HomeVangelo del Giornodon Pasquale Giordano - Commento al Vangelo del 26 Novembre 2023

don Pasquale Giordano – Commento al Vangelo del 26 Novembre 2023

Commento al brano del Vangelo di: ✝ Mt 25, 31-46

Cristo Re

Dal libro del profeta Ezechièle Ez 34,11-12.15-17

Voi siete mio gregge, io giudicherò tra pecora e pecora.

Così dice il Signore Dio: Ecco, io stesso cercherò le mie pecore e le passerò in rassegna. Come un pastore passa in rassegna il suo gregge quando si trova in mezzo alle sue pecore che erano state disperse, così io passerò in rassegna le mie pecore e le radunerò da tutti i luoghi dove erano disperse nei giorni nuvolosi e di caligine.

Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia.

- Pubblicità -

A te, mio gregge, così dice il Signore Dio: Ecco, io giudicherò fra pecora e pecora, fra montoni e capri.

Il Buon Pastore

Il profeta Ezechiele parla in nome di Dio al popolo in esilio disperso in terra straniera, senza re, senza tempio, senza casa. Lui stesso si impegna a cercare a radunare il suo popolo come un pastore con il suo gregge. Egli ha costantemente esercitato la regalità su Israele inviando i suscitando uomini e donne ministri della sua potenza salvifica. Dio ha chiamato uomini e donne a collaborare al suo progetto affidando loro autorità e potere.

- Pubblicità -

Chi ha ricevuto l’incarico di governare il popolo avrebbe dovuto sempre ricordare che aveva un’istanza superiore a cui obbedire e dare conto. Alcuni hanno disobbedito a Dio tradendo la missione loro affidata e causando un grave danno alla comunità che, nella crisi, invoca e attende un intervento di Dio. Il Signore ascolta il grido del povero e offre una parola di speranza che trova compimento in Gesù Cristo che si rivela come il Buon Pastore che dà la vita per le sue pecore. Chiunque ascolta la voce di Dio e mette in pratica la sua parola fa della terra su cui abita, anche se straniera, la Terra santa, ossia il luogo in cui incontrare il Signore che si prende cura di noi.

Dalla prima lettera di san Paolo apostolo ai Corìnzi 1Cor 15,20-26.28

Consegnerà il regno a Dio Padre, perché Dio sia tutto in tutti.

Fratelli, Cristo è risorto dai morti, primizia di coloro che sono morti. Perché, se per mezzo di un uomo venne la morte, per mezzo di un uomo verrà anche la risurrezione dei morti. Come infatti in Adamo tutti muoiono, così in Cristo tutti riceveranno la vita.

Ognuno però al suo posto: prima Cristo, che è la primizia; poi, alla sua venuta, quelli che sono di Cristo. Poi sarà la fine, quando egli consegnerà il regno a Dio Padre, dopo avere ridotto al nulla ogni Principato e ogni Potenza e Forza.

È necessario, infatti, che egli regni finché non abbia posto tutti i nemici sotto i suoi piedi. L’ultimo nemico a essere annientato sarà la morte.

E quando tutto gli sarà stato sottomesso, anch’egli, il Figlio, sarà sottomesso a Colui che gli ha sottomesso ogni cosa, perché Dio sia tutto in tutti.

Rinati nel battesimo per non più morire

Nel penultimo capitolo della Prima Lettera ai Corinti s. Paolo ripropone il contenuto del Vangelo: Cristo è morto per i nostri peccati secondo le Scritture ed è risorto il terzo giorno, secondo le Scritture. La risurrezione non avviene semplicemente tre giorni dopo la morte ma essa è l’opera di Dio che porta a compimento il suo progetto di vita che è per tutta la creazione. Attraverso la morte da schiavo Gesù ha sconfitto la morte che rende schiavi per offrire a tutta la creazione, che soffre e geme, la possibilità di riscattarsi.

