don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 31 Luglio 2022

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Lectio divina

Dopo l’insegnamento sulla preghiera, l’evangelista Luca presenta alcuni episodi nei quali Gesù viene attaccato e messo alla prova. Risponde alle accuse mosse ingiustamente contro di lui giudicando l’atteggiamento dei suoi detrattori, denunciando la loro malvagità e mettendoli in guardia dal pericolo di cadere loro stessi nel tranello della tentazione del demonio che cerca di allontanare in ogni modo gli uomini da Dio. La incredulità porta a due conseguenze, l’ipocrisia e la cupidigia. Dell’ipocrisia Gesù parla ai suoi discepoli indicando in essa il contrario della fede e consiste fondamentalmente di nascondersi dietro la maschera del perbenista per giudicare, sostituendosi a Dio. Della cupidigia, invece, accenna a partire dalla richiesta che gli rivolge uno della folla, il quale pretende che Gesù faccia da giudice o mediatore nella questione dell’eredità che lo contrappone al fratello.

Il tale, che rimane nell’anonimato, lo chiama Maestro, lasciando intendere che gli riconosce un’autorevolezza tale da dirimere la vertenza col fratello. La risposta di Gesù pone una questione sulla sua identità rimandando ad un’autorità superiore. Infatti, la domanda di Gesù sposta l’attenzione dalla funzione che l’uomo vorrebbe attribuirgli, per ottenere giustizia, alla missione che Dio gli ha affidato. La preghiera di Gesù, soprattutto quella nell’ora della passione, e gli eventi della Pasqua rivelano il fatto che Dio con la risurrezione, lo ha costituito giudice e mediatore di salvezza. La sua autorità non si erge sui contendenti ma si pose a servizio della loro riconciliazione.

Il Re Salomone è il prototipo del sapiente e, in quanto tale, del giudice. Gesù sembra riprendere il rimprovero mosso alla folla che si accalcava apostrofata come «generazione incredula che cerca un segno» (cf. Lc 11,29). La gente va da Gesù mossa da un interesse puramente materiale. Per questo verrà giudicata persino da una regina straniera che aveva fatto un pellegrinaggio fino a Gerusalemme per ascoltare la sapienza di Salomone. La gente, mossa solamente dalla speranza mondana, non riconosce che Gesù può dare una speranza più grande, la vita eterna. Le parole di Salomone sono citate nella prima lettura tratta dal Libro del Qoelet che è attribuito al grande Re d’Israele, figlio di Davide. 

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Nella visione realistica del mondo tutto appare transitorio come il vapore, immagine usata per indicare la vanità. Anche la vita dell’uomo rientra nella precarietà delle cose di questo mondo. Il pensiero di Qoelet risente della mancanza della fede nella risurrezione e nella vita dopo la morte che invece contraddistingue il credo cristiano. Preso in sé questo testo dell’Antico Testamento alimenterebbe la rassegnazione, tuttavia, illuminato dal Vangelo, ricorda all’uomo che, pur essendo capace di fare t cose buone, deve fare costantemente discernimento che il fine per cui le fa non si collochi nelle dinamiche e nei tempi della vita terrena ma nel mistero della vita eterna che è l’esperienza dell’amore di Dio.

La domanda di Qoelet riguarda la fatica del lavoro di cui aveva parlato già il Libro della Genesi (Gn 3, 17b.19a). Ogni attività umana è finalizzata innanzitutto alla sussistenza (S. Paolo rimproverando gli oziosi ricorda la regola: «chi non lavora neppure mangi» – 2Ts 3,10) e poi anche al profitto. Il quesito che emerge dalla lettura del Qoelet è: di che natura è il guadagno atteso dall’uomo? Il sapiente d’Israele giustamente constata che il profitto del lavoro dell’uomo è provvisorio perché non può essere goduto per sempre. Anzi, capita spesso che chi fatica non riesca a godere il frutto del suo lavoro ma ne beneficia chi lo riceve gratuitamente in eredità e senza alcuno sforzo, con il rischio di non apprezzarne il valore e di dilapidare il patrimonio. Qoelet dà voce alla riflessione delusa e rassegnata di chi vive in un orizzonte materialistico.

Nella riflessione di Qoelet non c’è traccia di un giudizio sulle persone ma è sviluppato il ragionamento di chi osserva la realtà alla luce della sola ragione umana incapace di elevarsi su un piano superiore a quello materialista e, perciò stesso, autoreferenziale e tendenzialmente egoista. La conseguenza di questo discorso è la scelta di vita edonistica che punta a godere solamente per sé i beni che possiede considerandoli la giusta ricompensa per la fatica del proprio lavoro. In tale orizzonte di vita, tutto centrato su sé stessi, si vive un ateismo pratico che esclude nei fatti ogni relazione con il Tu di Dio ma anche il noi della comunità. In verità, nessuno è veramente ateo perché nel momento in cui si estromette Dio dalla vita il suo posto lo prende il proprio Io insieme alle cose di questo mondo destinate a perire (Col 3,5). 

