da tavola, depose le vesti e, preso un asciugatoio, se lo cinse attorno alla vita.

Finché l’amore rimane “seduto”, chiuso in noi, prigioniero della nostra pigrizia e della nostra paura, rimane un bel sentimento che tutt’al più ci tormenta il cuore. L’amore ha bisogno di libertà, ha bisogno di esprimersi, deve uscire dal nostro cuore per comunicarsi con chi ci è prossimo, deve trasformarsi in azione, in cure amorevoli per chi ci è vicino, in carità. 

Nella Bibbia esiste una “teologia del vestito”: la veste designa il ruolo, ha sempre valenze simboliche importanti, dalla nudità in cui scoprono Adamo ed Eva peccatori e dalla spogliazione di Gesù della sua tunica prima di crocifiggerlo, fino alle vesti sacerdotali o a quelle bianche tipiche della sfera del divino.

vv. 6-11

Struttura tripartita rabbinica: compiere un gesto misterioso, per suscitare una domanda, da cui scaturisce una risposta Pietro reagisce vivacemente a quanto sta per fargli Gesù; rifiuta tale umiliazione del Maestro. Non è accettabile, per Pietro, che Gesù abbandoni la sua posizione di superiorità per rendersi uguale ai suoi discepoli. Tale idea del Maestro disorienta Pietro e lo porta a protestare. Però, non accettando il servizio d’amore del suo Maestro, Pietro non accetta neanche che Egli muoia in croce per lui, cfr Gv 12,32: “E io, quando sarò innalzato da terra, attirerò tutti a me”. E’ come dire che Pietro è lontano dalla comprensione di che cosa sia il vero amore, e tale ostacolo è di impedimento perché Gesù glielo mostri con l’azione. 

Il Maestro gli oppone: “lo capirai dopo”, espressione che in Giovanni si riferisce sempre al periodo postpasquale; e poi “se non ti laverò, non avrai parte con me”. “Aver parte” è un’espressione semitica: la parte è l’eredità che Dio accorda al suo popolo (cfr. Gen 31,14; 2 Sam 20,1; 1 Re 12,16). Nella riflessione giudaica il tema dell’eredità si è approfondito in tre direzioni: individuale, spirituale ed escatologico. L’eredità non è più semplicemente la terra di Palestina, ma la comunione con Dio, e non è più un presente, ma un futuro. Così nelle parole di Gesù l’espressione propone un’appartenenza definitiva a Lui, una comunità di vita con Lui. 

Pietro pensa di comprendere che si tratti di un nuovo rito di purificazione: infatti si offre di farsi lavare non solo i piedi, ma anche le mani e la testa. Sembra che a Pietro sia più facile accettare il gesto di Gesù come un’azione di purificazione o abluzione piuttosto che come servizio. Ma si sbaglia; Gesù scarta questa interpretazione facendo appello ad una specie di proverbio: quando si è fatto il bagno, non si ha bisogno di lavarsi. Gesù dunque respinge l’interpretazione rituale di Pietro: nonostante l’impiego dell’acqua, il suo gesto non mira a una purificazione. 

Giovanni certo parla di “lavare”, ma non confonde tale gesto con quello di un “bagno” che ha già avuto luogo ed è sufficiente. A quale purificazione precedente si riferisce? Lo si capisce dal contesto giovanneo. Qui è detto: “voi siete puri” e nel discorso di addio: “voi siete già puri, a causa della Parola che vi ho annunciato” (15,3). I discepoli sono del tutto puri grazie al loro ascolto della Parola; se basta la fede, il gesto di Gesù non può significare una purificazione. Qual è allora il suo senso? Gesù non lo precisa. Tuttavia l’evangelista, che scrive dopo la Pasqua, lo suggerisce con chiarezza attraverso la convergenza dei tratti narrativi. Mediante i versetti di introduzione, la scena della lavanda dei piedi è posta sotto il segno del passaggio di Gesù al Padre e sotto il segno del tradimento, perciò è situata nella prospettiva dell’imminente Passione. Il gesto di Gesù traduce visivamente un atteggiamento di servizio senza riserve, un servizio di cui Gesù dice a Pietro che potrà essere compreso solo più tardi, grazie alla venuta dello Spirito: è il dono di sé che Gesù farà consegnandosi alla morte, come visto sopra. A questo livello di profondità, la descrizione giovannea della veste deposta (v. 4) e ripresa (v. 12) può essere intenzionale, poiché i verbi “tìthemi”(deporre) e “lambàno” (riprendere) sono quelli utilizzati nel cap.10, v. 17 per dire che Gesù si spoglia della sua vita e la riprende.

v. 15: Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.