La salvezza offerta da Gesù è universale e gratuita. Non la si conquista per meriti ma se ne può godere mediante la fede. Il Vangelo è una parola di speranza e chi l’accoglie sperimenta la sua potenza trasformatrice. La Pasqua si rinnova interiormente quando accogliendo nel cuore la parola di Dio permettiamo ad essa di cambiare il nostro modo di pensare e di agire in modo che la vita non risponde più alla logica mondana del potere ma a quella divina del servire. Col Battesimo inizia un itinerario di conversione e di risurrezione; è un combattimento contro le forze del male che insidiano la nostra volontà e ci portano a cadere nel peccato. Tutto ciò lo facciamo non per assicurarci il benessere mondano ma per conquistare il premio della pace che i vincitori con Cristo ricevono nella vita eterna.

Dal Vangelo secondo Matteo Mt 25,31-46

Siederà sul trono della sua gloria e separerà gli uni dagli altri.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:

«31Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. 32Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, 33e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. 34Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, 35perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, 36nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. 37Allora i giusti gli risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, o assetato e ti abbiamo dato da bere? 38Quando mai ti abbiamo visto straniero e ti abbiamo accolto, o nudo e ti abbiamo vestito? 39Quando mai ti abbiamo visto malato o in carcere e siamo venuti a visitarti?”. 40E il re risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me”. 41Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, 42perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, 43ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”. 44Anch’essi allora risponderanno: “Signore, quando ti abbiamo visto affamato o assetato o straniero o nudo o malato o in carcere, e non ti abbiamo servito?”. 45Allora egli risponderà loro: “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”. 46E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna”».

LECTIO

Contesto

Il quinto e ultimo insegnamento (24,1-25,46) di Gesù, chiamato anche escatologico, si chiude con la descrizione del giudizio finale. Questo discorso riporta le ultime parole di Gesù prima della passione. L’immagine del «Figlio dell’uomo» seduto a giudicare e del «pastore», che separa le pecore dai capri, fa della scena narrata un ponte tra gli insegnamenti di Gesù e gli eventi della Pasqua.

Struttura

L’introduzione è l’annuncio dell’evento finale della storia il cui culmine è la venuta del Figlio dell’uomo nella sua gloria. La scena descrive l’intronizzazione del re e l’adunanza di tutti i popoli al suo cospetto (vv. 31-32a).

Il re-pastore per prima cosa separa le pecore dalle capre facendo due gruppi, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra (vv. 32b-33).

Il cuore della scena è composta di due dialoghi. Il primo con quelli che sono alla sua destra (vv. 34-40) e il secondo con quelli alla sinistra (vv. 41-45).

Il v. 46 è il destino finale dei due gruppi.

Spiegazione del testo

Il protagonista principale della pericope è il «Figlio dell’uomo» citato altre volte nel corso del vangelo. In questo caso si parla della sua venuta nella gloria, ovvero al momento della sua intronizzazione. Si tratta di una regalità non assimilabile a quelle mondane esercitate da chi combatte con le armi e a costo di grandi sacrifici di vite umane per occupare posti di potere. Il Figlio dell’uomo è una figura messianica annunciata dagli antichi profeti (Dn 7,13s.; Zc 14,5) che riceve l’investitura regale da Dio e non dagli uomini. Il trono regale sul quale Gesù siede è la croce. Sul volto del Figlio, che nella passione offre la sua vita per la salvezza del suo popolo, splende la gloria di Dio. Contrariamente agli sfarzi delle corti, la gloria di Dio non è sola apparenza e formalità dietro cui si nascondono intrighi e falsità, ma è luce che fa verità e aiuta a discernere tra il bene e il male, tra la giustizia e l’ingiustizia. L’allegoria del pastore delle pecore e delle capre inquadra la scena nel contesto della Chiesa che è un unico ovile, in cui convivono insieme più “razze”, e un solo pastore che conosce gli animali che gli appartengono. La separazione è una distinzione che aiuta a fare chiarezza nella confusione. L’unità non è confusione d’identità pur avendo la medesima vocazione e lo stesso fine. Il senso della distinzione tra le pecore e i capri si chiarisce nel dialogo che occupa il cuore della pagina evangelica.