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Tornando alla pagina del Vangelo cerchiamo di comprendere meglio la reazione di Gesù davanti alla richiesta di un tale che chiede giustizia. Solo in apparenza sembra che il Maestro abbia scansato il problema dimostrando la indisponibilità a lasciarsi coinvolgere nella vicenda. In realtà, Gesù va proprio alla radice del problema chiamandolo per nome. L’avidità è, infatti, la radice di tutti i mali (1Tm 6,10). La vera giustizia consisterebbe nel lasciarsi liberare dalla schiavitù che ci lega mani e piedi ai beni della terra. La cupidigia, o avarizia insaziabile, come la chiama s. Paolo, porta all’idolatria (Col 3,5) per la quale si sacrificano sull’altare del profitto personale anche gli affetti più cari.

La parabola chiarisce l’avvertimento di Gesù che si rivolge agli uomini esortandoli a non puntare sull’arricchimento esteriore ma sulla crescita interiore. Si tratta del progetto di Dio che vuol far passare i suoi figli dal livello più basso della mondanizzazione, la schiavitù, alla condizione più alta di umanizzazione che è la santità. Il protagonista della parabola è un uomo che formalmente appare ineccepibile, anzi, essendo ricco viene anche considerato “beato” e “benedetto” da Dio. Essendo un ricco possidente ha una campagna fertile che gli dona un raccolto abbondante. Il cuore della parabola sta nel ragionamento che egli fa i cui presupposti sono simili al discorso che fa Qoelet.

Innanzitutto, lo fa dentro di sé e poi parlando alla sua anima. Appare chiaramente come un uomo solo sul cumulo delle ricchezze che possiede. Ha raggiunto la vetta dell’agiatezza e crede di abitare in cielo dove può finalmente riposare, mangiare, bere e divertirsi. Nel bel mezzo delle sue fantasie entra interviene Dio che gli ricorda la dura legge della morte. Non si tratta di una punizione perché la morte è la comune eredità di tutti gli uomini. È nella realtà che quando s’incomincia a vivere s’inizia anche a morire. Nessuno sa quando questo processo si concluderà, certo è che prima o poi arriva per tutti. Nelle parole di Dio la morte è il momento del rendiconto come deve fare ogni buon amministratore che non possiede ciò che gestisce ma ha solo il compito di farlo fruttificare.

Quell’uomo ricco, baciato dalla fortuna, ha dimenticato di essere un amministratore della sua vita e ha preteso di esserne il proprietario assoluto identificandola con i beni che andavano aumentando sempre di più. La domanda finale diventa il quesito centrale di tutta la parabola in cui si riassume l’esistenza di chi vive per sé stesso isolandosi da Dio e dagli altri. Dalla terra l’agricoltore avrebbe dovuto imparare la lezione dell’umiltà e del fatto che il suo compito era di coltivare la sua interiorità con la stessa cura con cui coltivava la terra. Essa, con i suoi frutti e i proventi della loro vendita, per quanto preziosa e feconda ha meno valore della propria anima che rimane arida e sterile se non viene coltivata curando le relazioni.

S. Paolo ricorda che iniziare a vivere da cristiani con il battesimo significa anche percorrere la via dolorosa e faticosa della mortificazione, ovvero del distacco liberante dalle cose di questo mondo che sono incapaci di rendere bella la vita. Nascere come figli di Dio nel battesimo vuol dire morire gradualmente al peccato fino al giorno in cui, uniti totalmente a Cristo nella morte, lo siamo anche nella sua risurrezione.

L’Eredità da condividere fra i fratelli

Nel passo evangelico di questa domenica si passa dal disappunto di Marta nei confronti della sorella Maria, rea di non aiutarla nei servizi in onore dell’ospite, alla lamentela di un tale che ha un contenzioso con suo fratello circa l’eredità paterna. L’uomo che chiama in causa Gesù è esasperato e arrabbiato per l’ingiustizia subita e i suoi occhi non vedono altro che la parte di eredità che gli spetta. È accecato dal risentimento e concentrato su quei beni che gli spetterebbero di diritto. Il Maestro invita a guardare oltre il problema dell’eredità per riconsiderare la questione alla luce delle relazioni personali. Se l’uomo si appella a Gesù per sciogliere il nodo che riguarda un suo interesse particolare, egli lo induce a cambiare punto di vista in modo da sollevare lo sguardo dall’eredità contesa per rivolgerlo verso il padre, datore del patrimonio ma soprattutto origine della comune fratellanza. In questo contenzioso possiamo leggere le tante liti familiari causate dalla bramosia di possesso e dalla gestione dei beni materiali.

La conflittualità tra fratelli è antica quanto l’uomo, come ci ricordano tante pagine della Scrittura, in particolare della Genesi. Il peccato originale è la cupidigia che s’inserisce nel cuore dell’uomo ferito dal peccato. Anch’essa è una eredità che passa di generazione in generazione a partire dal primo Adamo. La parabola parla di un uomo ricco proprietario di una fertile terra che gli regala un raccolto molto abbondante. Nella presentazione del personaggio principale riecheggia il racconto della Genesi nel quale Dio affida ad Adamo il compito di coltivare il giardino del Paradiso. Ha a sua disposizione i frutti di tutti gli alberi tranne quello dell’albero della conoscenza del bene e del male. Similmente l’uomo ricco riconosce di avere a disposizione molti beni. Il tentatore istiga Adamo ed Eva a trasgredire la norma data da Dio e a puntare più in alto verso il traguardo di essere come Dio per prenderne il posto. La cupidigia è la fame insaziabile di cose, che rende sempre più affamati e mai pacificati.