Il termine “hypòdeigma” (esempio) ha una connotazione nettamente visiva, di figura, immagine, “tipo”, modello, e non solo l’accezione di “esempio” in campo morale. Infatti deriva dal verbo “deìknumi”, che significa “far vedere, mostrare” e che ordinariamente ha in Giovanni valore teologico. Così “Il Padre… manifesta (=mostra) al Figlio tutto quello che fa” (Gv 5,20). A sua volta, Gesù mostra ai discepoli quello che fa, e, come il figlio opera ciò che vede che il Padre sta operando, lo scopo di Gesù è che i discepoli agiscano come lo hanno visto agire. Lo sguardo ha in Giovanni una funzione considerevole: vedere significa esser sorpresi da una presenza, contemplare in profondità. 

Inoltre Gesù non presenta semplicemente questo “esempio” (o dimostrazione) come un modello esteriore da imitare, ma come un dono che genera il comportamento futuro dei discepoli. E’ quanto lascia intendere, nella frase del v. 15, la congiunzione “kathòs” che non significa semplicemente “come” nel senso di confronto, ma pone un legame intrinseco, una relazione genetica. Si potrebbe parafrasare: “Agendo così, io vi dono di agire allo stesso modo.” In che cosa consiste l’azione che Gesù attende dai discepoli? Evidentemente, non si tratta di riprodurre l’azione materiale di lavare i piedi, ma della disponibilità di fondo ed effettiva ad essere a servizio reciproco, un servizio senza riserva, esente da volontà di potenza.

v. 19: Ve lo dico fin d’ora, prima che accada, perché, quando sarà avvenuto, crediate che Io Sono.

“Io Sono”: affermazione del Nome divino.

6Significato cristologico

Gesù è veramente il servo, che scende all’ultimo posto, morendo per amore nostro (Ef 5,25; Gal 2,20; Rm 5,8; 8,21.35; Ef 3,18-19). “Gesù apre gli apostoli a riconoscere che la suprema dedizione di Dio agli uomini non deve essere cercata in una vittoria conseguita nella soppressione dei nemici e nell’affermazione di sé, come essi continuano ad aspettarsi fino all’ultimo momento, ma in quella vittoria della carità che consiste nel portare fino alle estreme conseguenze il dono di sé anche di fronte al rifiuto dell’altro… Qualsiasi altra rappresentazione non testimonierebbe il Padre, perché ciò che definisce nel più profondo la sua identità di <<fons et origo totius divinitatis>> è l’essere pura, gratuita, incondizionata oblazione di sé” (A. Bozzolo). “Dio si rivela in quello che costituisce l’aspetto più profondo della sua divinità e manifesta la sua gloria, proprio facendosi nostro servitore, lavando i piedi alle sue creature” (H. U. Von Balthasar). “Dio non è il sommo padrone che possiede tutto. Dio è il più grande povero che non possiede nulla… Ha donato tutto eternamente e non può donare di più, perché questo dono lo costituisce nel suo essere persona fondato unicamente sulla carità” (M. Zundel).

7Significato sacramentale

Taluni vi vedono un’allusione a vari sacramenti.

Eucarestia

Nell’episodio della lavanda dei piedi c’è il senso più profondo dell’Eucarestia. E’ significativo in tal senso che nonostante l’esplicito comando del Signore: “Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi… Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica” (Gv 13,14-17), la Chiesa non abbia stabilito un apposito “sacramento della lavanda dei piedi”, così come dopo il “Fate questo in memoria di me” ha invece istituito l’Eucarestia. Questo racconto giovanneo non è stato colto come l’”istituzione della lavanda dei piedi”. La lavanda dei piedi non è qualcosa di altro rispetto all’Eucarestia: ne è l’unica esegesi. 

