Francesco Lorenzi – La strada del Sole

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Nel 1997 nascono i Sun Eats Hours, la prima band di Francesco Lorenzi. Sono quattro giovanissimi vicentini, alle prese con un grande sogno: fare della musica la propria professione. Dopo qualche anno, hanno già all’attivo quattro dischi in inglese, più di trecento concerti tra Europa e Giappone, migliaia di fan del loro punk melodico e il premio come Miglior punk rock band italiana nel mondo.

Enormi sono le soddisfazioni sul palco, ma la loro vita si smarrisce dietro a vari eccessi tra cui droga, alcol e sesso. Come racconta in questo libro, Francesco entra allora in una profonda crisi: sente che così non può più andare avanti, che il legame tra i componenti della band si sta perdendo, che manca una vera ispirazione. Eppure, proprio quello è il momento della svolta: attraverso una serie di “Dioincidenze” Francesco incontra Gesù e rinasce, come uomo e come artista.

Grazie a questa imprevedibile scintilla, comincia a scrivere canzoni in italiano e, dopo un percorso sofferto, riesce a recuperare alla Vita i suoi amici allontanandoli dalle loro dipendenze, riportando al centro il valore dell’amicizia. È così che poi, insieme, decidono di cambiare il nome della band in The Sun, perché ora si sentono guidati da un Sole che illumina il cuore.

Le note musicali “ci permettono di ascendere al cielo, verso l’eterno e l’infinito, o almeno” scrive il cardinal Ravasi nella Prefazione (leggila per intero più avanti), “di sentire una voce di speranza. Così è accaduto a Francesco Lorenzi e la sua autobiografia lo conferma”.

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Leggi la prefazione al libro del card. Gianfranco Ravasi

Questo libro è sostanzialmente un’autobiografia, e quindi è permesso anche a chi la presenta – standone sulla soglia – di adottare lo stesso registro. Ho sempre amato camminare per le strade delle città per poter – forse paradossalmente agli occhi di qualcuno – meglio pensare. Non mi distraggono i volti, le case, le cose, lo strombazzare delle auto, il respiro di fondo delle metropoli. C’è, però, un dato che da tempo mi ha scosso dai miei pensieri e mi ha colpito. Quasi tutti i giovani che incrocio hanno alle orecchie un auricolare e, quando a un semaforo rimaniamo appaiati, è facile ascoltare l’eco della musica che risuona e fuoriesce dalle loro orecchie. Non so se questo sia anche un modo per isolarsi dalla scena del mondo, per calare una visiera sonora sulle parole di noi adulti. Certo è che la musica è diventata l’esperanto delle giovani generazioni, la loro lingua franca.

Una musica ben diversa da quella che ha colmato per decenni le mie orecchie rendendole alla fine simili a una conchiglia che conserva per sempre molte armonie del mare dei suoni. Quella dei giovani è, infatti, una musica che ha una “grammatica” ben diversa, genera emozioni fisiche primarie, anche perché spesso il suo ritmo reiterato sembra evocare il battito cardiaco, auscultato quasi stando in un grembo materno. Proprio per questo ho voluto, abbandonando per un momento Bach, Mozart, Beethoven e l’immenso grandioso e glorioso repertorio classico a me consono, lasciare spazio anche a questi suoni. Non l’ho fatto, certo, per imitazione giovanilistica: il mio udito rimane aggrappato saldamente alle altre lunghezze d’onda. Ho voluto, invece, esplorare un orizzonte a me ignoto, mosso dalla curiositas latina, un vocabolo che deriva da “cura” e che suppone quindi un interesse appassionato e non banalmente “curioso”, superficiale, eccentrico o indiscreto.

* * *

È stato, così, che ho incontrato Francesco Lorenzi e la sua band, trascinandoli in un’esperienza inedita anche per loro. Cercherò di descriverla dal mio punto di vista, come l’autore lo farà dal suo. Immagino che la maggior parte dei lettori di questo libro ignori la struttura e l’attività di un dicastero vaticano, come lo è quello che io ora dirigo e che reca il titolo formale di Pontificio Consiglio della Cultura. Si tratta di un’istituzione che non comprende solo un’équipe composta da ecclesiastici e laici residenti a Roma, ma che coinvolge anche una nutrita schiera di cardinali, vescovi, ecclesiastici e personalità delle varie discipline culturali provenienti da tutti i continenti, e quindi da etnie, lingue, civiltà e comunità ecclesiali differenti. Infatti i dicasteri sono espressione non dello Stato della Città del Vaticano – anche se in esso sono spazialmente e giuridicamente collocati – bensì della Santa Sede, ossia del segno unificatore della Chiesa cattolica universale.

