Enzo Bianchi – Commento al Vangelo del 21 Maggio 2023

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Chi ha visto il Signore è inviato

La solennità dell’Ascensione è sempre memoria di una manifestazione del Cristo risorto, glorificato dal Padre nella potenza dello Spirito santo. Nell’inviarlo nel mondo, il Padre aveva rivelato attraverso il suo messaggero: “Sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi”; ora Gesù assume pienamente e definitivamente questo nome ricevuto dal Padre per l’eternità. Dio aveva detto a Mosè: “Io sarò con te”, e Gesù Cristo lo dice a ciascuno di noi, battezzato nel suo nome, cristiano che porta il suo nome e tenta di vivere, di osservare il suo Vangelo.

Purtroppo in Italia festeggiamo l’Ascensione del Signore Gesù Cristo non il quarantesimo giorno dopo la resurrezione (cf. At 1,3) – come previsto dal calendario della chiesa romana – ma la domenica successiva, la settima domenica di Pasqua, quella che precede la domenica della Pentecoste, cinquantesimo giorno postpasquale. La solennità dell’Ascensione è comunque sempre memoria di una cristofania pasquale, di una manifestazione del Cristo risorto, glorificato dal Padre nella potenza dello Spirito santo. L’ascensione o assunzione di Gesù al cielo, il suo esodo da questo mondo al Padre (cf. Gv 13,1), è narrata come uno staccarsi di Gesù dai suoi, un essere portato verso il cielo. Troviamo questo racconto nella conclusione del vangelo secondo Luca (cf. Lc 24,50-51) e all’inizio degli Atti degli apostoli (cf. At 1,6-11), mentre in Matteo, Marco (a parte la chiusura canonica, posteriore; cf. Mc 16,19-20) e Giovanni si narrano apparizioni del Risorto ma non si parla esplicitamente di una partenza, di un lasciare la terra per il cielo.

Nel vangelo secondo Matteo viene testimoniata un’unica e sola apparizione del Risorto in Galilea, su una montagna, come ultimo e definitivo saluto testamentario ai discepoli. Se Matteo aveva aperto il suo vangelo con le parole “libro della genesi di Gesù Cristo … l’Emmanuele, il Dio-con-noi” (Mt 1,1.23), ora lo chiude con un’allusione all’ultimo versetto delle Scritture ebraiche che egli conosceva, là dove si legge: “Il Signore, Dio del cielo, mi ha consegnato tutti i regni della terra” (2Cr 26,23); e qui il Risorto, colui che è il Dio-con-noi per sempre, dice: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”. Così il vangelo porta a pieno compimento tutta la storia della salvezza.

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Ma leggiamo il testo di Matteo con attenzione e umiltà. La sera della sua passione, durante la cena pasquale, dopo aver spezzato il pane e aver reso grazie sul calice, mentre con i suoi usciva verso il monte degli Ulivi Gesù aveva predetto lo scandalo di tutti e il rinnegamento di Pietro, dando però loro l’appuntamento dopo la sua resurrezione in Galilea (cf. Mt 26,30-35). Poi era venuta l’ora dell’arresto e della fuga di tutti i discepoli, la notte della passione, il giorno della morte e della sepoltura. Ma Matteo racconta che all’alba del giorno dopo il sabato Maria Maddalena e l’altra Maria trovarono la tomba vuota e ascoltarono da un messaggero l’annuncio della resurrezione di Gesù. E mentre andavano a portare ai discepoli questo vangelo, incontrarono il Risorto, il quale rinnovò loro l’invito, da rivolgere agli stessi discepoli, ad andare in Galilea, dove lui li precedeva e dove l’avrebbero veduto (cf. Mt 28,1-10).

Ed ecco che i discepoli, undici e non più dodici, a causa del tradimento di Giuda, “vanno in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato”. Non sono chiamati apostoli, inviati, ma discepoli, perché devono ancora essere iniziati dal loro grande rabbi Gesù, e sono nuovamente in Galilea, la terra in cui sono stati chiamati e sono rimasti per anni alla sua sequela. Per Matteo la Galilea non è tanto la terra dell’infanzia di Gesù, da cui ha preso l’appellativo di “galileo”, quanto piuttosto la terra voluta da Dio come luogo dell’evangelizzazione, la “Galilea delle genti, dei pagani” (cf. Mt 4,12-16; Is 8,23-9,1), terra ritenuta impura, da cui “non poteva uscire nulla di buono” (cf. Gv 1,46), terra di mescolanza di popoli, lontana dal centro della fede e del culto, la città santa di Gerusalemme. La Galilea, dunque, come terra per eccellenza di evangelizzazione e di missione: qui sono richiamati i discepoli, quasi a ricominciare quella sequela conclusasi con l’abbandono di Gesù.