Battesimo

Il simbolismo della lavanda dei piedi non si limita solamente a vivere la stessa umiltà del maestro perché, come Gesù stesso sottolinea, essa è importante perché i discepoli possano aver parte con lui ed evidentemente questa azione li libera dal peccato. L’uso del verbo “fare il bagno” per la lavanda dei piedi è la principale prova a favore di una interpretazione battesimale della lavanda dei piedi. Il verbo “fare il bagno” e i suoi affini, sono vocaboli normali nel Nuovo Testamento per indicare il battesimo. In Atti 22,16 Anania dice a Saulo: “Alzati, ricevi il battesimo e lavati dai tuoi peccati, invocando il suo nome”. E nella lettera a Tito Paolo proclama: “Egli ci ha salvati… mediante un lavacro di rigenerazione e di rinnovamento nello Spirito Santo” (Tt 3,5). 

Nei Padri troviamo questa interpretazione del passo della lavanda dei piedi in senso battesimale. La santa lavanda non è intesa a “lavare le macchie del corpo, ma a santificare misticamente l’anima”. Nei testi dei Padri si pone in parallelo la lavanda con il battesimo, considerandola la “illuminazione” degli apostoli, il battesimo degli apostoli prima della Santa Cena.

Il battesimo, come morte dell’uomo vecchio e resurrezione dell’uomo nuovo, è la condizione essenziale per poter partecipare all’Eucaristia. Così Gesù lava i piedi ai discepoli “per avere parte con Lui”. Sono pronti, cioè, a mangiare la Pasqua nuova. “Se non ti laverò” dice Gesù a Pietro che si rifiutava di farsi lavare i piedi, “non avrai parte con me”.

I discepoli sono illuminati, si rivestono della luce e della gloria battesimale, ma non tutti. “Sapeva, infatti, chi lo tradiva; per questo disse: “Non tutti siete mondi”.

Un altro aspetto di questo mistero viene finemente illustrato da Romano il Melode con queste parole: “Pietro trattenne l’Unigenito quando questi si presentava per la lavanda dei piedi e disse: “Signore! Signore!, No, non mi laverai i piedi”. Il catino era a terra già riempito: il Salvatore stava in piedi, il Redentore portava intorno ai fianchi il telo, come uno schiavo. Le schiere degli angeli guardavano dall’alto del cielo e gettarono grida di stupore, invece lo spudorato (Giuda) non ne fu commosso, al contrario si voltò contro di lui! Inibiti da timore, gli spiriti di fuoco stupivano quando i loro cori invisibili vedevano l’incomprensibile che si piegava spontaneamente a servire il fango (cioè l’uomo plasmato dalla polvere del suolo). Gabriele diceva in apprensione: ‘Angeli santi, compagni miei, guardate, stupitevi! Pietro tende il piede e Colui che è nato da un seno verginale lo prende e lo lava. E non lava soltanto Pietro, ma con lui anche Giuda. Guardate la grande benevolenza del Creatore ed il contegno del Plasmatore nei confronti delle proprie creature. Essi siedono a tavola ed egli sta in piedi; essi si lasciano nutrire ed egli li serve; si lasciano lavare ed egli li asciuga. Ed i piedi fatti di polvere non restano dissolti tra le mani di fuoco!”.

Penitenza 

“Chi ha fatto il bagno, non ha bisogno di lavarsi se non i piedi ed è tutto mondo” (Gv 13,10): molti Padri della Chiesa distinguono il bagno, che viene visto come simbolo del Battesimo, dalla lavanda dei piedi, letta come simbolo della Penitenza. Ma alla luce dell’altra frase di Gesù: “Se non ti laverò, non avrai parte con me” (Gv 13,8), che sembra parlare di una purificazione che sola dà salvezza, il senso sembrerebbe riferito alla morte salvifica di Gesù.

