don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 3 Ottobre 2021

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Commento a cura di don Pasquale Giordano
FonteMater Ecclesiae Bernalda
La parrocchia Mater Ecclesiae è stata fondata il 2 luglio 1968 dall’Arcivescovo Mons. Giacomo Palombella, che morirà ad Acquaviva delle Fonti, suo paese natale, nel gennaio 1977, ormai dimissionario per superati limiti di età… [Continua sul sito]

Dal compromesso alla promessa

Se il matrimonio fosse un semplice contratto tra due persone, con il quale si mettono d’accordo per stare insieme, allora è pur giusto che, venendo meno le condizioni che hanno portato a redigerlo, si scriva un atto per annullarlo. Il ripudio è un atto con il quale si manifesta la volontà di porre fine ad una relazione per intraprenderne un’altra.

Naturalmente questo significa derubricare il matrimonio da relazione d’amore tra due persone a rapporto commerciale basato su interessi personali garantiti dalla legge. Il matrimonio è «promessa», non compromesso. La legge degli uomini, infatti, ha come fine quello di gestire l’ordine pubblico e definire i confini della libertà individuale perché non vada a mortificare quella degli altri. Il vero problema non è la legge ma il cuore, cioè il modo con il quale si usa la legge: se per coltivare i propri interessi o applicare la giustizia. I farisei, che mettono alla prova Gesù, vogliono nascondere le proprie cattive intenzioni dietro quella che sembra essere una domanda innocua.

Il ripudio, permesso da Mosè, è la denuncia della durezza del cuore degli israeliti, gli stessi che commettono adulterio contro Dio perché, avendo a cuore più le tradizioni degli uomini che la legge di Dio, lo tradiscono separandosi da Lui. Infatti, il vero peccato è adulterare il rapporto con Dio che ha come conseguenza la corruzione della relazione con gli altri. La legge degli uomini può addirittura assecondare l’orgoglio e la cupidigia che induriscono il cuore al punto da assumere come criterio fondamentale per le proprie scelte quello della convenienza. Prima del permesso di Mosè c’è la promessa di Dio e prima di un cuore indurito c’è un cuore ferito. All’origine c’è l’attenzione premurosa di Dio che fa suo il dolore della solitudine dell’uomo.  

La solitudine è una maledizione, ovvero ciò che fa male. Gli animali hanno in comune con l’uomo il fatto di essere “terrestri” e quindi mortali. Essi non hanno quello spirito che li fa diventare esseri viventi, come è l’uomo. Non lo diventano neanche se lui impone un nome. Gli animali, per quanto possano essere utili e destinatari di affetto, cura e attenzione, non sono in grado di colmare il vuoto della solitudine perché il rapporto con loro va nella linea della possessività e non della oblatività che caratterizza l’amore umano e che è un dono di Dio.

Dio, ha compassione dell’uomo e lo benedice mediante il dono dell’altro. La soluzione al male della solitudine è la relazione che si crea quando l’io incontra il tu dell’altro da sé ma che al contempo è parte di sé. L’appartenenza, in prima battuta, non è una scelta ma una realtà che precede la mia volontà e che nasce da quella di Dio. L’uomo nasce con una mancanza, che si rivela come un bene, cioè il fatto di non bastare a sé stesso. Egli può tutto, ma non è tutto. È incompleto, incompiuto. Come tale egli è in ricerca di quell’aiuto che gli corrisponda. Si tratta di un interlocutore che gli stia difronte con cui entrare in dialogo faccia a faccia.

L’interlocutore privilegiato non possono essere gli animali, con i quali si condivide l’appartenenza alla terra, ma il tu dell’altro da me nel cui corpo riconosco l’appartenenza comune a Dio. Quello dell’uomo, infatti, non è solo corpo terrestre, ma è corpo spirituale perché in esso scorre lo Spirito di Dio. La donna è generata dall’uomo ma è opera di Dio. L’uomo riconosce nella donna l’azione di Dio e il dono che Egli fa di lei a lui. La donna, il tu dell’altro da me, è la benedizione di Dio che sconfigge la maledizione della solitudine. La benedizione può trasformarsi nuovamente in maledizione se l’uomo dimentica che Dio offre nell’«aiuto che gli corrisponde» la benedizione necessaria per guarire dalla solitudine. 

All’uomo compete il dovere di custodire e alimentare questa relazione perché diventi benedizione nei figli. L’uomo davanti agli animali impone il nome ma non è felice, mentre davanti alla donna lo è perché la chiama per nome, un nome non imposto da lui ma suggerito da Dio. Chiamare per nome significa riconoscere l’identità dell’altro, la sua dignità e chi è l’altro per me. Da qui derivano le scelte, la più importante delle quali è lasciare il padre e la madre per unirsi alla donna e formare una sola carne. Lasciare significa trasformare i legami di dipendenza in un rapporto di responsabilità. Lasciare vuol dire farsi povero e creare quello spazio necessario nel cuore affinché l’altro sia accolto come dono da custodire e accudire.

Gesù, dice la lettera agli Ebrei, non si vergogna di chiamarci fratelli. Egli si spoglia di ciò che separa dall’altro per unirsi a noi nella fraternità nella quale fare festa e condividere la gioia. Gesù, l’uomo sofferente della croce, facendosi fratello nel dolore ad ogni uomo e condividendo con lui la maledizione della solitudine, si rivela come sposo dell’umanità perché egli riceve un corpo da Maria e lo offre per amore unendosi ad ogni uomo. 

Al centro non può esserci solo l’Io, altrimenti diventa un Io solo. Dall’ “Io sono” all’ “io solo” il passo è breve. L’io verso te, l’io con te, l’io per te, l’io in te, diventa Noi, fecondo, sorgivo, splendente, fruttuoso, solido, eterno come è l’amore. Siamo la donna plasmata dalla sofferenza di Cristo che sulla croce vive il dramma della solitudine. La fraternità nasce dal sonno della morte in cui Dio genera una relazione a partire dal fallimento ma anche dal desiderio di vita che da esso scaturisce. Il Cristo crocifisso risorto ci rivela che il progetto di Dio per l’uomo si realizza attraverso Gesù, nostro fratello e sposo. Noi siamo il tu dell’ “Io sono” «con, per, in»  di Dio. 

Signore Gesù, sposo dell’umanità, che hai sofferto fino alla morte per amarci fino alla fine, sei il nostro capo che conduci a salvezza coloro che non ti vergogni di chiamare fratelli che se ti tradiscono, ti rinnegano e ti rifiutano, perché, nonostante tutto, siamo figli dell’unico Dio che è Padre e Madre. Contempliamo la tua gloria, che splende nel tuo capo insanguinato e coronato di spine, e il tuo onore la cui drammatica bellezza risiede nella tua nudità sulla croce.

Tu, che ti sei fatto uomo piccolo, come un bambino, custodisci in noi un cuore da fanciullo bisognoso di affetto e desideroso di amore. Guariscici dal peccato della cupidigia e dell’orgoglio che ci rende refrattari alla forza della tua Parola e insensibili alla povertà dei fratelli. Liberaci dalla presunzione di manipolare le persone in base al criterio della convenienza e converti il nostro cuore perché le nostre relazioni non siano un tentativo di compromesso ma la realizzazione della tua promessa. Benedicimi Signore e fa di me fratello di ogni uomo, portatore della benedizione del Padre, quella che libera dalla maledizione della solitudine e che tutti unisce in un vincolo spirituale di amore, di pace e di gioia.