I primi sono quelli identificati con le pecore poste alla destra del re-pastore. Vengono chiamati i «benedetti del Padre mio» per ricevere l’eredità del regno. Sono i discepoli «beati» a cui Gesù si rivolge all’inizio del primo discorso (Mt 5, 1-12) perché, in quanto poveri in Spirito, affamati e assetati di giustizia, afflitti per un lutto e sofferenti per le persecuzioni, miti e misericordiosi nelle difficoltà, puri di cuore e operatori di pace, esercitano la regalità nel servizio ai fratelli e sorelle più piccoli. Ciò che stupisce non è il premio, che era già stato promesso, ma la rivelazione del fatto che prendendosi cura dei più piccoli essi amano e servono il Signore. Il regno preparato fin dalla fondazione del mondo è la creazione progettata dalla sapienza di Dio e che si realizza mediante le opere di misericordia. L’amore fraterno è la forza che trasforma la speranza di vita in esperienza di comunione. Nell’annunciazione a Giuseppe l’angelo richiama la profezia di Isaia per indicare nel figlio di Maria l’Emmanuele, il Dio-con-noi. Il Dio d’Israele viene per farsi prossimo per essere a «portata di mano», non per essere posseduto ma per donarsi. Lo riconosce chi ha nei confronti degli altri non un atteggiamento prevenuto, giudicante, possessivo e pretenzioso ma comprensivo, oblativo, accogliente e ospitale. I benedetti ricevono il bene nella stessa misura in cui accolgono i fratelli più piccoli come un dono. La solidarietà che s’instaura tra coloro che si riconoscono fratelli e sorelle diventa canale di comunicazione attraverso il quale si riceve e si dona amore mediante i gesti semplici e quotidiani ispirati alla carità.

Il secondo dialogo si colloca come l’altro pannello del dittico nel quale il re-pastore si rivolge a quelli della sua sinistra da cui, al contrario dei primi, prende le distanze. Essi hanno scelto di percorrere la via che porta nella fossa della morte che è come il fuoco che tutto divora e distrugge. Nel «discorso della montagna» Gesù invita a prendere le distanze dai falsi profeti «che vengono in veste di pecora ma sono lupi rapaci» (7,15). Sono i falsi maestri che «dicono ma non fanno» (23,3). I maledetti sono coloro che, refrattari a ricevere il Vangelo, hanno rinunciato alla grazia di Dio che umanizza. Abbracciando la logica demoniaca, hanno rifiutato di ascoltare e mettere in pratica la Parola di Dio per seguire la voce delle loro passioni.

La meta finale rivela il tipo di condotta di vita: chi ha cercato il regno di Dio trova la sua gioia nel servire i fratelli guidato dalla Parola, che ispira sentimenti di compassione e gesti di carità. La fede operosa nella carità fa gioire anche nelle difficoltà più dolorose. L’incredulità è invece la scelta di non vedere al di là dell’interesse personale e delle proprie idee. Tutti sono vulnerabili come pecore e capri e oggetto di prevaricazioni e ingiustizie. La differenza emerge dal modo con cui le ferite sono curate. Chi rifiuta la medicina della misericordia non guarisce dalle ferite dell’orgoglio e si condanna al dolore che continuamente si rinnova e che genera disperazione e malvagità. 

MEDITATIO

Lo scrutinio necessario con gli occhi dei fratelli più piccoli

Nel vangelo di Matteo gli insegnamenti di Gesù sono raccolti in cinque discorsi il primo dei quali è tenuto sul monte, non meglio definito e che comunque richiama il Sinai dove Dio diede la legge a Mosè, e l’ultimo a Gerusalemme sul monte Sion dove sorgeva il tempio. Il primo insegnamento si apre con le beatitudini indirizzate ai poveri in spirito, agli afflitti, ai miti, agli affamati e assetati di giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per la giustizia. L’ultimo insegnamento si conclude non la scena del giudizio universale in cui il Figlio dell’uomo siede sul suo trono regale per emettere la sentenza.