Ordinazione apostolica

Diceva Monsignore Tonino Bello, l’indimenticabile Vescovo di Molfetta e Presidente di Pax Christi, che “ordinando” i primi presbiteri, Gesù non dà loro nessuna stola, ma solo un grembiule perché si facciano servi. “A me – scriveva don Tonino Bello – piace moltissimo l’espressione Chiesa del grembiule, cioè Chiesa del servizio. Sembra un’immagine un tantino audace, discinta, provocante, ma è al centro del Vangelo… (Gv 13, 3-12). Per l’ordinazione, le suore del paese o gli amici ci hanno regalato una cotta, una stola ricamata in oro, ma nessuno ci ha regalato un grembiule, un asciugatoio. Eppure, è questo l’unico paramento sacerdotale ricordato nel Vangelo. Le nostre Chiese, purtroppo, celebrano liturgie splendide, anche vere, ma – quando si tratta di rimboccarsi le maniche – c’è sempre un asciugatoio che manca, una brocca che è vuota d’acqua, un catino che non si trova… Quando sono stato nominato vescovo, mi hanno messo l’anello al dito, mi hanno dato il pastorale tra le mani, la Bibbia: sono i simboli del vescovo. Sarebbe bello che nel cerimoniale nuovo si donassero al vescovo una brocca, un catino e un asciugatoio. Per lavare i piedi al mondo senza chiedere come contropartita che creda in Dio. Tu, Chiesa, lava i piedi al mondo e poi lascia fare: lo Spirito di Dio condurrà i viandanti dove vuole lui”.

8Significato etico

Farsi servi come il Servo

Luca fa subito seguire il racconto dell’istituzione dell’Eucarestia con una chiara chiamata al servizio, con un brano che invece Marco e Matteo pongono dopo la richiesta di Giacomo e Giovanni di essere i primi nel Regno di Cristo (Mc 10,42-45; Mt 20,25-27): “Sorse anche una discussione, chi di loro poteva esser considerato il più grande. Egli disse: <<I re delle nazioni le governano, e coloro che hanno il potere su di esse si fanno chiamare benefattori. Per voi però non sia così; ma chi è il più grande tra voi diventi come il più piccolo e chi governa come colui che serve. Infatti chi è più grande, chi sta a tavola o chi serve? Non è forse colui che sta a tavola? Eppure io sto in mezzo a voi come colui che serve>>“ (Lc 22,24-27). 

E’ analogo il discorso che Gesù fa nel Vangelo di Giovanni, dopo quella che abbiamo definito l’esegesi giovannea dell’Eucarestia, cioè la lavanda dei piedi: “Quando dunque ebbe lavato loro i piedi e riprese le vesti, sedette di nuovo e disse loro: <<Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi. In verità, in verità vi dico: un servo non è più grande del suo padrone, né un apostolo è più grande di chi lo ha mandato. Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica>>“ (Gv 13,12-17). Diceva il grande teologo Yves Congar che “se la Chiesa vive dell’Eucarestia non può essere che serva e povera”.

Una vita d’amore

Il battesimo è il “sacramento”, cioè il “segno”, che siamo morti e sepolti con Cristo perché possiamo condurre una vita nuova “bella” e conforme alla sua risurrezione. Per il credente il problema morale non si fonda sul “tu devi”, ma sul “tu sei”. Nel battesimo, per la potenza dello Spirito, siamo in Cristo e quindi siamo nuova creatura (2 Cor 5,17; Gal 6,15): il battesimo è il segno che siamo “cristificati”, che siamo degli altri Gesù, come lui capaci di dono, di agape: “Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato se stesso per me” (Gal 2,20). 

Ormai i cristiani hanno un “comandamento nuovo” che li deve far riconoscere tra tutti gli uomini, amarsi scambievolmente (Gv 13,34): questo è l’unico criterio di ecclesialità propostoci da Cristo: “Da questo tutti sapranno che siete miei discepoli, se avrete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). 