I beni materiali non potranno mai saziare il cuore dell’uomo ma, al contrario, la dipendenza da essi provoca inquietudine e ansia. L’uomo ricco cade nella medesima tentazione dell’uomo delle origini di sostituirsi a Dio. Per cogliere la morale della favola dobbiamo porre attenzione sul ragionamento che fa tra sé il ricco possidente e sul discorso che Dio gli rivolge. Sono posti a confronto due sapienze, quella mondana e quella divina. Nel ragionamento del ricco non c’è traccia di gratitudine nei confronti di Dio, totalmente escluso dal suo orizzonte valoriale. È un imprenditore che progetta partendo dall’esigenza di dove raccogliere il grano e i suoi beni arrivando alla determinazione di demolire i vecchi depositi e di ricostruirne più grandi. Il progetto non si ferma qui perché la sicurezza che ripone nei suoi beni gli dà l’illusione di avere a disposizione anche il tempo. Gran parte dei verbi sono al futuro di cui ha la presunzione di avere la conoscenza e il possesso.

Il ragionamento dell’uomo ricco è tanto fantasioso quanto vano. Basta poco per fare andare in fumo i progetti ambiziosi e autoreferenziali. La parola di Dio viene a demolire le impalcature fragili poggiate sull’avidità, che è il volto drammatico dell’ateismo pratico degli uomini, per riportare il discorso sulla realtà concreta della vita che non si gioca in un lontano futuro ma nell’oggi. Il presente è l’unico tempo veramente fecondo se è vissuto nella gratitudine e nella gratuità. Da una parte, nella gratitudine si instaura un rapporto di umile riconoscimento che tutto quello che si ha è dono della Provvidenza; dall’altra parte, nella gratuità si stringono legami di solidarietà che moltiplicano la gioia secondo il fattore della condivisione.

Ciò che la cupidigia esclude, l’umiltà fa scoprire piacevolmente come benedizione della Provvidenza; ciò che l’avidità induce a possedere egoisticamente, la solidale generosità suggerisce di condividere. La figliolanza e la fraternità non sono inutili utopie ma promesse che diventano realtà nella misura in cui ci si apre con la preghiera, l’Eucaristia in modo particolare, al Tu di Dio e si va incontro al noi della comunità mettendo a disposizione di tutti i carismi ricevuti con spirito di autentico servizio. Il possesso egoistico dei beni rende povero e arido il cuore, mentre l’umile e grata accoglienza dei beni si trasforma in generosa e solidale condivisione fraterna.

L’uomo che rivendica la sua parte di eredità forse non era ricco e gli sarebbe tornato utile ricevere quello che gli spettava e che attendeva. La morale della favola non riguarda solo chi è nell’agiatezza ma anche chi è nella povertà perché può essere tentato dalla cupidigia nello stesso modo del ricco. Non è la condizione economica che ci espone al pericolo o ci dà sicurezza ma il modo di essere interiore. Se infatti manteniamo il nostro cuore umile e povero allora non diventerà duro e insensibile ma intelligente nel cogliere la volontà di Dio, sensibile e compassionevole per andare incontro ai bisogni degli altri condividendo i beni ricevuti dalla mano di Dio. L’ammonimento diventa esortazione a rinunciare all’eredità mondana del peccato, che separa i fratelli contrapponendoli gli uni agli altri, ma a guardare con Gesù all’eredità del Cielo preparata per noi sin dall’origine del mondo, la comunione di vita con i Santi.

Signore Gesù, Tu che da ricco ti sei fatto povero per condividere con noi il bene inestimabile dell’amore del Padre, insegnami a contare i miei giorni per giungere alla sapienza del cuore e sfuggire alla diabolica tentazione di vivere come se Dio non ci fosse. Libera la mia mente da ogni calcolo egoistico e venale affinché mi apra all’ascolto umile e docile della tua Parola e sia pronto al dialogo orante con il Padre. Tu che sei morto da giusto intercedendo il perdono per i peccatori e, risorto, sei stato costituito Giudice e Mediatore di salvezza, concedimi di portare insieme a Te la mia croce quotidiana e di aver parte con Te all’eredità della vita eterna. Donami l’umiltà di accettare i miei limiti creaturali, la temperanza per dominare le ambizioni mondane, l’audacia di sognare con i tuoi occhi, la speranza di collaborare insieme ai fratelli nella costruzione del tuo Regno, l’intelligenza per saper cogliere le opportunità quotidiane di fare il bene, la gioia di confermare nell’oggi la scelta di seguirti sulla via che porta alla Pace.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
FonteMater Ecclesiae Bernalda
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]