Nel primo discorso Gesù indica nella santità l’obbiettivo che siamo chiamati a raggiungere nella nostra vita. Come Dio sul monte Sinai offre al popolo d’Israele la sua alleanza per raggiungere e stabilirsi nella Terra promessa, così Gesù sul monte, anticipazione del Golgota, offre a tutti la possibilità di stabilire un patto, come quello nuziale, per entrare nel regno di Dio.

La profezia di Ezechiele fa da sfondo all’immagine allegorica offerta da Gesù. Dovunque siano i discepoli, dispersi e disseminati nel mondo, essi si riuniscono attorno a Lui per ascoltarlo. Ogni qualvolta ci riuniamo nel nome di Gesù Lui è in mezzo a noi. Non basta dire «Signore, Signore» per essere di Cristo, ma dopo aver ascoltato la sua parola bisogna metterla in pratica. Solo allora il regno di Dio che Gesù è venuto ad inaugurare diventa veramente realtà e noi possiamo esserne parte a pieno titolo. Tuttavia, cosa significa essere discepoli di Cristo e cittadini del regno, lo spiega Gesù stesso sia alla fine del discorso della montagna che al termine dell’insegnamento tenuto nel tempio di Gerusalemme. Ci sono infatti falsi profeti che vengono in veste di pecore, ma dentro sono lupi rapaci (Mt 7, 15), sono quelli che dicono: «Signore, Signore, non abbiamo forse profetato nel tuo nome? E nel tuo nome non abbiamo forse scacciato demòni? E nel tuo nome non abbiamo forse compiuto prodigi?». A questi tali Gesù dirà: «Allontanatevi da me voi che operate l’iniquità» (Mt 7, 22-23). Così comprendiamo che i «capri» posti alla sinistra e chiamati «maledetti» sono quei falsi profeti con la maschera di pecore, che hanno vestito l’abito del buon cristiano perché hanno fatto tante cose in nome di Gesù, ma senza amore. Essi credono di potersi vantare davanti a Dio dei loro meriti e dei molti servigi, ma non si erano accorti di Lui, lì dove era, nei fratelli più piccoli.

Il Figlio dell’uomo viene nella sua gloria e sale sul suo trono di gloria quando scende per farsi uno di noi, muore sulla croce per perdonare i peccati del mondo intero e risorge per fare di tutti gli uomini l’unica famiglia di Dio. Il re si fa servo dell’uomo per prendersi cura dei suoi figli come fa un pastore con le pecore del suo gregge che sono disperse. Il profeta Ezechiele descrive con quanta premura e amorevole attenzione Dio aiuta soprattutto coloro che le prove della vita e le ingiustizie hanno prostrato nel dolore.

Il Regno di Dio è Dio stesso che ama gli uomini e per radunarli scende in mezzo a loro e si mette al loro servizio. Così egli santifica il suo Nome! La santità di Dio, cioè la sua gloria, si manifesta quando si fa servo dell’uomo e muore sulla croce per noi affinché, ci ricorda san Paolo, noi possiamo risorgere e vivere in Lui. Riceve il regno di Dio nella gloria chi regna con Lui nel servizio. La gioia nell’usare misericordia è anticipazione nel presente della vita eterna.

Siamo chiamati oggi anche a farci “scrutare” dalla Parola ascoltata. Davanti al Signore facciamo il nostro scrutinio e verifichiamo se il nostro agire quotidiano s’ispira al vangelo o alla logica del mondo. Come avviene alla conclusione di un percorso o di una esperienza o semplicemente della giornata dovremmo trovare il tempo di esaminarci e fare verifica: ho messo in pratica la parola che ho ascoltato? Ho restituito a Dio l’amore che lui mi ha dato condividendolo con i più piccoli?