L’amore fraterno traduce il comando di amare Dio, anzi ne è l’unica espressione: “Se uno dicesse: <<Io amo Dio>>, e odiasse il suo fratello, è un mentitore. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede non può amare Dio  che non vede” (1 Gv 4,20). “Se uno possiede le ricchezze in questo mondo, e vedendo il proprio fratello nel bisogno gli chiude il cuore (letter.: le viscere), come l’amore di Dio può dimorare in lui?” (1 Gv 3,17). 

L’amore fraterno inoltre ci apre al mistero di Dio: “Chiunque ama è generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore” (1 Gv 4,7-8): tante volte la nostra fede è debole proprio perché non amiamo; amando, possiamo ottenere la “conoscenza” di Dio, cioè entrare nella sua intimità: ricordiamocelo, quando siamo in “crisi di fede”… 

L’amore è quindi il cuore della nostra fede: “Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso” (Gal 5,14); “pieno compimento della Legge è l’amore” (Rm 13,10). 

La vita è vocazione

“L’accoglienza del dono dello Spirito porta ad abbracciare tutta la vita come vocazione. Nel nostro tempo, è facile all’uomo ritenersi l’unico artefice del proprio destino e pertanto concepirsi <<senza vocazione>>. Per questo è importante che nelle nostre comunità ciascuno impari a riconoscere la vita come dono di Dio e ad accoglierla secondo il suo disegno d’amore. (Educare alla vita buona del Vangelo, 4-10-10, n. 23).

Se sono diventato Cristo, la mia vita come la sua diventerà dono. Compito del giovane è capire come fare della sua vita un dono alla sequela del Signore, o nel celibato o nella vita matrimoniale.

La Scrittura ci richiama al primato dell’unione sponsale con Cristo anche nel matrimonio. Il matrimonio è al contempo anticipazione e prefigurazione dell’unico Amore in cui tutti i nostri amori si radicano e a cui tutti tendono. E questo non solo perché nel Regno non vi sarà più né maschio ne femmina, ma saremo come angeli di Dio (Mt 22,23-32), ma perché l’unico fine per il credente è la sequela del Signore, lo Sposo per eccellenza (Mt 9,15; 25,1-12; 2 Cor 11,2…). E Luca specifica che “chi non ama meno… la moglie e perfino la propria vita non può essere discepolo” di Gesù (Lc 14,25-27); “Ho preso moglie” non è una scusa valida di fronte alla chiamata del Signore (Lc 14,20). 

Il primo imperativo per i coniugi credenti dovrà essere l’obbedienza al “Seguitemi!” (Mt 4,19), invito rivolto a tutti, sposati e celibi. A tutti, sposati e celibi, Gesù comanda: “Amerai il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima, con tutta la tua forza e con tutta la tua mente, e il prossimo tuo come te stesso” (Lc 10,27), con buona pace di Paolo che nella Prima Lettera ai Corinti (1 Cor 7,33) afferma che gli sposati amano Dio con cuore “diviso”… A tutti, sposati e celibi, Gesù rivolge l’invito: “Siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste” (Mt 5,48). Per tutti, sposati e celibi, vale il discorso della montagna, con la sua rivoluzione etica (Mt 5,3-11; Lc 6,20-23). Per tutti, ovviamente in forme diverse, vale l’appello di Gesù: “Va’, vendi quello che hai e dallo ai poveri” (Mt 19,21). A tutti Gesù ricorda “la necessità di pregare sempre, senza stancarsi” (Lc 21,36). A tutti Gesù dà la missione: “Andate e ammaestrate tutte le nazioni” (Mt 28,19-20).

Occorre oggi più che mai che i fidanzati si riapproprino di queste pagine evangeliche che li chiamano alla radicalità della sequela del Signore, stimolati dal Concilio Vaticano II che ricorda che anche i coniugi cristiani sono chiamati alla santità (Lumen gentium n. 40; n.11; Gaudium et spes n. 48). Finora il vivere l’Evangelo “sine glossa”, senza interpretazioni, senza mezzi termini, era spesso una proposta solo per i monaci: ma dobbiamo ricordarci che nel cristianesimo esistono solo coloro che seguono in totalità il Signore da soli, i “monaci”, e coloro che lo seguono in totalità con la propria moglie o il proprio marito, i “binaci”: talora esprimo pedagogicamente proprio nel neologismo “binachesimo” la sottolineatura della comune chiamata alla santità, che deve essere riproposta con forza agli sposati. 