Il luogo dell’appuntamento è la montagna, sito teologico per Matteo, là dove Dio a più riprese si è rivelato e ha voluto essere incontrato, là dove Gesù aveva pronunciato il lungo discorso contenente anche le beatitudini (cf. Mt 5,1-7,29), là dove Pietro, Giacomo e Giovanni avevano contemplato la sua trasfigurazione (cf. Mt 17,1-8). Al vedere Gesù gli undici discepoli, che l’avevano visto l’ultima volta catturato dai suoi nemici, non possono fare altro che prostrarsi in adorazione. Cos’è accaduto? Matteo non ci ha parlato della reazione dei discepoli all’annuncio delle donne né di altri segni dati da Gesù; ma ora, di fronte a questa cristofania, essi lo adorano, senza dire nulla. Alcuni tra loro giungono alla fede nella resurrezione, ma altri nutrono ancora dei dubbi, perché esitano a riconoscerlo: la fede non è mai visione ma è una continua vittoria sui dubbi, vittoria che si ottiene solo adorando e soprattutto amando. Nei vangeli non c’è traccia di esaltazione irrazionale davanti a Gesù risorto, ma vi è un faticoso riconoscimento che si realizza solo in una relazione amorosa, carica di fiducia e di abbandono al Signore.

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Così Gesù si avvicina agli undici, non li rimprovera per la fuga (cf. Mt 26,56), non li fa arrossire per la loro poca fede (cf. Mt 14,31), ma si rivela nella gloria ricevuta dal Padre, che lo ha richiamato da morte: “A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra”, parole che ci scuotono e che possiamo accogliere solo nella fede. Chi è costui? Sono parole che può dire solo il Kýrios, il Signore del cielo e della terra. Gesù possiede un’exousía, un potere: non se l’è dato da solo e neppure lo ha voluto, perché lo ha rifiutato quando gli è stato offerto dal tentatore, il diavolo (cf. Mt 4,8-10), ma l’ha ricevuto da Dio, il Padre. Infatti è lui “il Figlio dell’uomo giunto presso Dio, che gli diede potere, gloria e regno … un potere eterno, che non tramonta mai, un regno che non sarà mai distrutto” (cf. Dn 7,13-14). Nell’Antico Testamento Dio solo è il Signore del cielo e della terra, Signore del mondo visibile e di quello invisibile, Re del cosmo intero, e nella gloria Gesù ci rivela che questo potere divino è condiviso da lui. Così Matteo, anche senza descriverci un’ascensione di Gesù in termini visivi, ottici, ci rivela dove dobbiamo cercare e trovare il Risorto: in Dio, uguale a Dio nella sua signoria, “nel seno del Padre” (Gv 1,18) direbbe il quarto vangelo. La chiesa adora e confessa Gesù come colui che siede alla destra del Padre, colui che intercede per noi presso di lui. Queste e simili formulazioni risultano sovente incapaci di svelarci il mistero, ma ciò che è decisivo non è un nostro esercizio immaginativo per leggere l’ascensione, quanto piuttosto il fare sì che il Signore Gesù regni davvero in noi, sia il centro della nostra storia, sia colui che crediamo e attendiamo come unico Salvatore.

E siccome Dio ha rivestito Gesù di una tale autorità, egli può dire: “Dunque (oûn) andando fate discepole tutte le genti”, dove l’accento non cade sul verbo “andare” (non sta scritto: “Andate”), su una missione di conquista, di occupazione di terre e spazi, ma sull’apertura a tutte le genti, a tutte le culture, a tutti gli uomini e le donne che fanno parte dell’umanità. È venuta l’ora dell’annuncio alle genti: Gesù era venuto innanzitutto per il popolo di Israele, cui era stato promesso come Messia e Salvatore, e a questa missione conferitagli dal Padre aveva obbedito; ma dopo la sua morte e resurrezione il vangelo deve raggiungere tutte le genti della terra. Cadono tutti i muri: quello tra Israele e i pagani, quelli tra le genti, tutti i muri edificati nella storia. Ormai tutti gli esseri umani sono destinatari del Vangelo, 

che va proposto non imposto, 
che va offerto come testimonianza, non propagandato a parole,
che va vissuto per essere eventualmente annunciato.

Infatti, non si può insegnare e trasmettere il Vangelo senza viverlo e senza viverne! Ecco il compito dei discepoli, che in quell’ora in Galilea sono veramente piccola comunità, “piccolo gregge” (Lc 12,32): un compito che non guarda alla pochezza di chi lo svolge ma alla promessa di chi ha chiesto di viverlo e annunciarlo.

Qui viene nuovamente delineato da Gesù chi è il discepolo: è uno reso tale grazie all’ascolto di Gesù, stando con lui; è uno che è immerso nella vita della comunione divina, tra Padre, Figlio e Spirito santo; è uno che, vivendo di questa vita donata, accoglie l’insegnamento degli inviati, degli apostoli, della chiesa, per vivere ciò che Gesù ha chiesto, per vivere il Vangelo. La promessa di Gesù in cui mettere fede e speranza è: “Io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo”. Ecco la nuova e definitiva alleanza con la quale Dio si è legato al suo popolo: “Io sarò il vostro Dio, io sarò il Dio-con-voi”. Questa l’ultima parola del vangelo, questa la nostra fede: il Signore Gesù Cristo è con noi sempre. Nell’inviarlo nel mondo, il Padre aveva rivelato attraverso il suo messaggero: “Sarà chiamato Emmanuele, Dio-con-noi” (Mt 1,23; Is 7,14); ora Gesù assume pienamente e definitivamente questo nome ricevuto dal Padre per l’eternità. Dio aveva detto a Mosè: “Io sarò con te” (Es 3,12), e Gesù Cristo lo dice a ciascuno di noi, battezzato nel suo nome, cristiano che porta il suo nome e tenta di vivere, di osservare il suo Vangelo.

Per gentile concessione dal blog di Enzo Bianchi