Gesù ha insegnato con la parola e con la sua vita donata che vivere vuol dire regnare, ovvero significa uscire da sé e rispondere non solo al proprio bisogno ma anche a quello della sorella e del fratello più vicino e più piccolo. È proprio il bisogno e ciò che ci manca, piuttosto che i meriti e ciò che possediamo, a permettere di scoprirci come persone e riconoscerci come fratelli.

Dietro i problemi più grandi di noi della fame nel mondo, della siccità, della malasanità, dell’ingiustizie che mortificano la dignità, dell’immigrazione, della malavita e della corruzione, ci sono i fratelli più piccoli che sono accanto a noi. Combattere e lavorare per la giustizia non significa semplicemente denunciare il problema ma esige di partire dalla solidarietà a coloro che soffrono maggiormente per la loro condizione d’indigenza.

Si diventa umani nella misura in cui si vede oltre sé stessi sia per riconoscersi bisognosi di cure, sia per prestare aiuto ai fratelli. Il giudizio della Croce ci educa a guardarci e guardare oltre il problema, come persona. Prima dei diritti c’è l’uomo, prima del problema c’è la persona, prima dell’io c’è il noi. La misericordia praticata ripulisce l’uomo da ogni sporcizia e incrostazione restituendogli la bellezza originaria nella quale risplende la gloria di Dio.

La Carità è il fine di ogni vita

Leggendo la parabola del giudizio universale la mente corre subito al grande affresco di Michelangelo della Cappella Sistina. Campeggia in posizione centrale il Cristo Re nell’atto di richiamare l’attenzione e creare il grande silenzio per emettere la sentenza e fare verità. Nella parabola abbiamo prima una separazione per distinguere i protagonisti in due gruppi e poi un duplice atteggiamento, il primo di accoglienza, il secondo di respingimento. Entrambi i gruppi sono identificati con due tipologie di ovini che erano impiegati nei sacrifici al tempio e nei riti. Questa immagine suggerisce il fatto che siamo nel campo della religiosità. Tuttavia, la distinzione è finalizzata a rivelare il modo con cui si vive la propria fede. Infatti, si può fare una scelta religiosa reale o solo ideale. I benedetti sono tali perché nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel nudo, nel malato, nel carcerato non colgono tanto un problema da risolvere, ma innanzitutto una persona concreta da aiutare facendosi prossimo, condividendo il suo dolore e infondendo speranza; perciò essi, senza saperlo incontrano Cristo, lo toccano nelle sue membra doloranti, lo ascoltano guardandolo negli occhi, lo accolgono facendolo sentire a casa, lo vestono ridonandogli dignità, lo curano accompagnandolo nel dolore, lo visitano per confortarlo e dargli speranza. I maledetti sono quelli che vedono nell’affamato, nell’assetato, nello straniero, nel nudo, nel malato, nel carcerato innanzitutto un fenomeno da analizzare. Si fanno convegni, approfondimenti, studi, progetti per combattere la fame, per rendere pubblica l’acqua, per gestire l’immigrazione, per stroncare lo sfruttamento … ma senza toccare la carne di Cristo, senza sentire il morso della fame e l’arsura della sete, la tristezza dello straniero e l’umiliazione del nudo, la sofferenza del malato e frustrazione del carcerato. In definitiva senza un contatto reale con l’umanità non c’è incontro con Cristo e l’impegno sociale millantato è solo un misero tentativo di amore a sé stessi e per sé stessi che relega il rapporto con Gesù nell’elenco dei doveri da compiere o nei pii desideri da realizzare avendo tempo. Colui che entra in sintonia col suo fratello e percorre con lui la via della croce alla fine scopre che ha condiviso la vita con Cristo.

Commento a cura di don Pasquale Giordano
Vicario episcopale per l’evangelizzazione e la catechesi e direttore del Centro di Spiritualità biblica a Matera

Fonte – il blog di don Pasquale “Tu hai Parole di vita eterna

Articoli Correlati