I giovani devono perciò mettersi in ascolto disponibile della Parola di Dio che li chiama alla sequela radicale del Signore nella peculiarità della loro situazione celibataria o sponsale, certi che lo Spirito Santo insegnerà loro come fare della propria vita un dono d’amore nella concretezza della vita quotidiana.

Servire i poveri

Il Signore si identifica con i poveri, con l’affamato, l’assetato, il forestiero, l’ignudo, il malato, il carcerato: “Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me…; ogni volta che non avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, non l’avete fatto a me” (Mt 25,31-46). “Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede. Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche il suo fratello” (1 Gv 4,20-21).

Non si può comprendere l’Eucarestia se non se ne vede la dimensione di chiamata alla condivisione totale con i fratelli. Condividere l’Eucarestia significa essere disposti a condividere la vita. 

Paolo affronta questo aspetto con molta chiarezza nella prima lettera ai Corinti (1 Cor 11,17-34). La cena del Signore era un vero pasto in comune, sul modello dei pasti pasquali: “Spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia” (At 2,46). A Corinto, Paolo trova una comunità che celebra l’Eucarestia propriamente detta alla fine del banchetto, “dopo aver cenato” (1 Cor 11,25). Ma questo pasto era una sorta di “pranzo al sacco”, dove ciascuno consumava quello che aveva portato, cosicché i ricchi gozzovigliavano e i poveri pativano la fame. La comunità che celebrava l’Eucarestia, cioè, non era capace di mettere in comune i beni. 

Paolo è durissimo: se ciascuno “prende prima il proprio pasto” (1 Cor 11,21), cioè non condivide con i fratelli, “il vostro non è più un mangiare la cena del Signore” (1 Cor 11,20). L’Apostolo enfatizza il contrasto tra il “pasto individuale” (“ìdion deìpnon”) e la “cena del Signore” (“kyriakòn deìpnon”): se nella vita privata (“le vostre case”: 1 Cor 11,22; “ a casa”: 1 Cor 11,34) ci sono differenze di stile di vita, queste devono cessare nel momento in cui si partecipa all’assemblea convocata dal Signore. Paolo conclude che “chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna” (1 Cor 11,29). Scrive Giovanni Paolo II: “Paolo qualifica <<indegno>> di una comunità cristiana il partecipare alla Cena del Signore, quando ciò avvenga in un contesto di divisione e di indifferenza verso i poveri (cfr 1 Cor 11,17-22.27-34)” (Giovanni Paolo II, Ecclesia de Eucharistia, 2003, n. 20). 

Essere con i poveri

Occorre condividere le sofferenze degli ultimi. Un amico missionario, in Brasile, parlandoci della sua destinazione pastorale che lo avrebbe visto impegnato in un “bairo” di San Paolo, ci diceva che aveva scelto di andare a vivere non nella casa dei Religiosi della sua Congregazione, ma in una baracca della favela, perchè “il pavimento di mattonelle non è una cosa essenziale, e neanche le piastrelle ai muri della toilette”; ma soprattutto perché “il cuore batte dove il piede pigia”, cioè soltanto condividendo la vita dei poveri si può vibrare d’amore per essi, sull’esempio “del Signore nostro Gesù Cristo, che da ricco che era si fece povero per voi” (2 Cor 8,9). Questo non vuol dire che è necessario partire tutti per le favelas o le bidonvilles del mondo: dobbiamo indubbiamente, come insegna chi fa direzione spirituale, “fiorire dove Dio ci ha piantato”, e ricordare che non c’è solo una povertà materiale. Ma certamente siamo chiamati a profonda e radicale conversione in campo economico e nello stile di vita, e a chiederci come possiamo concretamente condividere davvero personalmente le sofferenze dei poveri….

