don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 18 Febbraio 2023

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È una liturgia di luce quella odierna. Come non ricordare che la prima parola che Dio pronuncia nella Bibbia è: “Sia la luce!”?. Come non ricordare ancora che l’ultima immagine che l’Apocalisse ci presenta di Cristo è: “Io sono la stella del mattino”? Tra la prima e l’ultima parola c’è tutto il cammino di trasfigurazione di ogni creatura in luce, attraverso una esperienza di illuminazione che è a portata di tutti: l’ascolto di Gesù, della sua Parola.

Ascoltatelo. È l’ascolto di lui che progressivamente tesse per noi dei veri e propri abiti di luce. Quando Mc scrive il suo vangelo la sua è una comunità che conosce già l’esperienza della persecuzione. Perciò è una comunità tentata: “se è vero che con il Battesimo siamo stati immessi nella vita nuova, come mai ci ritroviamo ancora esposti  ad una realtà che sembra smentire quanto pure ci era stato promesso?”.

La trasfigurazione, appunto, è la risposta. La gloria del Figlio di Dio, infatti, si nasconde sotto le vesti del servo sofferente. Lo stesso è per la comunità cristiana: il suo tesoro è dentro la sua povertà e nelle sue prove.

Il discepolo è chiamato a fidarsi: chi ha fiducia (‘emunah) e l’artista (amman) hanno molto in comune: sono capaci di vedere l’invisibile. Sul monte Abramo aveva fatto esperienza di un Dio che provvede. E provvede non anzitutto un’altra vittima per il sacrificio. Dio provvede, cioè a lui sta a cuore la vicenda umana, la storia. E la fede dell’uomo è chiamata a riconoscere come davvero tutto concorra al bene di coloro che amano Dio. Persino l’assurdo della storia è luogo attraverso il quale Dio si rivela e all’uomo è dato di vivere una continuità della sua relazione con lui. La fede che il discepolo è chiamato ad esprimere è capacità di riconoscere e accogliere la presenza misteriosa di Dio, qualunque sia la veste che essa indosserà. Anche quella che immediatamente noi leggiamo come quotidiana riprovazione è luogo nel quale Dio provvede alla nostra storia attimo per attimo. È la tenebra il luogo proprio della fede. Non a caso il Salmo ci fa pregare: “Ho creduto anche quando dicevo: sono troppo infelice”.

Ascoltate lui! Non vi siete sbagliati.

Quando la luce si spegne, “i discepoli non vedono che Gesù”, uno come gli altri, solo, uomo fragile che parla di sé come di un condannato a morte. Non ci resta che l’umano. E questo umano non è altro da Dio.

Loro come noi chiamati a non vedere nulla e non ascoltare altri che lui. L’umana condizione diventa il luogo della fede. Dio si nasconde nella tribolazione di un viaggio di morte e nella tribolazione di un giudizio ingiusto.

Se da una parte il Tabor ci indica la meta gloriosa del nostro cammino, dall’altra ci dice quale sia l’unico cammino possibile per raggiungerla: il passare da una fede rassicurante, comunque vincente ad una fede capace di assumere le contraddizioni della storia.

La trasfigurazione non elimina la fatica del cammino. Solo ne rivela il significato nascosto. Essa è solo una caparra, una primizia, un anticipo di luce perché ciascuno di noi avanza nel cammino per la forza che gli deriva da quegli istanti di luce che pure già ha gustato.

D’ora in avanti per conoscere Dio non c’è da salire su nessuna montagna perché l’appuntamento con lui è fissato non in una rarefatta esperienza di luce ma nelle trame della vicenda umana.

Perché questo? Perché Dio scende dove scende l’uomo, Dio abita dove abita l’uomo. Forse solo così possiamo comprendere uno degli enunciati della nostra fede, quando diciamo che in Gesù Dio e l’uomo sono una sola persona. Vuol dire che la condizione umana e la condizione di Dio si manifestano nello stesso momento, nello stesso evento.

Autore: don Antonio Savone

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