Ora, uno degli eventi più importanti e significativi della vita di queste istituzioni è la cosiddetta “Plenaria”, quando convergono a Roma tutti i membri e i consultori del dicastero per essere informati sulla sua attività e per affrontare un tema, un progetto o una futura programmazione. Agli inizi di febbraio 2013, questo piccolo parlamento si è riunito attorno a un tema fluido, complesso e persino problematico già nel titolo: Le culture giovanili. Mi era, così, venuta alla mente proprio quell’esperienza vissuta durante i miei percorsi urbani, fianco a fianco con giovani che mi ignoravano, attenti solo al ritmo di quelle musiche che colpivano i loro timpani, muovevano le loro teste e probabilmente emozionavano i loro cuori e le loro menti.

Avevo incontrato casualmente i The Sun a Milano l’anno prima, durante la Giornata Mondiale della Famiglia. Pensai a loro perché ritenevo che fossero capaci di proporci quella forma musicale così significativa del mondo giovanile com’è il rock, e al tempo stesso fossero in grado di mostrarne il senso, la forza espressiva, la dimensione “performativa”, come si usa dire nel linguaggio paludato, ossia l’efficacia, l’incisività, l’influsso creativo sui fruitori di quel genere. Il gruppo accettò di venire a Roma e, nell’aula magna di un’università di matrice cattolica, la LUMSA, tennero la loro esecuzione-lezione il cui filo conduttore era retto appunto da Francesco, autore dei testi e cantante. Due erano i registri, gli stessi che domineranno in queste pagine: da un lato, la musica rock col suo potere evocatore e provocatore e, d’altro lato, la testimonianza personale col suo tormentato itinerario di ricerca, simile al corso di un fiume dotato di anse con acque morte ma anche di un estuario finale segnato da un approdo luminoso in mare aperto.

Cardinali, vescovi, studiosi, a prima vista sconcertati, furono condotti per mano da Francesco Lorenzi e dai suoi amici all’interno di quell’orizzonte a loro ignoto e, a sorpresa, essi stessi vedevano cadere certi loro preconcetti e sospetti e scoprivano che su quel terreno non si celebrano necessariamente riti satanici ma possono fiorire anche emozioni spirituali e serpeggiare domande ultime di senso.

Ricordo ancora in quel pomeriggio del 6 febbraio 2013, dopo l’esecuzione, uno dei maggiori esponenti della musica colta contemporanea a livello mondiale, membro del nostro dicastero, l’estone Arvo Pärt, accostarsi a quei giovani per interrogarli sulle loro sonorità, sulle contaminazioni musicali sottese, sul loro linguaggio espressivo. Io stesso, in seguito, avrei cercato di comprendere ulteriormente questo piccolo oceano di suoni dalle molteplici iridescenze, passando dal più pacato rock di taglio country o folk, fino a quello per me più impressionante e fin sconvolgente l’hard, il punk, il new wave e così via.

Ogni “Plenaria” di dicastero ha poi, come suggello, l’udienza papale. E qui diventa significativa la data: l’incontro con Benedetto XVI era fissato per le ore 12 del 7 febbraio, a distanza di quattro giorni dall’atto storico delle dimissioni. Dopo il discorso del Papa, l’ultimo a livello di udienza ufficiale del suo pontificato (ma nessuno in quel momento lo poteva immaginare), nella fila dei cardinali, dei vescovi, degli ecclesiastici e delle personalità c’erano anche loro, i The Sun, con Francesco come portavoce, pronti a “impressionare” il pontefice non solo con la loro musica – consegnata a lui in CD – così lontana dalla sua ben nota competenza musicale, ma anche con la loro mise esteriore non certo protocollare. E, invece, come posso testimoniare io che gli stavo a lato, Benedetto XVI fu preso proprio dalla stessa curiositas a cui accennavo e li interpellò e ascoltò con gusto.

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Per queste mie righe introduttive ho, dunque, adottato lo stesso registro che domina nelle pagine che seguonno. Ho voluto proporre l’esperienza personale di un incontro che poi ha avuto ancora qualche sporadico contatto diretto, una volta incrociandoci a sorpresa per una strada di Roma, attraverso l’invio di un loro disco, oppure, un’altra volta, nella lettura di un articolo del magazine della compagnia aerea con la quale volavo durante uno dei miei molteplici viaggi all’estero. In quella rivista che sfogliavo distrattamente mi erano apparsi questi giovani con la loro storia che ormai conoscevo e persino la descrizione dell’esperienza vissuta con loro.