“Il più grande peccato contro i poveri è forse l’indifferenza, il <<passar oltre, dall’altra parte della strada>> (cfr Lc 10,31)… Noi tendiamo a mettere, tra i poveri e noi, dei doppi vetri… E infatti vediamo i poveri muoversi, agitarsi, urlare dietro lo schermo televisivo, sulle pagine dei giornali e delle riviste missionarie, ma il loro grido ci giunge come da molto lontano. Non ci penetra fino al cuore. Ci mettiamo al riparo da essi. La Scrittura chiama tutto questo un <<vedere senza fare attenzione, un aprire gli orecchi, ma senza sentire” (cfr Is 42,20)… La prima cosa da fare dunque, nei confronti dei poveri, è rompere i doppi vetri, superare l’indifferenza, l’insensibilità. Gettare via le difese e farci invadere da una sana inquietudine a causa della miseria spaventosa che c’è nel mondo” (R. Cantalamessa). 

Diceva il cardinal Duval, per molti anni vescovo di Algeri: “C’è un abisso tra la conoscenza della miseria che si può avere nei libri o nei giornali e l’incontro con la realtà della miseria nella vita degli uomini. Sono persuaso che se tanto uomini in Occidente esitano a mobilitarsi per difendere i diritti dei poveri, è perché essi non sono a contatto con la miseria, com’è vissuta concretamente” Uno stile di vita sobrio

Scriveva il cardinal Pellegrino: “La povertà deve essere praticata anzitutto a livello individuale. E’ necessaria una revisione della mentalità ancora largamente dominante, secondo cui ognuno è padrone dei propri averi e ne fa quello che vuole. L’insegnamento della Chiesa, interprete della legge naturale e della parola di Dio, è chiaro… Possiamo dire che questa dottrina sia conosciuta e accettata da quelli che si professano cristiani? Possiamo dire che quanti l’accettano in linea di principio cerchino sinceramente di attuarla nella pratica? E’ pertanto doveroso che ognuno di noi s’interroghi sul suo comportamento nell’uso dei beni economici, tenendo presente le necessità proprie e della famiglia nella vita di tutti i giorni, e nello stesso tempo rendendosi conto delle necessità degli altri” (M. Pellegrino, Camminare insieme, n. 8).

Che cosa significa per noi laici la comune chiamata alla povertà di tutti i Cristiani? Che cosa significa essere povero per un padre di famiglia, che deve pensare a moglie e figli? 

Fare nostre le sofferenze dei poveri coinvolge concretamente il nostro stile di vita. Significa condurre una vita più povera. Significa fare uno o più passi indietro nel nostro ceto sociale. Significa fare delle rinunce. Significa avere di meno, permettersi meno cose. Significa vivere concretamente secondo canoni diversi dai correnti, che vedono la felicità nel possesso di tanti beni.

Scriveva Padre Arrupe: “Un’enorme percentuale di uomini e donne nei Paesi provvisti di beni in abbondanza sembrano aver cambiato la specie dell'<<homo sapiens>> in quella dell'<<homo consumens>>. Fin dall’infanzia siamo modellati come consumatori, in balia di una pubblicità che è ormai come l’aria che respiriamo. Una volta formato, quest'<<homo consumens>>e la pubblicità influiscono a loro volta sull’economia, creando e giustificando bisogni sempre maggiori: il superfluo diventa conveniente, il conveniente diventa necessario, il necessario si trasforma in indispensabile”. Le nostre famiglie cristiane dovranno essere scuola di sobrietà, non lasciandosi contagiare dalla pubblicità, consumando di meno, facendo scelte di “austerità”, anche se certamente anticonformiste; dovranno fare scelte ecologiche, rispettose dell’ambiente, attenta alle proposte di riuso e di riciclaggio.

Il loro sarà un “consumo critico”, attento ai prodotti delle Ditte che non sfruttano i lavoratori, non sono implicate nei traffici d’armi o nel sostegno a regimi dittatoriali, non sono inquinanti. E l’arma del “boicottaggio” sarà un mezzo semplice e potente per modificare le strategie di mercato delle grandi Aziende. Le nostre famiglie dovranno sostenere i Centri di “Commercio equo e solidale”, e ripensare l’investimento dei propri beni almeno secondo la logica delle “Banche etiche”. Un momento concreto di verifica e di progettazione è la stesura del “bilancio di giustizia”, che ha per fine di modificare la struttura di consumi della famiglia verso una maggiore giustizia nei confronti dei Paesi poveri, migliorare la qualità di vita, riducendo i consumi non rispettosi dell’ambiente, orientare verso un minor dispendio di energie e verso la scelta di energie rinnovabili, promuovere meccanismi economici alternativi e forme di “risparmio etico” per sostenere iniziative sociali… 

Come riuscire concretamente a operare queste scelte? Qualunque Organizzazione che si occupi di “Terzo Mondo”, qualunque Ordine o Congregazione Missionaria è in grado di fornire indicazioni, bibliografia, materiali… 

Sarà un processo di maturazione caratterizzato da incertezze, pause, errori: non siamo stati educati, come cristiani, a questa sensibilità, a questa attenzione. Quando ci parlavano di “vigilanza” dalle tentazioni non ci accennavano mai a temere l’idolatria economica. Per questo facciamo fatica ad entrare in quest’ottica. Ma non dobbiamo scoraggiarci se la strada è lunga, mettendoci fiduciosi alla scuola di Cristo, illuminati dal suo Spirito.  

Contro un’economia di sfruttamento

Ma non basta commuoversi per i poveri. Bisogna sviluppare anche la capacità di cogliere le cause profonde della povertà, di riconoscere le radici strutturali dell’ingiustizia.  

Dobbiamo riconoscere che l’insostenibile “ordine” economico attuale non è un meccanismo inevitabile, ma dipende da noi. “Non possiamo adattarci ad una visione antropologica che riduce la persona a semplice consumatore e che si rivela ateistica e materialistica, consumistica e utilitaristica e che considera dannose le espressioni spirituali, religiose e culturali che contestano il materialismo e l’edonismo… E’ urgente recuperare nel patrimonio di fede che ci appartiene quei contenuti che possono aiutarci a giudicare, nell’ottica della Rivelazione, le storture immani dell’economia di oggi” (A. Agnelli). 

Non possiamo non contestare un sistema che si basa solo sull’egoismo individuale, dove l’uomo non è più il fine ma è una “risorsa”, un sistema che riduce tutto a merce, anche il corpo umano, il lavoro, la terra, dove conta solo il possesso, dove la felicità si identifica con acquisti di prodotti, dove ignoti sono valori primari e fondamentali come la comunione, la gratuità, il servizio, la convivialità, dove al povero non resta che attendere di potere essere chiamato anche lui al servizio del grande Idolo, senza nessuna possibilità di autonomo riscatto. Un sistema predicato come unica religione dal bombardamento costante e unisono dei “media”, dove la comunicazione virtuale sembra diventata l’unico scopo della vita, e Internet la soluzione di tutti i problemi…

E’ quindi essenziale la presa di coscienza, rifiutando il continuo lavaggio del cervello della maggioranza dei mass media, riuscendo a cogliere, anche con l’aiuto di tante Associazioni che di ciò si occupano, i meccanismi perversi dello sfruttamento economico: “E’ giunto il tempo di un lavoro capillare di contro-informazione, di riflessione critica e auto-critica, di lettura della realtà con occhi nuovi” (A. Zanotelli). La comunità cristiana dovrà allora diventare “centro di resistenza” contro la cultura imperante consumistica. Gesù aveva detto che i suoi discepoli dovevano essere “nel” mondo ma non “del mondo” (Gv 17,11.16): allo stesso modo oggi i cristiani, pur vivendo “nel” mercato, non devono essere “del” mercato… 

La beatitudine del servizio

v. 17:  Sapendo queste cose, sarete beati se le metterete in pratica.

Giovanni ha solo due beatitudini: in 20,29 quella della fede senza vedere, qui la beatitudine della Croce, che è Amore e Servizio. Dio è la nostra gioia. “Nessuno ci fa felici più che Dio” (Agostino). La via del servizio è la via della felicità, della pienezza, della realizzazione.

A cura di Carlo Miglietta.

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