Quella di Francesco Lorenzi narrata in questo volume non è, però, un’autobiografia solo artistica: è anche una testimonianza spirituale. È una vicenda posta all’insegna di un simbolo capitale sia per l’arte sia per la religione: la luce. Nel quarto capitolo di quell’arduo ma affascinante capolavoro che è La Montagna incantata di Thomas Mann c’è una considerazione che mi ha sempre colpito: «La musica sveglia il tempo, sveglia noi a una più fine comprensione del tempo, sveglia insomma. Per questo e in questo è morale. L’arte è morale in quanto sveglia». E, svegliandoci, ci fa schiudere gli occhi alla luce.

Ecco, attraverso la musica è avvenuto per Francesco qualcosa di simile. La forza dirompente della sonorità rock è stata come uno squillo di tromba che lo ha risvegliato dal sonno dello spirito e gli ha aperto uno squarcio sul mondo della fede. Un altro grande della letteratura come Marcel Proust nel testo “La prigioniera” della sua immensa opera Alla ricerca del tempo perduto, confessava: «La musica mi aiutava a scendere in me, a scoprirvi qualcosa di nuovo». Entrare, quindi, in profondità nell’anima, nella coscienza: giunti laggiù, «nell’uomo interiore», come diceva sant’Agostino, si scopre una presenza che ci precede e ci eccede. È Dio stesso: non per nulla un altro scrittore, l’agnostico pessimista Emil Cioran, invitava i teologi a lasciar perdere le loro affannate dimostrazioni dell’esistenza di Dio e a puntare sull’unica necessaria e fruttuosa. «Dopo aver ascoltato la Messa in Si minore o una cantata o una Passione di Bach, Dio esiste, deve esistere» concludeva.

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In questa luce, la testimonianza così limpida di Francesco Lorenzi diventa veramente una sorta di atto di fede, nel quale i suoni anche lacerati e veementi del rock e i percorsi esistenziali travagliati lungo sentieri persino tenebrosi si trasformano proprio nella “strada del Sole”. Certo, già gli antichi Greci erano consapevoli che la musica non è solo apollinea esaltazione della bellezza interiore e fonte di serenità, ma può essere anche dionisiaca esasperazione della mente. Lou Reed o Amy Winehouse, tanto per citare due figure emblematiche e per certi versi drammatiche ed estreme della musica contemporanea, attestano questo parossismo della ricerca, dell’attesa frustrata, della domanda che si spegne nella polvere della desolazione. Tuttavia, la voce di Francesco apre a molti giovani lo sguardo sull’altro versante del monte dell’ascesa: la salita verso il crinale della vita, infatti, non comprende solo la parete in penombra ma si affaccia pure sull’altro fianco battuto dal sole.

È là che si scopre la verità di una parabola proposta dal premio Nobel per la Pace 1986 Elie Wiesel, ebreo rumeno-americano. Nel libro biblico della Genesi si racconta che Giacobbe, in fuga dall’ira del fratello Esaù, si addormentò nella località di Betel (“casa di Dio”) e nel sonno ebbe una visione: «Una scala poggiava sulla terra, mentre la sua cima raggiungeva il cielo; ed ecco, gli angeli di Dio salivano e scendevano su di essa» (Genesi 28,12). Questi messaggeri di Dio portavano a Giacobbe emigrante la promessa divina del ritorno e di una discendenza «innumerevole come la polvere della terra».

Ebbene, Wiesel immagina che gli angeli, alla fine della visione, si dimenticarono di ritirare la scala, che così rimase sulla terra. Ed essa si è trasformata nella scala musicale, i cui gradini – le note – ci permettono di ascendere al cielo, verso l’eterno e l’infinito, verso il mistero e la trascendenza, o almeno di sentire una voce di speranza, una promessa di salvezza che giunge dall’alto. Così è accaduto a Francesco Lorenzi e ai suoi amici e la sua autobiografia così appassionata e appassionante lo conferma. Ed è questa esperienza lungo la “strada del Sole” che egli augura a tutti quei ragazzi e a quelle ragazze che camminano per le vie delle nostre città con le loro cuffie colme di musica.

Gianfranco Ravasi

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